2
principalmente verso le città. Si può sostenere dunque che le immigrazioni 
straniere rappresentano una spinta ulteriore al fenomeno urbanizzativo 
italiano, oltre che a quello dei flussi migratori verso le regioni del Nord. 
Particolare attenzione meritano le fasce giovani di popolazione, in quanto 
rappresentano la categoria più soggetta a migrazioni legate a cause 
lavorative o di formazione; intendendo per giovani (evitando dunque rigide 
distinzioni di età, le quali avrebbero scarso rilievo sociologico) quei 
cittadini i quali completano la loro formazione con studi universitari o che, 
studi conclusi, si affacciano al mondo del lavoro.  
In entrambi i casi, la città rappresenta innegabilmente forte polo attrattivo; 
ed il mercato del lavoro nazionale, non soltanto caratterizzato da grandi 
divari Nord-Sud in termini di tassi occupazionali e da notevoli difficoltà di 
incontro tra domanda e offerta (il cosiddetto fenomeno del mismatch), ma 
anche estremamente frastagliato dalle nuove tipologie di contratto di 
lavoro, dalle molteplici denominazioni ma molto simili nella sostanza, 
ovvero precarie ed a tempo determinato, contribuisce a rendere sempre più 
precaria e fluttuante la permanenza del giovane nella sua residenza 
d’origine.  
Approfondendo l’analisi sociale del fenomeno demografico dell’ 
urbanizzazione con l’introduzione del concetto di capitale sociale, si può 
rintracciare nelle tipologie di reti sociali tipiche delle città e non del paese 
(evitando, anche in questo caso, rigide distinzioni quantitative tra territori 
urbani ed extraurbani) un’ulteriore spinta a favore del fenomeno 
urbanizzativo, principalmente in relazione, anche in questo caso, alle 
possibilità di trovare un lavoro.  
Facendo riferimento a numerosi teorici del capitale sociale, infatti, pur 
esprimendoci su un elevato livello di generalizzazione, si può sostenere che 
le reti sociali rappresentano un’ottima via per mezzo di cui trovare un 
lavoro; le reti sociali eccessivamente “forti”, per dirla alla Granovetter, se 
da un lato possono avantaggiare il singolo individuo, per contro possono 
dar vita alle forme di particolarismo, familismo e clientelismo che hanno 
spesso caratterizzato, e caratterizzano tutt’oggi, diversi ambiti sociali del 
paese, principalmente nel Meridione.  
Putnam rintracciava nella storia, nella “tradizione civica” del Sud Italia, la 
causa della sua arretratezza sociale; diverse critiche posson esser mosse alla 
sua teoria, in primis il fatto di approcciarsi alla questione secondo il 
cosiddetto “blaming the victim”, stessa critica che fu rivolta a Banfield, 
grande esponente del funzionalismo americano con la sua ricerca in un 
piccolo comune dell’Italia meridionale, ovvero imputare alla vittima la 
colpa della sua medesima condizione. Per tale ragione non vanno 
assolutamente trascurati fattori del tutto esogeni per i quali il livello di 
 3
sviluppo del Meridione è ben inferiore rispetto al Nord, fattori che rendono 
tendenzialmente più chiuse e particolaristiche le reti sociali: povertà 
generale, disoccupazione più elevata, ed anche un relativo, ma non per 
questo trascurabile, isolamento geografico, spesso dannoso per le imprese. 
I vertiginosi sviluppi di forme comunicative mediatiche quali Internet, e le 
conseguenti opportunità che sono in grado di offrire in termini di 
mantenimento e sviluppo di capitale sociale (si precisa ancora, 
principalmente nel cruciale aspetto della ricerca di un lavoro), non debbono 
trarre in inganno; il capitale sociale telematico è destinato a restare fine a se 
stesso in assenza di un risvolto reale, ragion per cui le immense possibilità 
offerte da Internet è più possibile che contribuiscano alla mobilità, ovvero 
all’urbanizzazione, piuttosto che alla staticità del cittadino, in particolar 
modo se residente in una piccola realtà territoriale. 
Un altro aspetto economico nazionale, strettamente correlato a fattori 
sociali, il quale può esser considerato come un evidente segnale di 
attrazione urbanizzativa è rintracciabile nel mercato degli immobili. 
Risaputa è l’onerosità degli affitti o degli acquisti di appartamenti nelle 
grandi città; tuttavia, comparando i dati relativi ai prezzi degli immobili e i 
dati sulla qualità della vita nelle relative città, si dimostrerà 
inequivocabilmente come tali elevatissimi prezzi sono tutt’altro che 
direttamente proporzionali alla qualità sociale della zona di abitazione, ma 
non fanno altro che vertere su una domanda di mercato sempre elevata, 
fortemente correlata, come detto, a ragioni di natura socio-economica, 
lavorative in primis. Tale smodato rialzo dei prezzi immobiliari, definito da 
un settimanale, non a caso, come “sbornia rialzista”, rappresenta una 
conferma della spinta urbanizzativa, tutt’altro che attenuata, dal punto di 
vista delle esigenze dei cittadini. 
Questa serie di aspetti ai quali si è accennato sembrano implicare la 
presenza di una sfera sociale che spinge, da più parti, verso 
l’urbanizzazione; in realtà, già nel confronto con i relativi dati statistici, si 
intuisce che non si tratta di un fenomeno unilaterale, per quanto si possan 
muovere diverse critiche al dato quantitativo, non tanto relativamente alle 
metodologie, quanto ai significati attribuibili al dato stesso. 
Analizzando tali dati si nota, infatti, un calo, se pur lieve, della popolazione 
urbana. Ciò sembrerebbe un evidente controsenso; una sorta di smentita a 
quanto emerso dall’analisi di ampio raggio sul quadro sociale nazionale; in 
realtà anche tali dati quantitativi, per quanto precisamente rilevati, meritano 
un’analisi più approfondita. 
Senza considerare che una consistente quota della popolazione urbana 
“sfugge” inevitabilmente alle statistiche, basti pensare al fenomeno, 
diffusissimo nelle metropoli, degli affitti in nero; accentuato, come già 
 4
detto, dalle generali tendenze di mobilità sempre meno durature e sempre 
più flessibili, le principali critiche che si possono muovere al dato 
urbanizzativo vertono sostanzialmente sulla delimitazione del “perimetro 
urbano”; definito, spesso ed inevitabilmente, in maniera arbitraria: in 
alcune città, infatti, particolari caratteristiche urbanistico-ambientali 
lasciano poco spazio alla soggettività nel definire i contorni cittadini, per 
molte altre non è così, le periferie e le province si sviluppano 
nell’immediato ridosso del centro urbano (esempio emblematico è 
rappresentato da Milano, che è tra le città, peraltro, di maggiore attrazione 
urbanizzativa) e ciò ovviamente apre ampi dibattiti su quali zone del 
territorio vadano considerate come urbane e quali come extraurbane. 
La chiave per effettuare un analisi demografica del suolo urbano più 
precisa e soprattutto socialmente più rilevante è nel considerare i dati 
quantitativi non del solo centro urbano, ma anche e soprattutto dei comuni. 
Il comune, infatti, è un’unità territoriale che può ricoprire, nei diversi casi 
di studio, le caratteristiche socio-urbanizzative più svariate, come 
dimostrato dalla metodologia della cluster analysis; non a caso una ricerca 
di Martinotti sul fenomeno urbanizzativo, in cui l’autore distingue i comuni 
oggetto di studio in urbani ed non urbani, fa emergere risultati di tendenza 
opposta alle statistiche relative al solo “perimetro urbano”: i comuni urbani 
registrano notevole crescita, non così i comuni non urbani. 
Come accennato, diversi fattori di natura socio-economica, pur mantenendo 
attuale l’importanza della mobilità verso la città, la rendono di fatto 
impossibile per ampie fasce di popolazione. 
Anzitutto la crisi economica generale, la quale ha caratterizzato l’Italia 
negli ultimi anni, gravando in maniera preoccupante sulle famiglie a basso 
ed anche medio reddito, rappresenta un’inevitabile spinta ad un fenomeno 
assai tipico del paese, ovvero la permanenza prolungata nella casa di 
famiglia da parte del giovane, definito in questo caso come “giovane 
adulto”.  
Per quanto diversi studiosi abbiano tentato di dimostrare tale tendenza in 
chiave esclusivamente socio-affettiva, non si può negare come l’aspetto 
economico giochi in questo caso un ruolo predominante; non a caso, a tal 
riguardo, forti polemiche ha suscitato, a riguardo, la recente dichiarazione 
del Ministro del Tesoro che ha definito i “giovani adulti” come dei 
“bamboccioni”. 
Non è semplice comprendere, a livello demografico, in quale maniera la 
permanenza prolungata del giovane nella casa di famiglia possa influire 
sull’urbanizzazione, ciò che tuttavia emerge con rilievo nell’analisi di 
questo fenomeno contemporaneo è l’innegabile presenza di forti freni di 
natura economica alla mobilità dei cittadini. 
 5
Di fondo vi è, dunque, una forte contraddizione: se da un lato, il mercato 
del lavoro richiede una flessibilità estrema anche in termini di mobilità sul 
territorio, la situazione economica del paese scoraggia il trasferimento, o 
talvolta lo impedisce addirittura. 
 Tutt’altro che inverosimile, oggi, è la situazione per la quale il lavoratore 
si vede costretto a rinunciare ad un lavoro che comporterebbe un 
trasferimento proprio perché i costi sarebbero insostenibili, tanto da far 
preferire addirittura la disoccupazione alla mobilità; un fortissimo 
paradosso, ma purtroppo alquanto realistico oggi in Italia.  
Tornando a riferirci al mercato nazionale degli immobili, il recentissimo 
calo dei prezzi degli appartamenti nelle grandi città, evidentemente dovuto 
ad un collasso della domanda di mercato per via della già citata 
speculazione rialzista, assieme con un altro dato di grandissimo rilievo, 
ovvero il notevole aumento del pendolarismo (il quale non si può certo 
considerare come più conveniente rispetto al passato, alla luce 
dell’aumento dei costi dei trasporti e dei carburanti) non può che essere 
letto come un inequivocabile segnale di quella che potremmo definire 
“antiurbanizzazione forzata”; in un utopico mercato immobiliare nazionale 
in cui il prezzo degli affitti è costante in ogni zona del territorio, è 
ragionevole immaginare che il fenomeno urbanizzativo assumerebbe 
dimensioni ancor più evidenti. 
Ciò che andrebbe ad ogni modo evitato, nell’analisi di fenomeni così 
complessi dal punto di vista sociologico, è la tendenza, riscontrata in alcuni 
autori di testi di demografia o anche in alcuni giornalisti, a fornire 
spiegazioni piuttosto semplicistiche, come ad esempio rintracciare le cause 
di urbanizzazione e di controurbanizzazione esclusivamente nella “qualità 
della vita” del luogo di abitazione. 
Alla luce della molteplicità, e soprattutto, della complessità degli aspetti 
sociali, economici e lavorativi che si sono analizzati, quante famiglie 
italiane sarebbero oggi in grado di scegliere il comune di abitazione 
esclusivamente sulla base della qualità della vita che è in grado di offrire? 
Sicuramente un numero del tutto trascurabile dal punto di vista sociologico.  
Per la medesima ragione ci si chiede, inoltre, in che misura possano 
realizzarsi con successo politiche o piani urbanistici ispirati a principi di 
grande rilievo sociale quali la sostenibilità, l’autosostenibilità e l’utilizzo 
proporzionato del territorio (come ad esempio lo “statuto dei luoghi” 
descritto da Magnaghi) all’interno di una nazione in cui in molti casi le 
spinte urbanizzative, strettamente correlate a fattori socio-economici, 
permangono come fortissime per via degli ancora evidenti divari interni, e 
per contro i freni alla mobilità verso la città sono principalmente dovuti alle 
 6
perverse contraddizioni dell’economia nazionale, ovvero alla già citata 
“antiurbanizzazione forzata”. 
Tali squilibri interni di natura socio-economica, i quali divengono, 
conseguenzialmente, squilibri demografici ed urbanizzativi, non possono 
essere risolti in termini di generico “sviluppo”, in quanto alla base non vi è 
una scarsità di risorse, ma bensì una diseguale distribuzione.  
Ciononostante, nel mondo politico nazionale, essendo proprio la politica la 
via potenziale per mezzo di cui fronteggiare efficacemente tali squilibri 
interni, si continua sovente a discutere in termini di “ricchezza nazionale” 
piuttosto che di distribuzione delle risorse sul territorio. Tale auspicato 
incremento di ricchezza interna implicherebbe, con ogni probabilità, una 
crescita degli squilibri esistenti; diviene di rilievo sempre più forte, per tale 
ragione, l’idea di “sviluppo locale”. 
Tale concetto nasce negli ultimi decenni, quando il fenomeno mondiale 
della globalizzazione ha iniziato a manifestare in modo evidente i suoi 
effetti; se da un lato la sfera globale annienta la dimensione locale, 
dall’altro lo stesso “globale” rintraccia nel “locale” una risorsa 
considerevole, e viceversa. Per quanto riguarda l’Italia è negli anni Settanta 
che il concetto di sviluppo locale inizia ad assume rilievo notevole, con i 
cosiddetti fenomeni della “Terza Italia” e dei “distretti high tech”.  
Il termine sviluppo locale è estremamente carico di implicazioni di natura 
sociale, economica ed anche urbanistico-ambientale, che vanno dalla 
partecipazione attiva alla sostenibilità, dalla politica alla concertazione; in 
riferimento all’analisi del fenomeno urbanizzativo, possiamo considerare 
come sviluppo locale ogni aspetto socio-economico in grado di limitare 
ogni forma di “mobilità forzata” dovuta in primis a ragioni di lavoro,ogni 
aspetto in grado di rendere sempre maggiori le possibilità di scelta tanto di 
mobilità quanto che di permanenza nel luogo di abitazione della 
popolazione. 
Si analizzeranno, dunque, alcune politiche di sviluppo locale di successo 
realizzate sul territorio nazionale e ci si interrogherà sulle loro possibili 
prospettive, fino a giungere alle conclusioni di natura sociologica e 
soprattutto politica relative a questo fenomeno demografico italiano. 
 
 
 7
Primo Capitolo 
Sviluppo della popolazione e fenomeno urbanizzativo 
 
 
1 Le teorie sullo sviluppo della popolazione 
 
Perché uno studio delle teorie sulla popolazione 
 
L’analisi delle teorie sullo sviluppo della popolazione come premessa agli 
studi sul fenomeno urbanizzativo riveste un rilievo particolare; questa non 
vuol rappresentare una base teorica rigida e fine a se stessa, quanto 
piuttosto sottolineare e definire il tipo di approccio alla luce del quale 
spiegare i perché dell’urbanizzazione e tutti i suoi risvolti.  
Numerosissimi, a livello storico, sono stati i differenti approcci volti a 
spiegare come le popolazioni evolverebbero numericamente nel lungo 
periodo, così come di pareri relativi all’utilità o meno di una popolazione 
numerosa. In principio si è trattato, principalmente, di teorie piuttosto 
semplicistiche ed approssimative, nelle epoche seguenti si sono invece 
introdotte sempre più variabili di natura sociale in grado di analizzare in 
maniera più approfondita le evoluzioni della popolazione. 
E’ ragionevole, infatti, collocare lungo un continuum le diverse teorie sullo 
sviluppo della popolazione, sostanzialmente dalla teoria di Malthus fino a 
quella della seconda transizione demografica; un continuum tanto 
temporale quanto “sociale”; da un lato perché si sono realizzati, nel corso 
dei secoli, consistenti progressi dal punto di vista dell’approccio scientifico, 
i quali hanno consentito un’analisi sempre più attenta e precisa dei diversi 
fattori in grado di influire sugli aspetti demografici; dall’altro perché tali 
fattori di natura sociale, oltre ad essere rilevati in maniera sempre più 
adeguata, si sono moltiplicati alla luce dello sviluppo e della 
differenziazione della società, la quale è divenuta sempre più complessa. 
Cionostante, è da rilevare come l’aspetto di natura sociale alla base delle 
evoluzioni della popolazione è sempre rappresentato da quello economico-
lavorativo, così come nei vecchi modelli di società, fondamentalmente 
semplice e con pochi fattori sociali extra-economici di rilievo, così nella 
società contemporanea; tale aspetto è in grado di influire in maniera 
fondamentale proprio relativamente agli aspetti demografici più rilevanti 
negli studi della popolazione: saldo naturale (relativo a nascite e morti, di 
conseguenza a tendenze riproduttive, durata della vita e qualità della stessa) 
e saldo migratorio (mobilità della popolazione, in entrata così come in 
uscita). 
 8
Alla luce livello di precisione e di ragionevolezza critica delle più recenti 
teorie sugli sviluppi demografici della popolazione, ci è possibile mettere in 
rilievo, oggi ancor più che in epoche passate, uno dei più grossi limiti delle 
teorie degli albori; tali teorie, infatti, tentavano di spiegare gli sviluppi 
demografici in termini assolutamente generalizzati, senza per nulla 
considerare le differenze dei vari contesti sociali entro cui tali evoluzioni 
vanno realizzandosi. I teorici della seconda transizione demografica, 
fenomeno pressocchè contemporaneo, al contrario effettuano nette, 
ragionevoli distinzioni tra continenti e finanche tra nazioni del continente 
stesso, proprio per via del così ampio panorama di contesti sociali; 
rilevando inoltre, per la medesima ragione, differenze temporali anche di 
pochi anni entro le quali vanno verificandosi, nei differenti territori, le fasi 
della transizione descritta. 
E’ proprio con tali consapevolezze acquisibili dall’analisi delle teorie sullo 
sviluppo della popolazione, ovvero un’analisi in grado di considerare ogni 
tipologia di influenza di natura sociale, in primis quelle relative alla sfera 
economico-lavorativa e soprattutto senza prescindere dalle differenze dei 
vari contesti socio-territoriali, che è utile approcciarsi allo studio del 
fenomeno demografico più specifico dell’urbanizzazione, estremamente 
carico tanto di cause di carattere socio-economico, quanto di implicazioni 
della medesima natura. 
Per tale ragione, sarebbe oggi più corretto definire come “sociologie” gli 
studi relativi agli sviluppi della popolazione e all’urbanizzazione, più che 
come semplici “teorie”.  
 
 
1.1 Le teorie a favore della popolazione numerosa 
 
Sono state moltissime le posizioni e le teorie attorno alla questione del 
numero della popolazione; chi sostiene che una popolazione numerosa sia 
un bene ed implichi crescita economica e sociale, e chi guarda con 
preoccupazione e scetticismo l’aumento sconsiderato della popolazione 
L’idea di controllare con criterio la crescita della popolazione ha radici 
storiche veramente lontane. Già celebri filosofi quali Platone e Aristotele 
(V-VI secolo a.C.) introducevano un principio si gran rilievo per chi, come 
noi in questa sede, vuole occuparsi del fenomeno urbanizzativo: nel 
delineare le caratteristiche ideali della polis evidenziano l’importanza di 
una popolazione “stazionaria”, oltre che autosufficiente sul piano militare 
ed economico. 
Nel XVIII secolo invece, Quesnay (1694-1774), nel celebre Tableau 
èconomique del 1759, non conferisce alla popolazione un ruolo propulsivo 
 9
per la crescita economica e prevede un incentivazione della produzione per 
mezzo non già della crescita demografica ma di una riorganizzazione su 
base capitalistica dell’agricoltura e la soppressione delle restrizioni 
all’esportazione
1
.  
Successivamente, una serie di autori fanno da precursori all’approccio di 
Malthus, autore della prima teoria sullo sviluppo della popolazione che 
analizzeremo a breve nel dettaglio, il quale guardava con particolare 
preoccupazione allo sviluppo incontrollato della popolazione
2
. Tra questi 
autori, l’economista inglese Cantillon (1960-1734), che introduce il 
concetto per il quale l’aumento della popolazione è e deve essere correlato 
con quello delle sussistenze
3
; Botero (1540-1617), uno scrittore politico che 
analizzava come le popolazioni avessero la tendenza a svilupparsi in modo 
incontrollato al contrario delle sussistenze le quali crescono in maniera ben 
più lenta, e come questa vertiginosa crescita demografica venisse contenuta 
per mezzo di fenomeni quali guerre e carestie
4
, che Malthus, più avanti 
definirà “freni repressivi”; e Ortes (1721-1794) il quale individua un 
ulteriore fattore repressivo di natura economica: l’ineguale distribuzione 
dei redditi
5
. 
Tra gli economisti classici, Smith (1723-1790) sottolinea ulteriormente 
come la crescita demografica sia strettamente correlata con le sussistenze
6
, 
anche Ricardo (1772-1823) e Mill (1806-1873) ricalcano il pensiero di 
Malthus, con un’analisi prettamente economica dei risvolti dell’aumento 
della popolazione
7
. 
Wicksell (1851-1926), economista svedese all’epoca in totale antitesi col 
pensiero del contemporaneo Marshall, sosteneva come un aumento della 
popolazione non sarebbe stato auspicabile neppure davanti ad un ingente 
sviluppo di risorse materiali, introducendo il concetto di optimum della 
popolazione, ovvero la soglia oltre la quale un ulteriore incremento della 
stessa implicherebbe un peggioramento consistente della qualità della vita e 
della fruizione dei beni. 
A seguito della seconda guerra mondiale, successivamente, si verifica 
un’esplosione demografica di rara portata, che fa ritornare estremamente 
attuali gli allarmi proposti da Malthus, tanto da parlare di 
                                                 
1
 B. Miglio, I fisiocratici, Laterza, Bari 2001. 
2
 T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Einaudi, Torino 1977. 
3
 R. Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, Einaudi, Torino 1755. 
4
 G. Botero, Delle cause della grandezza della città, Istituto giuridico della Regia 
Università, Torino 1588. 
5
 G. Ortes, Economia nazionale, errori popolari sull’economia nazionale e l’economia 
nazionale, Forni, 1991. 
6
 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1975. 
7
 Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino 1983. 
 10
neomalthusianesimo, che vede in Coale e Hoover i suoi massimi esponenti, 
i quali, sulla stessa linea di pensiero di Malthus, evidenziano come una 
diminuzione del tasso di fecondità comporti dei miglioramenti consistenti 
per la vita della popolazione
8
.  
 
 
1.2 Gli approcci favorevoli al contenimento della popolazione 
 
A sostenere, invece, l’idea dell’importanza di una popolazione numerosa e 
la positività di ogni aumento demografico, si ricorda storicamente anzitutto 
la dottrina mercantilistica, la quale sosteneva fermamente la diretta 
proporzionalità tra numero di cittadini (in particolar modo delle classi 
lavoratrici) e ricchezza e potenza dello Stato. 
L’economista Marshall, inoltre (1842-1924), era del parere che l’aumento 
della popolazione implichi, per il Paese, una pressione generatrice di 
innovazioni e di invenzioni oltre che dei benefici di natura economica 
derivanti da una più fitta divisione del lavoro
9
. 
Anche tra gli economisti classici rintracciamo due esponenti di rilievo di 
questo approccio “positivo” all’aumento della popolazione: Marx (1818-
1883), alla luce della sua nota teoria economica che si fonda sullo 
sfruttamento della classe dei lavoratori da parte di quella dei capitalisti, 
sostiene che il “surplus” di popolazione sia condizione indispensabile 
all’esistenza di forme economiche capitalistiche, in quanto un consistente 
numero di lavoratori disponibili contiene, di fatto, le pretese economiche 
dei lavoratori stessi
10
; e Keynes, che guarda con positività all’aumento 
della popolazione, per quanto non rinneghi il principio malthusiano della 
popolazione stazionaria, a patto che, insieme al contenimento della crescita 
demografica, si verifichi un parallelo aumento di risorse e consumi
11
. 
Particolarmente forte l’ottimismo dell’economista Colin Clark, esponente 
di rilievo nell’ambito della sociologia dello sviluppo, il quale, sulla stessa 
stregua della scuola mercantilistica, sostiene che il potere politico ed 
economico esercitato a livello mondiale da una nazione dipende dalla sua 
dimensione demografica
12
. 
 
                                                 
8
 A. J. Coale, E. H. Hoover, Population Growth and Economic Development In Low-
Income Countries, Princeton U.P, Princeton 1958. 
9
 A. Marshall, Principi di economia, Utet, Torino 1975. 
10
  K. Marx, Il capitale, Einaudi, Torino1975. 
11
 J. M. Keynes, Alcune conseguenze economiche della diminuzione della popolazione, 
in C. Napoleoni (cur.) Il futuro del capitalismo, Bari 1976. 
12
 C. Clark, World Power and Population, National Review, vol XXI, may.