7  
  Proprio in merito a questo problema, da ricerche personali effettuate 
presso tossicodipendenti locali, sono emerse le medesime ragioni messe 
in evidenza da Guazzaloca e Pavarini
1
 su scala nazionale, vale a dire: a) il 
tossicodipendente condannato ad una pena breve preferisce di gran lunga 
la detenzione rispetto alla scelta terapeutica di tipo essenzialmente 
comunitario; b) il tossicodipendente definitivo in attesa di ulteriori 
procedimenti a suo carico, sapendo che non può usufruire della misura 
per più di due volte, preferisce non “bruciarsi” subito questa possibilità; 
c) i tossicodipendenti che vorrebbero optare per l’opzione terapeutica, 
soprattutto quelli di lunga “militanza”, si trovano a non avere alternative 
rispetto al carcere in quanto, ad esempio, la comunità terapeutica non 
ritiene di dovere “disperdere” energie nei confronti di tali soggetti 
ritenuti “irrecuperabili” per dedicarsi interamente ed esclusivamente 
verso quei soggetti tossicodipendenti che possano essere più “facilmente” 
recuperati    
 Nel presente studio verranno trattate brevemente anche altre 
problematiche quali, ad esempio, la funzione della pena e della misura di 
sicurezza, l’imputabilità del tossicodipendente nell’ordinamento italiano 
e nella legislazione europea, nonché i risultati ottenuti nella realtà 
modenese dalla misura de quo.  
   Prima di entrare nel merito dell’oggetto dello studio che segue
2
, quale 
misura alternativa alla detenzione per i tossicodipendenti condannati ad 
una pena detentiva nel limite di quattro anni
3
 (anche come residuo di 
pena da scontare), che abbiano in corso o che intendano sottoporsi ad un 
programma di recupero, è necessario analizzare storicamente 
l’evoluzione delle leggi in materia di sostanze stupefacenti.  
                                                           
1
 B. Guazzaloca – M. Pavarini, Differenziazione per ragioni terapeutiche, in Giurisprudenza 
sistematica di diritto penale, a cura di F. Bricola e V. Zagrebelsky, Torino, Utet, 1995, 391.  
2
 Art. 94 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, già art. “47- bis” dell’ordinamento penitenziario, introdotto dal 
d.l. 144/1985, convertito nella legge 297/1985, successivamente modificato dalla legge 663/1986 e 
dallo stesso T.U. 309/1990. 
3
 Tale limite di pena, precedentemente fissato in tre anni, veniva introdotto dal d.l. 14 maggio 1992, n. 
132, convertito con modificazioni nella legge 14 luglio 1993, n. 222.  
8 
  Infatti, sotto il profilo storico e politico–criminale è interessante notare 
come la materia degli stupefacenti abbia visto nel dopoguerra un intenso 
intervento da parte del legislatore penale. 
  Non è possibile tuttavia intendere appieno il significato e la portata delle 
ultime proposte governative in tema di stupefacenti, se non le si mettono 
in relazione, in prospettiva storica, con le precedenti esperienze 
normative, compreso, naturalmente, il trattamento riservato al 
tossicodipendente dal Codice Rocco. 
  Nel settore degli stupefacenti il diritto penale ha subito nel corso del 
tempo vere e proprie “oscillazioni” che lo si può figurativamente 
accostare, per usare le parole di Adelmo Manna
4
, “al fenomeno della 
marea che avanza o si ritrae a seconda delle stagioni”. 
  Nel codice penale del 1930, la normativa di carattere ancora fortemente 
repressivo e tutto sommato poco incline all’ideologia del trattamento, se 
si eccettua il caso del cronico intossicato, denota chiaramente una visione 
dell’assuntore di droghe come un “vizioso” da reprimere, in primo luogo, 
e solo eventualmente da curare. 
 Tale prospetto, basato ancora sul convincimento, di matrice 
nordamericana, che il miglior modo per estirpare un “vizio” individuale 
sia quello di reprimerlo penalmente, assume poi la sua dimensione forse 
più compiuta nella legge 22 ottobre 1954, n. 1041, attraverso la quale il 
consumatore di quantità anche minime di stupefacenti veniva gravemente 
punito e il trattamento era reso più duro dalla carcerazione preventiva 
obbligatoria. 
Si parla in questo senso di periodo del proibizionismo perché la legge in 
questione puniva l’intero ciclo della droga, dal c.d. grosso spaccio al 
consumo anche di piccoli quantitativi.  Quello che qui preme rilevare è 
come ciò avvenisse mediante un’unica fattispecie criminosa che 
ricomprendeva tutte siffatte ipotesi, con il risultato di punire allo stesso 
modo, tranne l’agire nell’ambito della cornice edittale di pena, condotte 
fra loro diversissime. 
                                                           
4
 A. Manna, Legislazione “simbolica” e diritto penale: a proposito della recente riforma legislativa, in 
La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, a cura di F. Bricola e G. Insolera, 
Padova, Cedam, 1991, 20 
  9  
  Successivamente, dopo il constatato fallimento del proibizionismo, 
subentrava, con la legge 22 dicembre 1975, n. 685, il periodo 
dell’assistenzialismo in cui il consumatore di quantità modiche di 
stupefacenti era sottratto alla normativa penale, mentre era massimo lo 
sforzo delle istituzioni pubbliche, più teorico che pratico, per fornire 
assistenza morale e materiale ai tossicodipendenti. 
La legge 685/75, adotta un sistema definito a “forbice”, nel senso che, 
partendo dal presupposto che il tossicomane non può più essere 
qualificato né un vizioso, né tanto meno un delinquente, bensì solo un 
malato
5
, adotta per quest’ultimo non già trattamenti punitivi, riservati 
invece al traffico di stupefacenti, in una ottica general-preventiva, bensì 
curativi, in una visione più orientata alla prevenzione speciale.  La 
novità, pertanto, di tale legge consiste in un arretramento del tradizionale 
intervento punitivo nei confronti del consumo di modiche quantità di 
stupefacenti, il che però non significa affatto che ciò abbia comportato 
una sostanziale libertà di drogarsi.  Una lettura attenta della legge 
dimostra che la detenzione di modiche quantità di stupefacenti, ex art. 80 
c. 2, costituisce sempre un atto illecito, per cui la norma in questione 
prevede solo una condizione di non punibilità, in quanto la sostanza 
stupefacente è soggetta a confisca. 
  Non va inoltre dimenticato che la legge 685/75 non si limita a non 
punire, in senso tradizionale, il detentore di piccoli quantitativi di 
stupefacente, bensì ne prevede (artt. 99 ss), il trattamento terapeutico 
obbligatorio, il quale, almeno nelle intenzioni del legislatore, avrebbe 
dovuto fungere quasi da “misura sostitutiva” della detenzione prevista 
nella precedente legge del 1954. 
  Ciò che comunque appare evidente è che sicuramente la voluntas 
legislatoris non era quella di consentire di fatto una diffusa libertà di 
drogarsi, per cui, se ciò si è inteso, o si è voluto intendere, è dipeso 
soprattutto dalla circostanza per cui la legge 685, nella parte relativa ai 
trattamenti riabilitativi, è rimasta sostanzialmente disapplicata. 
                                                           
5
 Così la Relazione Commissione Giustizia e Sanità alla legge 22 dicembre 1975, n. 685, in Atti Senato 
VI leg., stampato n. 4- 819A. 
10 
  Anche noi aderiamo alla tesi di Adelmo Manna
6
, il quale ravvisa 
l’origine della necessità, avvertita dalla maggioranza parlamentare, di 
rivedere sostanzialmente la legge 685, nel senso di prevedere ancora una 
volta la sanzione penale per il semplice consumo di stupefacenti, in un 
mutato clima internazionale dominato, soprattutto, nel settore che qui ci 
interessa, dalla politica nordamericana, tendente a combattere con ogni 
possibile mezzo, non solo affidato al diritto penale, ma anche all’esercito, 
ciò che emblematicamente viene chiamata “lotta alla droga”.  
  Espressione di questo mutamento di indirizzo internazionale a livello 
politico-criminale risulta essere anche la legge 26 giugno 1990, n. 162. 
  Con tale intervento legislativo si tende infatti di nuovo a reprimere 
l’intero ciclo della droga, con una differenza tuttavia assai significativa 
rispetto alla legge del 1954.  Infatti non si adotta più la pena privativa 
della libertà personale per l’assuntore anche di piccoli quantitativi di 
stupefacenti, bensì sanzioni diverse e per certi versi sui generis.  Il 
tossicodipendente non è considerato un malato o un emarginato 
bisognoso di cura o di assistenza, ma un soggetto responsabile, titolare di 
diritti ma anche di doveri di solidarietà nei confronti della collettività.  Di 
conseguenza non vi è ragione di sottrarlo alla punizione per gli atti 
compiuti contro l’interesse della collettività stessa, anche se il consumo 
di minime quantità di sostanze stupefacenti è sanzionato con misure 
esclusivamente amministrative e non criminali. 
  I principi della riforma del 1990 si rivelano una scelta di compromesso 
tra l’assistenzialismo della soluzione adottata nel 1975 e il 
proibizionismo della formula del 1954. 
  La legge 162/1990 (poi integrata con la precedente disciplina dal d.p.r. 
9 ottobre 1990, n. 309, Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti, 
alla cui normativa faremo riferimento nel corso di questa dissertazione), 
si caratterizza per l’inasprimento delle previsioni sanzionatorie e, 
soprattutto, per la sostituzione della causa di non punibilità della modica 
quantità (art. 80 l. 685/1975), con la nozione di dose media giornaliera 
(art. 75) a cui corrisponde, come detto in precedenza, una gamma di 
                                                           
6
 A. Manna, Legislazione “simbolica” e diritto penale, cit., 1991, 22. 
  11  
sanzioni amministrative, un complesso “patto terapeutico” (coatto), con 
sullo sfondo, comunque, l’inflizione di una pena ex art. 76 ult. comma 
(ora abrogato a seguito di referendum abrogativo). 
 Secondo i riformatori del 1990, dal punto di vista repressivo la legge del 
1975 aveva anzitutto fallito perché la causa di non punibilità della 
modica quantità da un lato aveva indotto nei consumatori la convinzione 
della sostanziale liceità dell’uso voluttuario, dall’altro aveva consentito la 
copertura dell’attività di spaccio, se accortamente frazionata. 
  Ecco quindi la soluzione di fornire parametri sottratti alla discrezionalità 
giudiziale, adattabili, nella loro elaborazione governativa, alle muscolose 
intenzioni dell’esecutivo. 
  Proprio su questo punto si manifestò immediatamente la reazione, in 
particolare della giurisprudenza di merito, che sottopose la questione 
della dose giornaliera ad un reiterato vaglio della Corte Costituzionale. 
  La Consulta, con tre sentenze (nn. 333 del 1991, 133 e 308 del 1992), 
pur non contrastando le scelte del legislatore del 1990, fu costretta 
tuttavia ad estendere, anche a questo campo, quel discutibile ricorso 
all’art. 49 cpv. c.p.  Rimaneva così “precipuo dovere del giudice di 
merito- nelle ipotesi peculiari in discorso- apprezzare, alla stregua del 
generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria 
offensività della condotta concreta, se l’eccedenza  eventualmente 
accertata sia di modesta entità così da far ritenere che la condotta 
dell’agente – avuto riguardo alla ratio del divieto di accumulo e tenuto 
conto delle particolarità delle fattispecie – sia priva di qualsiasi idoneità 
lesiva concreta dei beni giuridici tutelati e conseguentemente si collochi 
fuori dall’area del penalmente rilevante (così come già affermato da 
questa corte nella sentenza 62/86)”
7
. 
  In questo modo, ad opera della Corte costituzionale si riattribuiva al 
momento dell’accertamento giudiziale quel margine di discrezionalità, 
rinnegato invece dai riformatori del 1990: discrezionalità basata, tuttavia, 
su di un paradigma di concreta offensività, in vero incerto, se non 
suscettibile di applicazioni arbitrarie. 
                                                                                                                                                                     
 
12 
  All’accertamento giudiziale era riattribuito un margine, quanto meno 
equitativo, per attenuare la inflessibilità di scelte che si erano rivelate 
improntate ad un rigorismo difficilmente gestibile e non circondato da un 
adeguato consenso sociale: basti ricordare l’impennata dei tassi di 
carcerizzazione per reati di droga, non certo ascrivibile ai successi nella 
lotta al narcotraffico, con la connessa, dolente realtà, delle alte 
percentuali di detenuti tossicodipendenti. 
  Ciò impose, già nei mesi immediatamente successivi all’entrata in 
vigore della legge, il varo di modifiche che confermavano, da un lato, la 
scarsa ponderazione delle sue scelte, animate più da finalità di 
propaganda politica che da una razionale strategia di intervento (penale 
ed extrapenale), dall’altro, le incertezze e le labilità della stessa 
maggioranza che l’aveva sostenuta in un lungo e combattuto dibattito 
parlamentare.  In questo senso, non è privo di significato che si sia 
dovuto adottare lo strumento del decreto legge per affrontare l'urgenza di 
contrastare gli effetti di una disciplina appena approvata.  Così il d.l. 8 
agosto 1991, n. 247, che modificò l’art. 73 (e 380 c.p.p.) a seguito 
dell’ondata emotiva provocata dal suicidio in carcere di giovani 
consumatori arrestati per la detenzione  di piccole quantità di stupefacenti 
che, però, eccedevano la nozione rigida di dose media giornaliera. 
  Si consentì, quindi, di far rilevare la sussistenza dell’attenuante del fatto 
di lieve entità (art. 73 c. 5) già ai fini dell’arresto obbligatorio in 
flagranza
8
. 
  Ma è in questo contesto che si inserisce anche la vicenda del 
referendum abrogativo proposto contro le norme penalizzanti l’uso 
personale: forse, in ordine di tempo, l’ultima consultazione che espresse 
appieno il valore di quello strumento di democrazia diretta, destinato a 
far esprimere l'elettorato su questioni di fondo, coinvolgenti scelte etiche 
o di costume, al di fuori degli schieramenti di partito. 
  
                                                                                                                                                                     
7
 Corte Cost., 11 luglio 1991, n. 333, in Giur. cost., 1991, III, 2647 ss. 
8
 G. Insolera, Introduzione, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di F. Bricola e V. 
Zagrebelsky, Torino, Utet, 1998, XVIII 
  13  
 Occorre ricordare come, nell’ammettere il referendum valutandone la 
legittimità sotto il profilo dell’art. 75 c. 2. Cost., la Corte costituzionale
9
 
non rinvenisse obblighi assunti dallo Stato italiano, per effetto di trattati 
internazionali, riguardanti le norme sottoposte a consultazione in tema di 
uso personale di stupefacenti.     
Nella motivazione di tale sentenza, infatti, si può leggere che: “In 
relazione al limite relativo alle leggi di autorizzazione alla ratifica dei 
trattati internazionali o psicotrope per uso personale […] non si pone in 
contrasto né con la Convenzione  di New York del 1961 (che, con gli 
artt. 33 e 36 si limitava a stabilire che dovesse essere vietata  la 
detenzione non autorizzata di stupefacenti, senza nulla specificare in 
ordine alla nature delle sanzioni  da comminare per le infrazioni), né con 
la Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, ratificata e resa 
esecutiva in Italia con la legge 5 novembre 1990, n. 328: è pur vero  che 
l’art. 3 di quest’ultima Convenzione  stabilisce, al paragrafo 2, che “fatti 
salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio 
ordinamento giuridico, ciascuna parte adotta le misure necessarie per 
attribuire la natura del reato conformemente alla propria legislazione 
interna […], alla detenzione  e all’acquisto di stupefacenti e di sostanze 
psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo 
personale […]”; ma la convenzione stessa […] lascia espressamente  alla 
scelta discrezionale  degli Stati contraenti la possibilità di prevedere, per i 
casi in esame, misure diverse dalla sanzione penale; infatti, il successivo 
paragrafo 4, alla lettera c), stabilisce che “nonostante  le disposizioni dei 
capoversi precedenti, in casi adeguati di reati di minore entità le parti 
possono in particolare prevedere  in luogo di una condanna  o di una 
sanzione penale, misure di educazione, di riadattamento o di 
reinserimento sociale, nonché qualora l’autore del reato sia un 
tossicomane, misure di trattamento terapeutico e di assistenza sanitaria 
post-ospedaliera”; e il successivo punto d) precisa che le misure suddette 
possono essere previste non solo in aggiunta, ma anche in sostituzione  
della condanna o della pena; infine, il paragrafo 11 dello stesso art. 3 
                                                           
9
 Corte Cost. 4 febbraio 1993, n. 28, in Giur. cost., 1993, I,  199 ss.  
14 
espressamente dichiara che “Nessuna disposizione del presente articolo 
pregiudica il principio secondo il quale la determinazione dei reati che ne 
sono oggetto ed i mezzi giuridici di difesa relativi sono di esclusiva 
competenza del diritto interno di ciascuna parte”, né  il principio “in base 
al quale i predetti reati sono perseguiti e puniti in conformità con detta 
legislazione.”
10
.   
Dopo avere sottolineato che il sistema penale deve essere considerato 
l’extrema ratio di tutela dei beni giuridici, la Corte conclude stabilendo 
che “In virtù della salvaguardia disposta dal paragrafo 2, tale principio, in 
quanto “concetto fondamentale” del nostro ordinamento giuridico 
interno, sarebbe comunque idoneo a condizionare contenuto ed efficacia 
della clausola e ad escludere che con essa lo Stato italiano si sia vincolato 
a configurare  come reato la detenzione di stupefacenti per uso personale, 
senza possibilità di orientarsi verso altre misure, ove ritenute idonee e 
sufficienti  per perseguire le finalità di controllo, di tutela e di recupero 
collegate al fenomeno in questione”
11
  
Cadeva così uno degli argomenti, per altro ancora oggi ricorrentemente 
proposto in modo mistificante: quello dei vincoli internazionali che 
imporrebbero obblighi di penalizzazione anche di condotte riferibili al 
c.d. uso voluttuario. 
  Con l’abrogazione delle norme di cui all’art. 72 c. 1 e di una serie di 
altre disposizioni che ruotavano attorno al concetto di dose media 
giornaliera, era completamente ribaltata la prospettiva che intendeva 
annullare la discrezionalità giudiziale nell'identificazione delle condotte 
non punibili, in quanto estranee al traffico. 
  Nel nuovo quadro, al contrario, la questione è totalmente rimessa al 
giudice.  Ciò avviene con la valutazione di un mero connotato 
intenzionale, costituito dalla finalità di uso personale. 
  E, come vedremo nel prosieguo del presente studio, è proprio attorno ai 
suoi criteri di accertamento che oggi si manifestano i principali problemi 
interpretativi, con la riacquisita centralità del momento giurisprudenziale. 
                                                           
10
 Ibidem, 203.  
11
 Ibidem, 204. 
  15  
  Ma, a ben vedere, anche nell’impianto originale della legge il “sospetto” 
nei confronti della discrezionalità giudiziale riguardava solo la nodale 
questione dell’uso personale: ad essere temuta dalla maggioranza 
dell’epoca, per altro con fondamento, era una giurisprudenza non 
allineata con la politica governativa di rigore su questo argomento. 
 Il Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti (d.p.r. 309/1990), pur 
modificando alcune norme contenute nel codice penale o in leggi 
speciali, nulla dice in merito al delicato problema dell’imputabilità del 
soggetto assuntore di sostanze stupefacenti che commetta un reato in 
relazione, in conseguenza o a causa dell’uso delle sostanze stesse.  Ecco 
perché non possiamo fare a meno di trattare la materia, pur limitandoci 
alle sole ipotesi di assunzione volontaria, abituale e cronica, la cui 
normativa (artt. 93, 94, 95 c.p.) è rimasta immodificata nonostante il 
trascorrere degli anni, il mutare della società, le nuove acquisizioni delle 
scienze mediche e il dilagare del fenomeno, soprattutto a partire dalla 
metà degli anni sessanta. 
  La carenza da parte del legislatore era già stata evidenziata nel corso dei 
lavori preparatori alla legge di riforma
12
, osservandosi tra l’altro che il 
tossicodipendente può essere spinto al delitto senza rendersi conto del 
disvalore sociale dei suoi atti e che l’ipotizzabilità di nuove misure di 
sicurezza, sostenute da adeguate strutture socio-sanitarie, avrebbero 
potuto fornire strumenti più utili rispetto all’applicazione della pena 
detentiva. 
 
 
 
                                                           
12
G. Ambrosini, Un problema trascurato: l’imputabilità del tossicodipendente, in Droga, 
tossicodipendenza e legge. Riflessioni in magistratura democratica, a cura di Pepino, Milano, Giuffrè, 
1989, 144. 
16 
CAPITOLO  I 
IMPUTABILITA’ E SANZIONI 
 
 
1. L’imputabilità 
 
      La nozione di imputabilità ci è data dall’ art.85 c.p. il quale dopo aver 
sancito che  “nessuno  può essere punito per un fatto preveduto dalla 
legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era 
imputabile”, stabilisce. che  “è imputabile chi ha la capacità di intendere 
e di volere”.   
   Nella sua duplice specificazione di capacità di intendere e volere, 
l’imputabilità costituisce una qualità, un modo di essere dell’individuo in 
riferimento alla sua maturità psichica e alla sua sanità mentale; essa si 
distingue naturalisticamente e normativamente dalla colpevolezza la 
quale fa riferimento più propriamente alla volontà concreta del fatto. Se 
le condizioni di maturità psichica e sanità mentale esistono, e quindi, lo 
sviluppo intellettuale appare sufficiente, l’ulteriore livello intellettuale è 
irrilevante: in una sentenza, la Suprema Corte ha annullato la decisione 
della Corte di merito che aveva assolto per insufficienza di prove 
l’imputato, perché non brillava per intelligenza, pur avendolo 
riconosciuto capace di intendere e di volere.
13
 
    L’imputabilità non può mancare nell’individuo che si trovi in normali 
condizioni psichiche e nell’ipotesi dell’adulto essa è presunta iuris 
tantum, a differenza  dell’imputabilità del minore degli anni diciotto e 
maggiore degli anni quattordici che deve essere accertata di volta in 
volta. L’obbligo della motivazione pertanto va sempre osservato nel caso 
del minore, mentre nell’ipotesi dell’adulto nasce solo se emergano 
elementi valevoli a porre in discussione la presunzione di cui sopra. 
   L’art. 85 c.p. fissa i presupposti dell’imputabilità nella “capacità di 
intendere e di volere”.   
                                                           
 
13
 Cass., sez. III, 21 maggio 1984, Di Mario, Giust. pen. 1985, II, 219.  
  17  
Si è detto che la capacità di intendere, quale facoltà intellettiva, può 
continuare ad essere definita come la capacità di comprendere il 
significato del proprio comportamento e di valutarne le possibili 
ripercussioni positive o negative sui terzi
14
.  La possibilità di sapere di 
trasgredire una norma, o di apprendere il disvalore giuridico del fatto o 
comunque, di violare un dovere è estraneo al contenuto di quella facoltà: 
il rendersi conto del valore sociale del proprio comportamento non ha 
nulla a che vedere con la coscienza dell’illiceità penale del fatto. 
   La capacità di volere consiste, invece, nel potere di controllare gli 
impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più 
ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore: in altri 
termini, è attitudine a scegliere in modo consapevole tra motivi 
antagonistici
15
. 
Affinché sussista l’imputabilità occorre il concorso dell’una e dell’altra 
capacità: se una sola manca il soggetto non è imputabile. 
L’imputabilità deve sussistere in tutti e tre i momenti in cui si sviluppano 
il reato e le sue conseguenze: quello attuativo, quello del suo 
accertamento, quello della esecuzione della relativa sanzione penale 
(detentiva); la sua mancanza produce conseguenze diverse a seconda del 
momento in cui interviene: se nel primo momento, si ha la non punibilità 
dell’autore per mancanza di imputabilità; se nel secondo, la sospensione 
del procedimento; se nel terzo, il differimento o la sospensione 
dell’esecuzione della pena.
16
  
   Sussistendo le condizioni richieste dall’art. 85 c.p. (capacità di 
intendere e di volere), è irrilevante che l’agente ignori le conseguenze 
penali della sua attività, dato che l’ignoranza della legge penale è 
inescusabile,
17
 indipendentemente dall’età del soggetto e con la sola 
limitazione che egli sia capace di intendere e di volere la propria 
                                                           
14
 G, Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 1996, 3° ed., 289.   
15
 ibidem, p. 289.  
16
 Cass., sez. I, 16 dicembre 1983, Avignone, in Riv. pen. 1984, 845. 
17
 L’art 5 c.p., infatti, ci dice che: “ Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge 
penale”.  Occorre comunque ricordare che la Corte cost. con sentenza 24 marzo 1988, ha dichiarato 
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità della legge 
penale l’ignoranza inevitabile. 
18 
condotta, cioè determinarsi liberamente ad una specifica azione, 
comprendendone appieno il significato.
18
 
   Coerente con queste premesse è la soluzione data al problema del 
malore improvviso che si pone spesso in tema di reati colposi nella 
circolazione stradale, e che in passato è stato oggetto di controversie. Il 
malore improvviso è uno scompenso, prevalentemente collegato ad una 
alterazione organica, oppure di natura funzionale, che insorge 
repentinamente senza essere preceduto da alcun segno premonitore, 
determinando la perdita o il grave perturbamento della coscienza, con 
conseguente impedimento o notevole compromissione della funzione 
motoria.
19
 Di conseguenza, anche se deve riconoscersi che non sempre 
risulta così chiaro, esso dovrebbe essere ricondotto sotto il profilo 
dell’imputabilità e non sotto quello dell’esimente del caso fortuito; il 
relativo onere della prova non si può dunque porre a carico 
dell’imputato.
20
    
   Il disposto dell’art. 85 c.p.  vincola l’imputabilità ai soli presupposti 
della capacità di intendere e volere, pertanto si deve ritenere che 
unicamente queste capacità abbiano rilevanza per l’imputabilità stessa, 
cosi da escludere che si pongano tra i suoi presupposti altri aspetti della 
personalità dell’agente. Infatti, come ha rilevato anche la 
giurisprudenza,
21
 purché quella capacità di intendere e volere sussista, 
ogni altra e diversa facoltà psichica, e le relative anomalie non spiegano 
alcuna influenza sull’imputabilità. 
   Questo per altro verso conferma che il difetto anche di uno solo di quei 
due presupposti della imputabilità rende impossibile in concreto, 
l’applicazione della pena all’autore di un fatto previsto dalla legge come 
reato.
22
  
                                                           
18
 Cass., sez. IV, 19 dicembre 1975, Ceredi, in Giust. pen., 1976, II, 525. 
19
 A. Brancaccio, Esposizione di giurisprudenza sul codice penale, Giuffrè, Milano 1988 – 1992. 
20
 Cass., sez. IV, 6 dicembre 1982, Messa, in Arch. Circolaz. 1983, 640. 
21
 Cass., 17 novembre 1967, in Cass. pen. Mass. ann., 1968, 1089, ove si precisa che dalla nozione di 
vizio di mente esulano tutte quelle anomalie che, pur influendo nel processo di determinazione, non 
siano conseguenti ad uno stato patologico suscettibile di escludere o diminuire la capacità di intendere 
e volere, intesa appunto quale attitudine del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria 
condotta e ad autodeterminarsi nella selezione dei molteplici motivi. 
22
A. Crespi, voce Imputabilità, in Enc. dir., XX,  Milano,Giuffrè, 1970  p.772. 
  19  
   Naturalmente la presenza dei presupposti richiesti dall’art. 85 c.p. 
(capacità di intendere e di volere) non esclude che, oltre alla pena, sia 
applicata altresì la misura di sicurezza, così come non esclude che possa 
essere applicata esclusivamente quest’ultima qualora il soggetto non 
imputabile o non punibile sia ritenuto socialmente pericoloso: 
l’espressione “non punibile”, contenuta negli artt. 85 e ss., va intesa nel 
senso di “non assoggettabile a pena” e non già nel più ampio, e generico, 
significato di “non assoggettabile a sanzione penale”, senza pregiudizio 
quindi, della possibilità di sottoporre l’autore del fatto ad una misura di 
sicurezza. 
   A conclusione del breve quadro fatto in materia di imputabilità, occorre 
aggiungere che in tema di accertamento si è consolidato l’orientamento 
per cui la capacità di intendere e volere può essere desunta, 
indipendentemente da un accertamento tecnico, dall’esame congiunto 
della condotta e della personalità dell’imputato, nonché delle modalità e 
della natura dei fatti commessi
23
. 
 
 
                                                           
23
 Cass.,  sez. VI, 12 febbraio 1980, Aloisio, Giust. pen. 1981, II, 25. 
20 
 
 1.1. La colpevolezza 
 
   Molto si è discusso sull’essenza della colpevolezza e a contendersi il 
campo sono due teorie. La prima, che si riallaccia alle dottrine 
tradizionali e va sotto il nome di “concezione psicologica”, ravvisa 
l’elemento della colpevolezza nel nesso psichico tra l’agente e il fatto 
esteriore. Questa concezione non può ritenersi completa perché ha avuto 
il torto di non aver dato il necessario risalto ad un aspetto che pure è 
essenziale alla colpevolezza, e cioè il carattere antidoveroso della 
volontà.  
  Il Mantovani ritiene che merito della teoria psicologica sia quello di 
aver posto in luce  «l’imprescindibile base naturalistico psicologica della 
colpevolezza e, quindi, della responsabilità penale, la quale postula 
innanzitutto un atteggiamento della volontà»
24
.  Egli però non si nasconde 
che essa presenti anche alcuni limiti che individua  nel fatto che  «è 
fallita nello sforzo dogmatico di costruire la colpevolezza  come concetto 
di genere, astraendo gli elementi  comuni del dolo e della colpa, 
trattandosi dal punto di vista psicologico di due realtà irriducibili: il dolo 
è una entità psicologica reale (coscienza e volontà) e la colpa una entità 
psicologica potenziale »
25
.   
Il secondo limite che il Mantovani rileva nella concezione psicologica è 
dato dal fatto che  anche quando  non respinge  programmaticamente 
ogni gradualità della colpevolezza, tuttavia la gradua non secondo criteri 
di valore, ma secondo inadeguati criteri meramente psicologici, da cui i 
«motivi interni» restano estranei e che si incentrano, per il dolo, nella 
maggiore o minore   «spontaneità» dell’atto o nella intensità e persistenza 
della deliberazione criminosa e, per la colpa, nella maggiore o minore 
prevedibilità dell’evento
26
  
  
                                                           
24
 F. Mantovani, Diritto penale., Padova, Cedam, 1992, 294 
25
 Ibidem, 294. 
26
 Ibidem, 294