5
un nuovo testimone umanistico, il codice Vat. lat. 5958 (A)
4
; è questo il 
manoscritto che Lindsay indicava come «codex Achillis Maffei» all’interno 
della sua Praefatio, ma che materialmente non conosceva. Inoltre, il fatto che 
Lindsay non abbia esaminato di persona i manoscritti umanistici che tramandano 
il testo di Festo, ha impedito al filologo di accorgersi della presenza, all’interno 
di alcuni di essi, di glosse che invece risultano assenti nella parte di F che 
possiamo ancora oggi leggere
5
. Lo stesso Festo Farnesiano (Neap. IV A 3) non è 
stato collazionato direttamente dal Lindsay, che si è invece servito delle letture 
effettuate da altri studiosi, differenziandole, nel caso di divergenze, con apposite 
sigle, utilizzate poi in apparato. In generale si comprende dunque quanto 
bisogno ci sia di una nuova edizione critica che tenga conto di tutte le nuove, più 
o meno recenti, acquisizioni; ma, prima di arrivare a questo, è importante tentare 
di chiarire i rapporti che intercorrono tra i vari testimoni dell’opera. Questo 
lavoro, attraverso la collazione dei testimoni umanistici del testo ed il loro 
confronto col testo tradito dal Festo Farnesiano, si propone di formulare – e 
tentare di giustificare – alcune ipotesi sulla tradizione manoscritta del De 
verborum significatione di Festo. Non essendo però possibile, per motivi di 
tempo, effettuare una collazione sistematica di tutto il testo conservato dai 
manoscritti, si è deciso in questa sede di sceglierne alcune parti significative. A 
questo proposito bisogna precisare che oggi F consta di soli sei dei suoi fascicoli 
originari: IX, XI (di cui però è rimasto solo il bifoglio esterno), XII-XV (ma a 
                                                 
4
 Ruysschaert 1973. 
5
 Per queste sei glosse “nuove” cfr. Moscadi 1981¹. 
 6
quest’ultimo manca il terzo foglio). Al momento della sua ricomparsa in età 
umanistica, tuttavia, F comprendeva ancora anche i fascicoli VIII, X e XVI, che 
sembra però abbiano avuto una circolazione indipendente rispetto al resto del 
manoscritto, dato che sono stati copiati in alcuni (ma non in tutti) gli apografi 
umanistici di F. E’ quindi legittimo supporre che per il testo di non tutti i 
fascicoli sia ricostruibile - nel passaggio da F agli apografi - lo stesso stemma 
codicum. Sono stati scelti dunque, come oggetto della collazione, tre fascicoli 
esemplari di tre diverse condizioni filologiche: il nono è infatti, ad oggi, 
conservato da F e, fra gli apografi umanistici, da W, X, A, V, Z (ma 
quest’ultimo è acefalo e perciò non comprende tutto il testo di questo fascicolo); 
l’undicesimo, pur constando di un solo bifoglio, è conservato da F e da tutti gli 
apografi umanistici; infine il sedicesimo ci è tramandato da tutti i codici 
umanistici, ma non più da F.  
Si comprende a questo punto come la collazione di queste tre porzioni di testo 
possa fornire un quadro coerente dei rapporti intercorsi tra l’archetipo F ed i suoi 
apografi umanistici, dei quali ancora oggi, nonostante l’impegno di numerosi 
esperti, manca una rassegna completa.  
 7
1. INTRODUZIONE 
 
1.1. Originalità dell'opera 
Il De verborum significatione
1
 di Sesto Pompeo Festo è un'opera di grande 
importanza nell'ambito della letteratura latina, in quanto testimonia il tentativo, 
da parte di un intellettuale romano del II secolo d.C., di recuperare e tramandare 
le antiquitates romane in ogni loro aspetto. Festo era guidato nella scelta dei 
lemmi, e quindi delle citazioni che li illustravano, da un gusto letterario che lo 
spingeva a proporre al lettore, come modelli da seguire, parole arcaiche sì, ma 
non ancora cadute in disuso. Ma in che misura il contenuto dell'opera rispecchia 
effettivamente i gusti e gli interessi dell'epoca in cui Festo scrive? Ancora molto 
dibattuta è la questione dell'originalità o meno di questo glossario: 
generalmente, infatti, il De verborum significatione viene considerato come un 
compendio della perduta opera di età augustea di Verrio Flacco intitolata De 
verborum significatu. Questa considerazione si basa in particolare su 
un'affermazione contenuta nel lemma [Poriciam], purtroppo oggi acefalo. Qui 
Festo dichiara
2
: cuius opinionem, neque in hoc, neque in aliis compluribus 
refutare minime necesse est, cum propositum habeam ex tanto librorum eius 
numero intermortua iam et sepulta verba atque ipso saepe confitente nullius 
usus aut auctoritatis praeterire, et reliqua quam brevissime redigere in libros 
admodum paucos. Ea autem, de quibus dissentio, et aperte et breviter, ut sciero, 
                                                 
1
 Alla questione riguardante il titolo dell’opera (che d’ora innanzi verrà indicata con la sigla DVS) è dedicato il 
paragrafo 1.2. 
2
 Lindsay 1913, pag. 242,28-244,1. 
 8
scribta in {h}is libris meis invenientur, [qui] inscribuntur “priscorum verborum 
cum exemplis”
3
. Secondo molti studiosi qui Festo dichiarerebbe la sua volontà 
di raccogliere, in pochi libri, la mole di informazioni presenti nell'opera di 
Verrio, escludendo le parole intermortua iam et sepulta. Dunque questo passo è 
stato per molto tempo considerato la prova della non originalità dell'opera di 
Festo rispetto a quella di Verrio. Questa era l'opinione di Antonio Agustín, che 
peraltro credeva che la perifrasi priscorum verborum cum exemplis si riferisse 
allo stesso De verborum significatione precisandone, per così dire, il titolo
4
. Lo 
Scaligero corresse l'affermazione dell'Agustín sul titolo, precisando che i libri 
priscorum verborum cum exemplis costituivano un'altra opera di Festo, ma 
sostanzialmente concordò nel ritenere Festo semplicemente l'epitomatore di 
Verrio
5
. Dello stesso avviso fu il Müller che, nella prefazione alla sua edizione, 
citò altre due glosse del DVS a sostegno di tale posizione
6
: nel primo passo, che 
si trova all'interno della glossa Pictor Zeuxis (pag. 228,10-18 Lindsay), Festo 
scrive: cur hoc loco relatum sit a Verrio, cum de significatu verborum scribere 
propositum habuerit, equidem non video...; nel secondo, all'interno del lemma 
Tatium (pag. 496,8-13 Lindsay),  Müller ritiene che l'ait del rigo 8 avesse per 
soggetto sottinteso Verrius, e che la frase quod ad significationem verborum non 
magis pertinet, quam plurima alia... contenesse un riferimento al De verborum 
significatu di Verrio Flacco. Solo in tempi più recenti questa ipotesi è stata 
                                                 
3
 Nell’utilizzo dei segni diacritici ci si è attenuti al seguente criterio: la parentesi quadra segnala un’integrazione 
compiuta in corrispondenza di una lacuna testuale; la parentesi uncinata indica integrazioni eseguite in assenza di 
lacune testuali; la parentesi graffa segnala le espunzioni. 
4
 Agustín 1559, praefatio. 
5
 Scaliger 1576. 
6
 Mueller 1839, pp. XII e XXIX. 
 9
rivista, in particolare riconsiderando il significato del passo contenuto all'interno 
di [Poriciam]: il Moscadi ha infatti messo in discussione l'identificazione 
dell'opera di cui Festo parla nel passo in questione con il DVS
7
. In primo luogo 
egli sostiene che il DVS non è costituito da libri admodum pauci, bensì è, con i 
suoi venti libri, una delle opere più lunghe all'interno della tradizione 
grammaticale latina; quindi ritiene che con quella espressione Festo abbia voluto 
indicare un suo prossimo lavoro che non si identificherebbe con il DVS. In 
secondo luogo Moscadi propone di mantenere la lezione his del Festo 
Farnesiano, invece dell'is pubblicato da Lindsay; in questo modo, afferma 
Moscadi, è chiaro che proprio l'his in questione si riferisce a quei libri admodum 
pauci identificabili con l'opera priscorum verborum cum exemplis. A sostegno 
del tradito his si può citare un passo di Cesio Basso che presenta molte 
somiglianze con quello festino: De quibus in his libris explicabimus, quos de 
melicis poetis et de tragicis choris scripturi videmur quibus necesse erit etiam 
graeca interponere exempla, quod ne faceremus in hoc libro elaboravimus
8
. 
Come si vede la struttura della frase è analoga a quella del passo festino preso in 
esame, poiché esprime l'intenzione di rimandare al futuro la trattazione di 
argomenti che non trovano spazio nell'opera che l'autore sta componendo; in 
questo senso si può ritenere che nel passo in questione Festo non abbia fatto 
altro che esprimere, con una formula tipica, una dichiarazione di intenti.  
                                                 
7
 Moscadi 1979. 
8
 Keil 1874, p. 272,5-8. 
 10
Certamente il fatto che nessun autore antico affermi mai di ritenere il DVS 
un'epitome del De verborum significatu, unito all'opinione di Manilio Romano 
(il primo editore dell'Epitome di Paolo Diacono), di Giovan Battista Pio (il 
curatore dell'editio princeps)
9
, e di Aldo Manuzio riguardo l'originalità del 
glossario di Festo
10
, non può non essere preso in considerazione. Va però 
attentamente valutato il significato dell'affermazione del grammatico Carisio
11
: 
Sarcte pro integre. Sarcire enim est integrum facere, hinc sarta 'tecta uti sint' 
opera publica locantur, et ut Porphyrio ex Verrio et Festo 'in auguralibus' 
inquit 'libris ita est', 'sane sarcteque audire videre'. Mentre per il Müller 
Porfirione «nempe Festum legerat; Verrii nomine rei maius pondus addit»
12
, 
Moscadi invece ritiene che proprio la vicinanza cronologica tra Festo e 
Porfirione garantisca che quest'ultimo fosse in grado di leggere il glossario di 
Verrio Flacco, e che quindi non avrebbe abbinato i due nomi se avesse ritenuto 
Festo semplicemente l'epitomatore di Verrio
13
. In realtà anche il ragionamento 
inverso ha un senso, poiché l'indicazione dei nomi dei due autori accanto ad 
un'unica citazione potrebbe indicare che per Porfirione il nome di Festo fosse 
indissolubilmente legato a quello di Verrio. 
L'ipotesi che Festo abbia tenuto costantemente presente, durante la stesura 
della sua opera, il De verborum significatu di Verrio come un modello da cui 
attingere, pur con la volontà di costituire un testo originale, sembrerebbe 
                                                 
9
 Pius 1500, praefatio. 
10
 Manutius 1513, praefatio. 
11
 Carisio, Ars Grammatica, p. 285 Barwick. 
12
 Müller 1839, p. XXXI nota 3. 
13
 Moscadi 1979. 
 11
rafforzata dal comportamento osservato da Paolo Diacono all'interno della sua 
(questa sì!) Epitome del DVS di Festo
14
: nella lettera a Carlo Magno con cui gli 
dedica l'opera appena ultimata, Paolo si esprime in questi termini: Sextus 
Pompeius ... opus suum ad viginti usque prolixa volumina extendit. Ex qua ego 
prolixitate superflua quaeque et minus necessaria praetergrediens et quaedam 
abstrusa penitus stilo proprio enucleans, nonnulla ita, ut erant posita, 
relinquens, hoc vestrae celsitudini legendum conpendium optul
15
i. Dunque viene 
evidenziata anche da Paolo la singolare lunghezza del glossario di Festo, mentre 
non è in alcun modo indicata una derivazione di questo dal De verborum 
significatu di Verrio Flacco. E' pur vero, d'altra parte, che non è per noi possibile 
stabilire con certezza quanto questa lettera dedicatoria fosse dovuta 
effettivamente a Paolo: se si considera il fatto che egli aveva la possibilità di 
leggere tutto il testo del DVS, bisogna ritenere che egli abbia letto anche il per 
noi perduto proemio di Festo. Che questo proemio effettivamente esistesse, ce lo 
garantisce un catalogo del monastero di Cluny, compilato nel XII secolo, in cui 
si trova registrato un manoscritto miscellaneo che contiene anche il liber Festi 
Pompeii ad Arcorium Rufum
16
. Dunque si può supporre, con R. Cervani, che 
Paolo, al momento di stendere il proemio alla propria opera, abbia ripreso molto 
da vicino l'argomento che Festo aveva premesso al DVS, rinnovando solo la 
parte dedicatoria. In questo modo quindi l'importanza del proemio di Paolo 
                                                 
14
 Un’analisi dei rapporti tra l’Epitome ed il DVS di Festo si trova in Cervani 1978. 
15
 Lindsay 1913, p. 1,6-13. 
16
 Manutius 1935, p. 79, corregge il nome Arcorium in Artorium. 
 12
nell'ambito della discussione sulla originalità del DVS viene notevolmente 
ridimensionata. 
 
1.2 Il titolo 
Un'altra questione molto dibattuta riguarda il titolo del glossario di Festo, che 
oscilla presso gli studiosi fra tre forme diverse: De verborum significatu
17
, De 
verborum significatione
18
, De verborum significationibus. In particolare 
quest'ultima forma è stata sostenuta piuttosto recentemente da A. Moscadi
19
, che 
si fondava unicamente sulla testimonianza di Macrobio Sextus (Iulius codd., 
corr. L. Jan) Festus de verborum significationibus libro tertio decimo: “Mos est 
– inquit – institutum patrium pertinens ad religiones caerimoniasque maiorum” 
(cfr. p. 146,3-5 e p. 147,2-3 Lindsay)
20
. Tuttavia qualche anno dopo G. Morelli
21
 
ha messo in dubbio l'attendibilità del passo di Macrobio, formulando l'ipotesi 
alternativa che il titolo abbia subito una oscillazione (significatione / 
significationibus) analoga a quella che già nel II d. C. è testimoniata per il titolo 
dell'opera di C. Elio Gallo: De significatione verborum quae ad ius civile 
pertinent
22
 e De significationibus verborum quae etc.
23
                                                 
17
 Così credevano Thewrewk 1889 e Lindsay 1913 e 1930. 
18
 Così credeva Müller 1839. 
19
 Moscadi 1979. 
20
 Sat. III 8,9. 
21
 Morelli 1984. 
22
 Cfr. Gell. Noct. Att. 16, 5, 3 e Macrob. Sat. 6, 8, 16. 
23
 Cfr. Fest. 244,9 sgg. Lindsay e 336,6 sgg. Lindsay. 
 13
Dopo l'intervento di Morelli, Moscadi è ritornato, in due suoi articoli 
successivi, alla forma significatu
24
, per poi scegliere addirittura di riportare il 
titolo nella forma abbreviata De verbor. signif.
25
. 
Nel 1992 un intervento di M. De Nonno ha posto l'attenzione sull'inesattezza 
delle due forme significationibus e significatu, constatando in particolare come 
il successo di quest'ultima fosse fondato su un'errata lettura (risalente al 
Thewrewk) dell'incipit/explicit contenuto in F tra i libri XVIII e XIX, in base 
alla quale, invece dell'abbreviato significat., F avrebbe presentato la dicitura 
significatu
26
; in realtà, come dimostra De Nonno, quest'ultima lettura confonde 
un'ombra presente sul manoscritto con un inusitato nesso TV, e questo errore 
risale alla collazione effettuata dall'Abel ed utilizzata dal Thewrewk. Inoltre De 
Nonno giustifica la preferenza accordata alla forma significatione con l''usus 
scribendi' dello stesso Festo (dove ad undici occorrenze del termine 
significatione se ne contrappone solo una del comunque raro significatu
27
). 
Inoltre non va sottovalutata l'importanza della testimonianza recata dal titolo 
dell'Epitome di Paolo Diacono, che nella maggior parte dei manoscritti si trova 
nella forma Excerpta Pauli ex libris Festi Pompeii de significatione verborum. 
Recentemente infine il Moscadi è ritornato sulla questione con un articolo in cui, 
pur ammettendo con Morelli che il titolo potesse essere soggetto fin 
dall'antichità ad un'oscillazione, si ripropone di individuare quale fosse la forma 
                                                 
24
 Moscadi 1987¹ e 1987². 
25
 Moscadi 1990. 
26
 De Nonno 1992. 
27
 A quelle già indicate da De Nonno, Moscadi ne aggiunge una dodicesima, che si trova a pag. 192,14 Lindsay. 
 14
scelta dall'autore
28
. Di nuovo egli esprime la sua preferenza per il plurale 
significationibus, affermando come “dal punto di vista della lingua latina, l'uso 
del plurale significationibus, invece del singolare significatione, in quanto 
riferito al plurale verba, sia del tutto naturale e corretto”
29
; questa spiegazione 
tuttavia non convince pienamente e fra l'altro si nota come, poche righe più 
avanti, nel tentativo di spiegare la diversa forma del titolo in Paolo, lo stesso 
Moscadi continui a citare l'opera di Festo nella forma abbreviata De verbor. 
signif. 
 
1.3. Il Festo Farnesiano 
La tradizione manoscritta del DVS si fonda sul cosiddetto Festo Farnesiano 
(=F; Neap. IV A 3), archetipo da cui, in circostanze diverse da caso a caso, 
derivano tutti i codici umanistici che conservano il testo. F è stato datato alla 
seconda metà dell'undicesimo secolo ed è originario di Roma: il Loew additava 
nella scrittura di questo codice un inconfondibile esempio del tipo di minuscola 
fiorita a Roma e nelle vicinanze, elencando in sei punti le caratteristiche grafiche 
e di ornamentazione che accomunano F al codice Vat. lat. 378 (Martirologio di 
S. Maria in Pallara)
30
. Anche P. Supino Martini lo ritiene originario di Roma, e 
precisa: «Una tradizione parsa ben poco attendibile lo localizzava in Illiria ed 
un'altra ancora, basata sull'equivoco romanesca = farfense, lo rivendicava 
                                                 
28
 Moscadi 1999. 
29
 Moscadi 1999, p. 12. 
30
 Loew 1911.