che gli altri si fanno di un individuo, ed è anche possibile che vi sia un certo grado di 
corrispondenza tra le intenzioni comunicative di chi indossa un abito e quelle di chi 
osserva. La presentazione e la manipolazione di un vestito possono essere utilizzate 
per trasmettere informazioni che riguardano diverse caratteristiche sociali, 
psicologiche e culturali di una persona. Di conseguenza l’abito serve da un lato per 
veicolare quali comportamenti più probabilmente verranno attuati da parte di chi lo 
indossa, dall’altro lato per comprendere quali atteggiamenti è possibile aspettarsi. 
   Gli abiti sono strumenti simbolici al pari delle parole: esprimono la personalità, le 
emozioni, e lo stile comportamentale di chi li indossa. In una situazione interattiva 
l’abito comunica ad un interlocutore un preciso messaggio. I vestiti “parlano”, infatti 
i segnali non verbali provenienti dal corpo e dall’abbigliamento possono comunicare 
e trasmettere qualcosa di cui non sempre si è pienamente consapevoli. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1 – La moda: modelli teorici a confronto 
 
 
1. La moda come sistema multidimensionale  
 
 Con gli studi di Simmel
1
 e di Veblen
2
, la moda venne analizzata per la prima volta in 
maniera sistematica come un processo che riguardava diversi individui in differenti 
gruppi o ambienti sociali. Avendo come punto di riferimento un modello di società 
diviso in classi, e constatando che nella moda agivano due elementi fra loro 
contrapposti – una spinta verso l’imitazione di un modello già esistente che appagava 
il bisogno di coesione sociale del singolo individuo, e l’esigenza opposta di potersi 
differenziare dagli altri – Simmel fornì una spiegazione dell’origine e della diffusione 
della moda in linea con le dinamiche sociali: la moda doveva intendersi come “moda 
di classe”, le classi inferiori imitavano la moda delle classi superiori e queste ultime, 
per potersi ancora differenziare, creavano una nuova moda quando l’imitazione aveva 
avuto come effetto l’annullamento di ogni differenza. In modo non dissimile, Veblen 
teorizzò che la classe dominante, attraverso la moda, poteva disporre di uno 
strumento con cui mostrare agli altri la propria agiatezza.  
   L’origine della moda non era tanto legata ad un bisogno naturale, come ad esempio 
la necessità di proteggersi dal freddo o dal caldo, o ad una esigenza morale, o 
estetica, ma da un bisogno sociale che comprendeva tutti gli altri elementi naturali, di 
ostentazione del proprio status, di differenziazione dagli altri, e allo stesso tempo di 
coesione all’interno del proprio gruppo. In questo modello, tanto Simmel che Veblen 
avevano cercato di cogliere la natura stessa della moda e di spiegare, attraverso le 
tendenze sociali che determinavano la nascita, il consolidamento e il declino di una 
specifica moda, il suo legame con un particolare contesto storico, geografico ed 
                                                 
1
 Simmel, G., “Fashion, International Quarterly”, 1904 
2
 Veblen, T., “The Theory of Leisure Class”, New York, 1899 – Trad. It. “La teoria della classe agiata” 
economico. L’essenza intima della moda risiedeva nella sua capacità di espandersi 
fino ad interessare la quasi totalità delle persone.  
   Il meccanismo che dava vita ad una moda era lo stesso, però, che ne decretava la 
distruzione. Una volta che una moda si era imposta fino ad essere accettata dalla 
maggior parte delle persone appartenenti a diversi ceti sociali, quella moda finiva di 
essere tale e doveva essere sostituita da qualcosa di nuovo, da un’altra moda che a 
poco a poco s’imponeva e si diffondeva come la precedente.  
   La teoria di Simmel, che prevedeva la diffusione della moda attraverso il solo 
movimento dall’alto verso il basso (trickle-down theory), era senza dubbio nata 
dall’osservazione del ciclo della moda in vari periodi storici a partire dall’antichità. 
Tuttavia, si può supporre che furono determinati per tale teoria i grandi mutamenti 
apportati dalla rivoluzione industriale nella società, e che si erano verificati solo 
pochi decenni prima della formulazione del modello trickle down. Considerando 
questo background storico, si può capire in tutto il suo valore, come anche nei suoi 
limiti, l’ipotesi di Simmel: i concetti d’imitazione e di differenziazione venivano ad 
assumere un valore molto diverso in una società industriale rispetto al passato. Il 
mondo della produzione di massa aveva creato un’interazione e un contatto fra le 
classi sociali fino ad allora impensabili: la spinta verso l’imitazione di specifici 
modelli era determinata dalla produzione industriale, e a sua volta, orientava 
quest’ultima; la stessa cosa avveniva per il bisogno opposto di differenziazione. 
L’imitazione e la differenziazione divennero bisogni sociali soprattutto nel nuovo 
contesto della società industriale. Nelle società pre-industriali, infatti, la distanza fra 
le classi sociali appariva assai più ampia, l’imitazione e la differenziazione si 
svolgevano con tempi estremamente lenti, e la moda non aveva necessità di 
cambiamenti repentini. 
   Invece, l’organizzazione e la struttura della società industriale tendono ad 
espandere lo spazio della moda e ne rendono possibile una diffusione sempre più 
rapida. Non a caso, proprio negli anni i cui Simmel descriveva la sua ipotesi, 
comparvero gli studi di Tarde
3
 sull’imitazione, tesi ad evidenziare gli aspetti socio-
economici di tale fenomeno. Tuttavia, un altro aspetto doveva essere considerato in 
relazione alla moda nel contesto della nuova società industriale: quello comunicativo. 
   In effetti, nella società industriale, la distanza fra le classi sociali appariva diversa 
rispetto al passato, anche perché diversi erano gli strumenti comunicativi a 
disposizione. Attraverso la moda si poteva attuare una comunicazione tra le diverse 
classi sociali, e più in generale, tra individuo e società. Questo aspetto comunicativo 
della moda venne analizzato a fondo da numerosi studi sull’abbigliamento: dai 
classici contributi da Flügel, che per primo applicò in questo campo alcuni concetti 
per dimostrare il rapporto tra l’espressione corporea, i vestiti e il tipo di messaggio 
veicolato  
da una determinata moda, a ricerche più vicine ai giorni nostri che si sono interessate 
di cogliere la relazione fra lo sviluppo del sé nel bambino, e la scelta 
dell’abbigliamento, legando quest’ultima ai processi di socializzazione. 
   Attualmente, tale campo è al centro di numerosi studi teorici e metodologici tesi a 
considerare il linguaggio degli abiti, i ruoli sociali ad esso connessi, e gli stati 
d’animo, gli umori che possono essere codificati in determinati tipi d’abbigliamento, 
e nella scelta dei colori (ad esempio, l’abito di lutto). Tuttavia l’equazione 
abito=linguaggio, per quanto importante, rappresenta soltanto un aspetto parziale 
della dimensione comunicativa propria della moda. Bisogna riconoscere che è la 
moda stessa in quanto tale a creare degli strumenti di comunicazione attuando una 
scelta tra una serie di possibili modelli alternativi. 
   La moda nasce e si sviluppa laddove è possibile una situazione competitiva che 
permette una libera scelta tra diversi modelli e laddove tale scelta non venga 
determinata da considerazioni di ordine razionale, pratico o utilitario. La moda quindi 
si presenta come scelta. Per Blumer
4
, il confronto fra i vari modelli porta ad 
un’elaborazione collettiva degli stessi: la moda, quindi, scaturirebbe da un processo 
di “selezione collettiva” attuato mediante un continuo scambio di informazioni. 
                                                 
3
 Tarde, G., “Le lois de l’imitation”, Parigi, 1911 – Trad. It. ”Scritti sociologici” 
4
 Blumer, H., “Fashion: from class differentiation to collective selection” The Social Quarterly, 1969 
Rispetto alla teoria trickle down di Simmel, l’ipotesi di Blumer sembra dare una 
maggiore enfasi agli elementi comunicativi: questi ultimi sono attivi non solo nella 
diffusione di un nuovo modello, ma anche nella creazione dello stesso che coinvolge 
un gran numero di persone. Non necessariamente l’ipotesi della “selezione collettiva” 
contrasta con quella trickle down. Esse affrontano il fenomeno della moda da due 
punti di vista diversi: i movimenti dell’imitazione e della differenziazione, analizzati 
da Simmel, presuppongono un modello già formato che deve essere da una parte 
imitato, e dall’altra, sostituito con qualcosa di nuovo; mentre il processo di “selezione 
collettiva” riguarda più specificamente la formazione del modello. 
   La creazione e la diffusione di una moda si realizzano in buona parte attraverso uno 
scambio di messaggi emotivi che vengono condivisi di un numero via via crescente di 
persone appartenenti a diversi ambenti culturali e sociali. Almeno in alcune fasi del 
processo che conduce alla formazione di una moda, un certo coinvolgimento 
emozionale appare necessario: si pensi ad esempio all’entusiasmo che spesso 
accompagna il lancio di un nuovo comportamento o stile e alla rapidità, simile al 
contagio, col quale esso si diffonde. 
   Essere “alla moda” permette, in un certo senso, di essere in contatto con gli altri, di 
identificarsi con un determinato gruppo, e di condividerne i valori: ciò determina 
un’accettazione della propria immagine sociale, e favorisce un miglior rapporto con 
se stessi. 
Il fenomeno della moda si presta a diversi livelli di analisi e in esso operano diverse 
dimensioni: quella socio-economica, comunicativa ed emotiva, le quali possono 
essere viste come i tre principali movimenti che danno vita al processo che porta alla 
formazione di una moda, processo che si sviluppa sia nel singolo individuo, sia 
collettivamente.