4
ad essere considerata come opera di Poesia, che doveva esprimersi nella 
rappresentazione teatrale ma conservare la propria validità anche nella lettura, e, 
in una fase cronologica in cui non si erano ancora del tutto chiuse le polemiche 
sull’immoralità degli spettacoli teatrali e sul loro potere eversivo, il genere 
tragico, tradizionalmente ritenuto la più alta forma teatrale, trovava nell’utilità 
morale e civile la legittimità della propria esistenza ed il riconoscimento della 
propria identità di genere “nobile”. La decadenza si era avviata già nel secolo 
precedente, quando la diffusione degli inverosimili intrecci mutuati dal teatro 
spagnolo, la comune pratica dei generi “misti”, il successo dei Melodrammi e 
delle Favole Pastorali, la fortuna della Commedia “all’improvviso” e l’abbandono 
del verso nella recitazione, avevano fatto abbandonare la tragedia regolare. 
Quest’abbandono veniva comunemente ascritto anche al mancato interesse del 
pubblico, che, in seguito al progressivo affermarsi dell’Opera in Musica e degli 
altri generi “sregolati” e finalizzati al puro intrattenimento, non voleva più saperne 
delle “serie” tragedie, in cui non vedeva più alcuna fonte di diletto. 
I Poeti, pertanto, non erano spronati a dedicarsi alla Poesia Tragica, e la 
tragedia italiana languiva dimenticata, in attesa del nuovo “Sofocle” che potesse 
riportarla in vita.  
Così, nei primissimi anni del secolo, Ludovico Antonio Muratori concludeva la 
sua trattazione sulla poesia teatrale: 
 
E ciò basti intorno alla Poesia Teatrale, a cui più di ogni altra è 
necessaria una gran purga, e Riforma, non tanto per bene del pubblico, 
quanto per gloria della Poesia, la quale in Italia non ha peranche avuto 
Professore, a cui si debba il Principato, e la lode di Poeta perfetto, nel 
compor Tragedie, e Commedie. Questa Corona è tuttavia pendente, e 
gli amatori dell’Italica Poesia dovrebbono studiarsi a gara per 
occuparla. Muovansi adunque ad una tale impresa gl’Ingegni valorosi, 
sudino, s’affrettino, ed empiano finalmente una Sedia, che promette 
sicuramente un nome eterno a che saprà conquistarla 
2
 
                                                          
2
 L. A. MURATORI, Della perfetta poesia italiana, a c. di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 
1971, pagg. 602-603 (prima ediz.1706).  
 5
Questa esortazione sembrò presto produrre i suoi effetti. Proprio all’inizio del 
secolo assistiamo ad un nuovo fermento intellettuale: in tutta la penisola 
fioriscono dibattiti, si scrivono trattati teorici che discutono le regole per la 
perfetta tragedia e cominciano a realizzarsi i primi tentativi, nella scrittura e nella 
messa in scena, di nuove tragedie regolari. Uno dei motori di questo fenomeno fu 
probabilmente costituito dalla grande diffusione del teatro francese in Italia, che, 
accanto alle numerose traduzioni ed alle immancabili polemiche, produsse una 
volontà di riscossa nazionale ed un desiderio di emulazione.
3
 Uno dei primi centri 
da cui si irradiò la riforma teatrale sembra essere stato Bologna,
4
 dove un gruppo 
di intellettuali già dalla fine del Seicento si dedicò intensamente alle traduzioni di 
tragedie francesi, e dove si ebbero i primi tentativi di superamento del divario tra 
letteratura e teatro, con la messa in scena di testi tradotti e poi originali. Da quel 
momento in poi i testi tragici italiani si moltiplicarono, e, dopo lo straordinario 
successo della Merope nel 1713, non ci fu praticamente letterato che non si 
cimentasse nella tragedia. 
Proprio in questa fase sembra possibile costatare la presenza di un significativo 
numero di tragedie che si concludono felicemente ed in molti scritti di poetica 
teatrale si trovano opinioni favorevoli al lieto fine applicato al genere tragico. 
L’ipotesi dell’esistenza di una pratica diffusa di tragedie con scioglimento 
felice non è nuova e la fortuna del lieto fine nella drammaturgia tragica anteriore 
all’Alfieri è già stata messa in luce in studi recenti. 
5
  
Secondo un’interpretazione comune, la diffusione del lieto fine in quest’epoca 
avrebbe una precisa motivazione: la tragedia italiana non riuscirebbe a 
riconoscersi in nessun valore collettivo, mancherebbero ad essa quei <<termini di 
riferimento condivisibili e costitutivi dell’opinione pubblica>>,
6
 che per la 
tragedia greca erano stati rappresentati dal sistema del Fato o dalla fedeltà alla 
                                                          
3
 Particolarmente significativa fu la ben nota polemica Orsi-Bouhours, per cui si veda M. G. 
ACCORSI, Pastori e teatro. Poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 1999, pagg.247 sgg. 
4
 Cfr. II.1.1. 
5
 Cfr. F. FIDO, Tragedie antiche senza Fato: un dilemma settecentesco dagli aristotelici al 
Foscolo, in ID., Le Muse perdute e ritrovate, Firenze, Vallecchi, 1989, pag. 13, e soprattutto E. 
MATTIODA, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, cap. IV e ID. (a c. di), 
Tragedie del Settecento, Modena, Mucchi, 1999, tomo I, pagg. 43-53.  
6
 E. MATTIODA, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., pag.7. 
 6
pòlis, e per la tragedia classica francese dall’ideologia della corte, cioè da <<un 
codice d’onore fondato sulla fedeltà al sovrano e sull’eroismo>>.
7
 
Per F. Fido la scrittura di tragedie a lieto fine sarebbe un modo per aggirare 
questa consapevolezza, in virtù della quale <<la catastrofe tragica rischiava di 
risultare gratuita>>.
8
 Anche per il Mattioda la tragedia a lieto fine è la 
conseguenza di questo processo,  ma vi si giungerebbe attraverso una fase 
intermedia, consistente nell’ elaborazione di una teoria della tragedia che trovava 
il suo corrispettivo politico nell’ideologia dell’assolutismo illuminato,
9
 che 
avrebbe condotto ad una visione ottimistica e consolatoria, in cui ogni conflitto 
verrebbe superato ed il male annullato: 
 
La tragedia a lieto fine si può così proporre di rispecchiare la 
situazione politica dell’assolutismo illuminato, di annullare i conflitti 
tragici e giungere a presentarsi come teodicea: il male non esisterà più 
sulle scene o sarà sempre punito come deve essere proprio dell’ordine 
del mondo.
10
 
 
A questi studi teorici è mancato sinora completamente il riscontro dei testi 
drammatici, mentre recenti lavori di B. Alfonzetti  hanno evidenziato come, 
almeno in alcune delle tragedie di inizio secolo, il lieto fine possa essere 
interpretato piuttosto in relazione ad una complessa costruzione allegorica del 
testo drammatico, che ne consentirebbe la lettura in chiave eroico-celebrativa.
11
 
Il nostro lavoro parte dalla necessità di verificare nella prassi drammaturgica le 
ipotesi teoriche riguardanti il lieto fine nella tragedia del primo Settecento e dalla 
                                                          
7
 F. FIDO, Tragedie antiche senza Fato…, cit., pag.11. 
8
 Ivi, pag.13. 
9
 E. MATTIODA,  Teorie della tragedia nel Settecento, cit., pag. 8. Ma si veda tutto il cap. IV, 
pagg.199 sgg. 
10
 Ivi, pag. 200. 
11
 Ci si riferisce in particolare a B. ALFONZETTI, Allegorie sceniche del giuramento nei 
melodrammi italiani di Metastasio, in ID., Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente 
giacobino (1701-1801), Roma, Bulzoni, 2001, pagg.109 sgg e ID., Trionfo dell’eroismo tragico: 
gli applausi all’Orazia di Saverio Pansuti nella Napoli asburgica di primo Settecento, in << La 
Rassegna della Letteratura Italiana>>, 1997, n. 1 ora in ID., Congiure…, cit., cap.II: Controfigure 
di Eugenio nella tragedia eroica: L’Orazia di Pansuti, pagg. 75-107. 
 7
volontà di indagare i modi e le forme con cui lo scioglimento felice viene 
costruito e si realizza in alcuni testi tragici. 
Per questa ragione, l’analisi dei testi verrà privilegiata rispetto alle 
dichiarazioni teoriche sull’argomento. Tuttavia, le tragedie analizzate saranno 
precedute da una introduzione sulla poetica teatrale dei rispettivi autori, con una 
analisi delle loro dichiarazioni sulla questione dello scioglimento, quando 
presenti. 
La Parte Prima, dopo un accenno ai modelli di riferimento ed agli antecedenti 
della drammaturgia a lieto fine (I.1), percorrerà le principali posizioni 
settecentesche sulla questione, rendendo conto delle differenti opinioni sul lieto 
fine che entrano a far parte del dibattito teorico riguardante le regole per la 
composizione tragica e di alcune problematiche connesse alla questione 
dell’epilogo felice (I.2). 
Ci limiteremo pressoché esclusivamente ad opere apparse nella prima metà del 
secolo, coerentemente con la scelta operata per i testi drammatici di seguito 
esaminati.
12
 
La Parte Seconda è dedicata appunto all’analisi di alcuni testi tragici, disposti 
in ordine cronologico. Naturalmente, le tragedie prese in esame rappresentano una 
minima parte di quelle scritte nel periodo e certamente non costituiscono gli unici 
testi a lieto fine dell’epoca.
13
 
Si è cercato innanzitutto di selezionare un gruppo di testi che offrissero non 
solo una varietà di argomenti (storici, mitologici, biblici), ma che soprattutto 
presentassero differenti tipi di scioglimento. In esse cioè, nonostante la comune 
conclusione felice, il lieto fine si presenta in tipologie molto diverse, le cui 
peculiarità saranno di volta in volta messe in luce. 
                                                          
12
 Mattioda afferma che la fortuna delle tragedie a lieto fine coprirebbe grosso modo il periodo 
1714-1772. La prima data è certamente smentita dalla attività di P. J. Martello (cfr. II.1), la 
seconda non ha nessun riscontro nei testi drammatici; comunque, pur non essendo individuabile un 
momento preciso, è probabile che vada spostata all’indietro. 
13
 Oltre a numerose tragedie del Martello, a lieto fine sono le tragedie scritte dal Goldoni 
all’esordio della sua attività di drammaturgo, e si potrebbe indagare nell’attività teatrale di autori 
come G. R. Carli, G. A. Bianchi, G. Gorini Corio o Annibale Marchese. In particolare, si vedrà che 
in chiave di lieto fine possono essere lette le numerose tragedie che hanno per protagonisti i martiri 
cristiani, molto praticate durante il secolo. 
 8
Per il resto, l’interesse dei singoli testi è legato ad aspetti particolari. Le 
tragedie di Pier Jacopo Martello Ifigenia in Tauris e La Rachele (II.1) sono 
significative per il ruolo del loro autore nell’avere progettato (prima del Maffei) 
una riforma integrale del teatro tragico, che, a partire dalle traduzioni del teatro 
francese, giungesse alla rifondazione della tragedia italiana come testo e come 
spettacolo, avvalendosi delle rappresentazioni della compagnia di L. Riccoboni. 
Inoltre il Martello fu autore di numerose altre tragedie, molte delle quali a lieto 
fine, e diede un contributo particolare a questo tipo di drammaturgia. 
Il Giustino di P. Metastasio (II.2) consentirà di individuare una evoluzione 
nell’idea di tragedia dell’autore, che, a partire dall’austera eredità del Gravina, 
approderà alla pratica di melodrammi come forma moderna della tragedia, e 
quindi di ipotizzare che la tragedia a lieto fine sia una fase intermedia di questo 
percorso. Per di più, i significati allegorici individuati nel testo, che hanno portato 
ad ipotizzare una triade Orazia, Giustino, Merope nell’ambito di una 
drammaturgia dai contenuti eroico-celebrativi,
14
 si legano strettamente alla 
questione dello scioglimento felice. 
Lo stesso discorso vale anche per la Merope di S. Maffei (II.3), che per di più 
può essere considerata la tragedia più rappresentativa dell’epoca, per il fatto di 
inserirsi in un programmatico progetto di riforma della letteratura tragica a partire 
dal palcoscenico, che si avvale del sodalizio con la compagnia di Luigi Riccoboni; 
ma specialmente per l’enorme successo di pubblico riscontrato, che ne fece un 
modello per numerosi tentativi successivi, ed un vero e proprio “caso letterario”. 
Così l’Orazia (1719), accanto alla possibilità di intravedervi dei significati 
allegorici collegati alla storia coeva, consentirà di verificare il particolare legame 
esistente tra l’elaborazione letteraria e le vicende storiche cui l’autore prese parte, 
che influenzano il particolarissimo strutturarsi dello scioglimento. 
Ci si è limitati ai testi dei primi venti anni del secolo, che rappresentano la fase 
per così dire “fondativa” della nuova drammaturgia. 
Un caso a sé è rappresentato dal Baldassarre di J. Riccati (II.5), risalente agli 
anni Quaranta. Questa tragedia conferma la persistenza della pratica del lieto fine, 
                                                          
14
Cfr. B. ALFONZETTI, Allegorie sceniche del giuramento…, cit., pag. 122. 
 
 9
che riesce ad affermarsi anche in un testo marginale rispetto ai dibattiti dell’epoca. 
Inoltre, nonostante quest’opera non sia mai stata oggetto di alcuno studio, la sua 
importanza nell’ambito della drammaturgia a lieto fine non può essere trascurata, 
poiché il scioglimento felice è qui frutto di una scelta programmatica, scaturita da 
profonde riflessioni dell’autore sulla questione dell’epilogo.  
L’analisi delle tragedie è condotta su tutto il testo, pur privilegiando, come 
ovvio, l’aspetto dello scioglimento. Essa metterà in luce come la questione sia 
molto più complessa rispetto alle schematiche spiegazioni offerte dagli studi sulle 
teorie, le quali non sempre vi troveranno riscontro. 
 10
 
 
- I - 
 
 
LE TEORIE SUL LIETO FINE 
 11
I.1 - ANTECEDENTI ANTICHI E MODERNI 
 
I.1.1 - Tragedie antiche a lieto fine 
 
Questi paragrafi intendono soltanto evidenziare come la tragedia a lieto fine 
non sia una invenzione del Settecento, ma abbia importanti antecedenti, i quali 
spesso costituirono dei veri e propri modelli per i drammaturghi del XVIII secolo. 
Naturalmente intendiamo solo offrire una campionatura di base che abbia un 
valore introduttivo per l’argomento di nostro specifico interesse e che possa 
servire come punto di partenza per  eventuali ed ulteriori indagini sulla questione. 
Per questo ci limiteremo a fornire alcuni cenni e prenderemo in considerazione 
solo le tradizioni drammatiche a cui gli intellettuali del Settecento solitatamente si 
richiamarono.  
Un sia pur approssimativo sguardo all’indietro consente di mettere in luce 
come il filone delle tragedie a lieto fine esistesse già in passato e sia connesso alla 
nascita stessa della tragedia, che solo una codificazione posteriore ci ha abituati a 
considerare come un concentrato di sventure dall’esito infausto. Sicuramente, dal 
punto di vista quantitativo, la nostra tradizione letteraria ed i suoi antecedenti 
greci,
1
  presentano una  predominanza di intrecci con scioglimento funesto, ma ciò 
in gran parte è legato alla visione parziale dovuta ad una carenza nella tradizione 
dei testi, per ciò che riguarda gli antecedenti, mentre a sua volta questa visione 
parziale ha condizionato la nostra letteratura teatrale, che ha perciò privilegiato 
l’esito luttuoso. Esso difatti, sembrava prediletto dagli antichi e soprattutto era 
preferito da Aristotele, autore di quella Poetica che, dal Cinquecento in poi, è 
stata il punto di partenza per tutte le teorie sul genere tragico ed esclusivo termine 
                                                          
1
 Non è necessario prendere i considerazione le tragedie latine: gli unici testi ancora oggi 
integralmente pervenuti sono quelli di Seneca, fondati sugli intrecci greci più infausti e caricati 
ulteriormente di elementi luttuosi e sanguinari. Da questo tipo di orrore nel primo Settecento si 
prenderanno le distanze, ed i modelli di riferimento saranno quasi esclusivamente greci. Più 
interessante sarebbe indagare i rapporti tra la grande tradizione storiografica latina e la tragedia del 
Settecento, che ad essa si ricollega per la scelta degli argomenti e per l’uso della retorica, 
soprattutto negli inserti narrativi. Anche l’uso dell’arte oratoria e dei lunghi discorsi sentenziosi 
sembra tutto sommato mediato da modelli storiografici. A questo proposito si rimanda al capitolo 
su Saverio Pansuti (II. 4) 
 12
di riferimento per la composizione dei testi. Di Aristotele parleremo.
2
 Per ora ci 
limitiamo ad accennare alle tragedie greche a lieto fine, in quanto esse 
costituiscono un referente fondamentale per tutti i tragediografi del Settecento. 
Chiunque si accostasse alla scrittura tragica conosceva, il più delle volte nelle 
versioni originali, i testi Greci pervenuti, e su di essi, oltre che e più che sulle 
regole aristoteliche, si fondava per operare qualsiasi scelta. In tutti i trattati teorici, 
nonché in tutti in tutti gli scritti concepiti in margine ad una tragedia, per 
introdurre il testo o per giustificare le scelte operate, nonché in alcuni documenti a 
carattere privato, il richiamo alle tragedie greche è costante, e serve per lo più a 
legittimare la propria pratica drammaturgica. Anzi, vedremo che all’inizio del 
Settecento questa legittimazione sarà attuata anche contro Aristotele ed in nome 
delle tragedie greche, nelle questioni in cui era possibile rinvenire delle 
contraddizioni fra i due referenti.  
 Un sia  pur superficiale esame delle tragedie greche pervenuteci, conduce a 
risultati degni di interesse. Sbaglia Franco Fido
3
 ad affermare che la scrittura di 
tragedie greche a lieto fine comprometterebbe l’imitazione dei grandi modelli 
greci, dove in sostanza non esisterebbero esempi di vere e proprie tragedie con 
scioglimento felice che siano pervenute: 
 
Certo, c’era l’esempio della vittima risparmiata all’ultimo momento 
dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, ma questa “inopinata salvezza 
giunge come un capovolgimento tardivo e non sembra intaccare le 
risultanze del dramma”. Piuttosto, i dotti parlavano di un’altra tragedia 
di  Euripide, veramente a lieto fine, questa, ma purtroppo (o forse, 
fortunatamente) perduta, il Cresfonte.
4
  
 
                                                          
2
 Cfr. I.2.1.  
3
 Cfr. F. FIDO, Tragedie antiche senza fato: un dilemma settecentesco dagli aristotelici al 
Foscolo, cit.,. Il problema della mancanza del  senso del Fato greco era sì presente ed è avvertito 
dai tragediografi, ma questo elemento, sebbene possa avere favorito la scelta di argomenti a lieto 
fine, non ne può costituire l’unica spiegazione. 
4
 Ivi, pagg.16-17. Fido cita G. PADUANO, Euripide. La situazione dell’eroe tragico, Firenze, 
1974, pag.12. 
 13
E’ vero che il Cresfonte, in cui era trattata la vicenda ripresa anche dalla 
Merope di Maffei, non è pervenuto, ed è vero che questo testo era a lieto fine, ma 
non costituiva affatto l’unico caso. Tra le diciassette tragedie conservate di 
Euripide, anche volendo usare un criterio molto restrittivo, non si potrà negare la 
presenza del lieto fine  almeno in Alcesti (di cui addirittura si dubita se fosse una 
tragedia, anche per gli spunti comici che contiene), nell’Ifigenia in Aulide e 
nell’Ifigenia in Tauride, nonché nell’Elena, nell’Oreste, nello Ione.
5
 A volere 
usare un criterio più esteso, si potrebbero aggiungere molti casi controversi, dove, 
nonostante la presenza della morte, si può tuttavia parlare di un finale positivo, in 
cui i personaggi raggiungono lo scopo che si erano prefissi e per cui il lettore/ 
spettatore era indotto a sperare; oppure esistono testi  in cui le sciagure o le morti 
sono arrecate da un eroe vendicatore come punizione di colpe gravi. Questi 
scioglimenti si collocano nei pressi dell’epilogo felice, o di un lieto fine non 
integrale.
6
 
Quanto ad Eschilo, di lui  possediamo solo sette testi, apparentemente nessuno 
con finale lieto (si può discutere delle Supplici, in cui gli dei impongono alle figlie 
di Danao di sposare i cugini contro la loro volontà, ma le fanciulle alla fine 
continuano a sperare, né ci sono lutti). Tuttavia c’è un fatto: Aristotele, 
dichiarando la sua predilezione per le tragedie ad esito funesto, non loda le 
                                                          
5
 Nota è la vicenda dell’Alcesti, in cui l’eroina, che ha accettato di morire al posto del marito 
Admeto, è ricondotta tra i vivi da Eracle e felicemente riconsegnata al consorte. Nell’Ifigenia in 
Aulide la fanciulla, sacrificata dal padre Agamennone sull’altare di Diana, è salvata dalla dea che a 
lei sostituisce una cerva, ed è trasportata in Tauride dove diviene sua sacerdotessa. Così 
nell’Ifigenia in Tauride la donna, che sta per sacrificare il fratello, lo riconosce e fugge con lui e 
l’amico Pilade ingannando il crudele re Toante. Nell’Elena si immagina addirittura che l’eroina 
del titolo sia rimasta fedele al marito Menelao e condotta in Egitto,  mentre Paride ha portato con 
sé solo un fantasma della donna. Alla fine Menelao ritrova la moglie e si ricongiunge felicemente a 
lei. Nello Ione Creusa sta per uccidere il figlio, a lei ignoto, ma il piano fallisce. Ione a sua volta 
vorrebbe vendicarsi uccidendo colei che non sa essere sua madre. Tutto è risolto dal felice 
riconoscimento finale. 
6
 Ci si riferisce almeno ai seguenti casi: Eraclidi in cui, nonostante il volontario sacrificio di una 
innocente fanciulla, gli Ateniesi vincono la battaglia contro i Micenei, il cui crudele re è ucciso;  
Andromaca,  in cui, nonostante la morte di Neottolemo e la fuga dell’omicida Oreste con la moglie 
dell’ucciso, c’è un felice scioglimento per Andromaca ed il suo figlioletto, che, in pericolo di vita, 
è salvato da Peleo, padre di Neottolemo. Alla donna ed al bimbo la dea Teti profetizza un futuro 
felice, ed al vecchio Péleo la divinizzazione; inoltre le Supplici, dove, nonostante il suicidio di 
Evadne, le donne Argive realizzano il loro desiderio di riavere indietro i corpi dei figli dai Tebani, 
che sono sconfitti dal giusto Teseo; Elettra, dove la morte di Clitennestra ed Egisto, uccisori di 
Agamennone, è meritata, anche se ciò non basta a giustificare Oreste, che dovrà espiarla. 
 14
tragedie di Eschilo, ma quelle di Euripide <<la maggior parte delle quali si 
conclude con la sventura>>.
7
 
Dovremmo insomma ipotizzare che gli altri tragici, tra cui lo stesso Eschilo, 
avessero scritto un maggior numero di opere a scioglimento lieto rispetto 
all’autore dell’Alcesti, e lo stesso dovrebbe valere per Sofocle. Si osservi inoltre 
che la struttura delle trilogie poteva comportare un lieto scioglimento solo 
nell’ultimo dramma della serie, che, vertendo su di una singola vicenda 
fondamentale, poteva essere letta come un unico intreccio a più nodi. Potrebbe 
essere il caso dell’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi), che si conclude 
con l’assoluzione di Oreste, ma i cui singoli drammi costituiscono di per sé casi 
controversi, poiché i primi due narrano sì la distruzione di una stirpe e  trasudano 
orrore e morte, ma le vittime sono a loro volta assassini che pagano i loro delitti, 
insomma  più eroi malvagi che medi, come avrebbe voluto Aristotele. L’ultimo 
testo invece, ha senza dubbio un finale lieto, visto che Oreste vi è assolto e le 
Erinni si tramutano in Eumenidi, e ciò nonostante l’assoluzione di un matricida 
potesse essere interpretata come un fatto poco felice, almeno agli occhi degli 
uomini del Settecento. 
Anche il funesto Prometeo incatenato proseguiva e si concludeva 
positivamente nel Prometeo liberato, non pervenuto. 
Tra le sette tragedie conservate di Sofocle, troviamo un lieto fine integrale nel 
Filottete
8
 ed un caso ambiguo nell’Edipo a Colono, dove la morte finale dell’eroe 
è una fine serena e liberatrice, una scelta di purificazione con cui Edipo si redime. 
E’ chiaro che il lieto fine nelle tragedie greche non può essere interpretato con gli 
stessi criteri applicabili a tragedie moderne, e dovrà tenere conto del sistema 
culturale e storico in cui quei testi si collocavano, nonché dei meccanismi di 
ricezione ad essi connessi.  
                                                          
7
<< αι̉ πολλαὶ αυ̉του̃ ει̉ς δυστυχίαν τελευτω̃σιν>>. Si cita da ARISTOTELE, Poetica, a cura di 
Diego Lanza, Milano, Rizzoli, 1995 ( prima ed.1987), pag. 159. 
8
Questo grosso modo l’intreccio: Neottolemo ed Ulisse arrivano sull’isola di Lemno, dove 
Filottete è stato abbandonato dai Greci, per impadronirsi del suo arco, senza il quale Troia non 
potrà essere espugnata. Dopo che i due hanno tentato con l’inganno di indurre Filottete a seguirli o 
almeno di impadronirsi dell’arco, costui, saputa la verità, oppone loro resistenza e non vuole 
tornare in guerra. L’intervento ex machina di Eracle convince l’eroe a partire, con la promessa che 
sarà risanato dalla piaga che lo affligge e si conquisterà la gloria..  
 15
Ma ciò che conta ai fini della nostra analisi è la percezione che avevano delle 
tragedie greche gli intellettuali del Settecento. Non solo le tragedie a lieto fine 
sono  a volte rifacimenti di intrecci classici (basti pensare alla Merope del Maffei 
o all’Ifigenia in tauris del Martello, che saranno da noi esaminate), ma il dato più 
importante è che tutte queste tragedie greche a lieto fine erano note agli autori ed 
ai teorici del genere nel Settecento, e, contrariamente a quanto sostiene Franco 
Fido, non ne passava affatto inosservato lo scioglimento felice. Anzi, in più di un 
caso proprio i modelli greci sono invocati per giustificare il consenso accordato al 
lieto fine e/o l’introduzione dello stesso nelle proprie opere. Si legga 
Gianvincenzo Gravina, il quale, pur non avendo praticato il lieto fine, notava che 
le tragedie greche <<a mesto fine o pur a lieto terminavano, come l’Alcesti 
d’Euripide, il Ciclopo, l’Ifigenia>>.
9
 Non diversamente Pietro Metastasio, nella 
lettera dedicatoria ad Aurelia Gambacorta d’Este, che fungeva da prefazione alla 
prima edizione delle sue Poesie del 1717, scriveva a proposito della sua tragedia a 
lieto fine, il Giustino: 
 
Ho voluto ancora farla di fine lieto, non temendo che perciò 
dovesse perdere il nome di tragedia, che non dalle morti, dalle stragi, e 
da funesti fini, ma dal corso di fatti grandi e strepitosi e dalla 
rappresentazione di personaggi reali discende. Né perché abbia 
Aristotile esemplificata nell’Edipo la perfetta tragedia, perciò non può 
altramenti, secondo l’opinion del medesimo, che con mestizia finire; 
perché non ha egli nell’approvazion dell’Edipo condannate l’altre 
tragedie di Sofocle, Euripide ed altri divini autori di quel secolo, che 
alcuna delle loro favole a lieto fine condussero
10
. 
  
La stessa motivazione sarà addotta alcuni anni più tardi da Scipione Maffei per 
legittimare la scelta del lieto fine introdotto nella sua Merope: 
                                                          
9
 G. V. GRAVINA, Della tragedia, in ID., Scritti critici e teorici, a c. di A. Quondam, Roma-Bari, 
Laterza, 1973, pagg. 513-515. 
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 P. METASTASIO Lettera ad A. Gambacorta d’Este (1 Agosto 1716), in ID., Tutte le opere, a c. 
di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1965, vol. III pagg. 11-15. Corsivo nostro. Per il lieto fine nel 
Giustino si rinvia al capitolo relativo (II. 2). 
 16
  
Il fine è lieto, e però più confacente al moderno genio e più 
grazioso: ma è però preceduto dal pericolo estremo del principal 
Personaggio. Di lieto fine è il Filottete di Sofocle, e così l’Oreste di 
Euripide, e l’Alcesti, e l’Ifigenia in Aulide, e in Tauri, e l’Elena.
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Il lieto fine, pertanto, è difeso contro Aristotele, perché autorizzato dalla pratica 
degli antichi tragici: esistevano antecedenti sicuri nelle tragedie Greche, che non 
solo erano testimoniati dalla Poetica stessa, ma che erano sotto gli occhi di tutti e 
si potevano leggere, e ciò era più che sufficiente a legittimare la violazione ad un 
precetto aristotelico in nome dei modelli letterari. Così  accettare, quando non 
addirittura prediligere, il lieto fine, significava anteporre la pratica alle teorie, i 
testi alle grammatiche.  
Un’ultima osservazione è d’obbligo. In quasi tutte le tragedie greche a lieto 
fine è già presente quella che diverrà una costante in tutti i testi settecenteschi a 
scioglimento felice: il lutto mancato. Uno dei protagonisti rischia la morte ed è 
salvato in extremis, di solito grazie all’agnizione che risolve l’intreccio. E’ il caso 
dell’Oreste, dello Ione, dell’Ifigenia in Tauride, nonché del perduto Cresfonte di 
Euripide. Ma si potevano avere anche lutti mancati senza agnizione, come 
l’Alcesti, l’Ifigenia in Aulide, dello stesso autore, o il Filottete di Sofocle, dove se 
ne trovano due: il minacciato suicidio di Filottete e la tentata uccisione di Ulisse 
da parte di costui. 
L’espediente della morte mancata, che mirava ad ingannare le attese degli 
spettatori, fino ai limiti della simulazione di lutti che erano dati per avvenuti, al di 
là dell’influenza dei singoli modelli, nel Settecento passerà anche a quelle 
tragedie a lieto fine che non disponevano di un diretto antecedente greco, e prima 
ancora a tutti gli intrecci non tragici  a scioglimento felice, per poi tornare alla 
tragedia attraverso la più recente influenza del Melodramma e della Favola 
Pastorale, in un percorso per così dire ciclico. 
                                                          
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 S. MAFFEI, Annotazioni alla Merope in ID., La Merope con annotazioni dell’autore e con la 
sua risposta alla lettera del Sig. di Voltaire,Verona, D. Ramanzini,1745 pag. 144. Corsivo nostro. 
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I.1.2 - Qualche notizia su le dénouement hereux  
 
Anche un accenno al lieto fine nella tragedia classica francese si rivela 
essenziale nell’individuazione dei più diretti antecedenti dei testi che ci 
apprestiamo a studiare. E ciò per ovvie ragioni. All’inizio del Settecento la 
drammaturgia francese era comunemente considerata la migliore d’Europa. Non 
solo, ma essa divenne costante termine di confronto per tutti coloro che in quegli 
anni si apprestavano a scrivere tragedie. 
A partire dalla polemica Orsi-Bouhours,
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 molti drammaturghi italiani 
individuarono nel teatro francese un termine di riferimento critico. Tutti i tentativi 
e le riflessioni per riformare il genere tragico si legavano ad una volontà di 
superare le grandi tragedie francesi, in cui si individuavano dei modelli 
fondamentali ma allo stesso tempo si criticavano i vizi ed i difetti
13
, in uno spirito 
di emulazione che spesso si traduceva in aperta rivalità, mossa talvolta da 
orgoglio nazionalistico. 
Inoltre, non è un dato trascurabile che i primi tentativi di rinnovare la scrittura 
tragica italiana e di riportare la tragedia al successo teatrale mossero proprio da 
traduzioni e messe in scena di testi francesi, come fu il caso dell’esperienza di P. 
J. Martello sul lato della scrittura e di L. Riccoboni sul lato della messa in scena.
14
 
Infine, le riflessioni teoriche che miravano all’individuazione delle regole per 
la perfetta tragedia trovarono le loro fonti, dopo Aristotele e i suoi interpreti, nei 
trattati teorici francesi.  
                                                          
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 Si tratta di una polemica letteraria che si aprì nel 1687 con la pubblicazione del saggio La 
manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit del gesuita Dominique Bouhours, che criticava 
la più recente produzione poetica italiana come esempio di cattivo gusto. Il  marchese Gian 
Gioseffo Orsi si fece portavoce della reazione degli intellettuali italiani con le Considerazioni 
sopra un famoso libro franzese intitolato La manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit, 
pubblicate nel 1703. La polemica italo-francese proseguì ed ebbe il suo centro italiano a Bologna. 
Alle ragioni letterarie si legarono rivendicazioni nazionalistiche. Per un esame della questione si 
veda M. G. ACCORSI, Pastori e teatro. Poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 1999. 
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 In particolare in quasi tutti i trattati teorici si prendevano le distanze dall’eccessivo uso delle 
tematiche amorose, nonché dall’uso esagerato dei soliloqui e dei confidenti. 
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 Cfr. S. INGEGNO GUIDI, Per la storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi, 
P. J. Martello, in <<La Rassegna della Letteratura Italiana>>, LXXVIII (1974), nn.1-2, pagg. 64 
sgg. e G. GUCCINI, Per una storia del teatro dei dilettanti: la rinascita tragica italiana nel XVIII 
secolo, in Uomini di teatro nel Settecento in Emilia Romagna, a cura di E.Casini Ropa, et al., 
Modena, Mucchi, 1986, vol. I, pagg.177-203.