3
L’omicidio è il reato violento per eccellenza, ma la violenza prodotta in 
tale atto è spesso l’esito di un processo che ha radici remote, ben precedenti al 
momento in cui raggiunge, nell’uccisione, la sua massima espressione.  
Molti Autori pongono l’accento sulle modalità di controllo delle pulsioni 
aggressive che, tipiche di tutti gli esseri viventi, raggiungono nell’uomo forme 
espressive particolarmente sofisticate ed efferate. 
L’aggressività è un istinto presente in ogni individuo come risposta alle 
frustrazioni, la cui base biologica è modificata ed organizzata dal sistema 
culturale in cui avviene l’educazione. Le modalità di controllo di tale pulsione 
sono perciò apprese dall’ambiente e cambiano a seconda della società, così 
come cambiano le forme ed i livelli di aggressività espressa consentiti, le 
tecniche di sublimazione e di repressione di tali istinti.  
La violenza, secondo alcuni studi, sarebbe un sottoprodotto 
dell’aggressività repressa e quindi della rabbia, ma anche della diversa soglia di 
tollerabilità delle frustrazioni, dal momento che non tutti gli individui che 
reprimono l’aggressività, o che vengono presi da un accesso di rabbia, 
tramutano in violenza omicida i loro istinti. 
Si è visto, per esempio, che il controllo mancato o difettoso 
dell’aggressività può portare un individuo tanto alla scelta omicida quanto a 
quella suicida, in base agli schemi comportamentali appresi durante la sua vita.  
È chiaro perciò che elementi naturali e culturali si compenetrano fino a 
creare modalità di esternazione dell’aggressività molteplici e di non facile 
spiegazione. 
Così come non è sufficiente ricorrere a spiegazioni di tipo psichiatrico: 
alcuni disturbi mentali talvolta generano comportamenti violenti, ma non sono 
maggiormente presenti fra gli autori di omicidio rispetto alla popolazione 
generale. 
Ciononostante l’omicidio crea non pochi problemi, in sede dibattimentale, 
per quanto concerne la dichiarazione di imputabilità o non imputabilità.  
Specialmente di fronte all’uccisione di familiari, o quando il delitto venga 
eseguito con modalità particolarmente brutali, o da un minore, è automatico 
sospettare la presenza di una patologia psichica, e quindi ricorrere alla perizia 
psichiatrica. 
 4
In realtà, né la legge, né la nosografia psichiatrica, designano 
chiaramente le modalità di valutazione delle capacità di intendere e volere, e 
spesso il perito deve muoversi su un filo molto sottile, che si carica di sentimenti 
morali individuali e culturali oltre che di pressioni sociali e istituzionali. 
Le molteplici variabili riscontrate, sono state messe a confronto con i dati 
statistici sull’omicidio a livello nazionale ed internazionale, riferiti ai giorni nostri, 
ma anche ad epoche precedenti.  
Si è così giunti a delineare una fisionomia di tale reato che mostra una 
sua costante diminuzione rispetto al passato, e percentuali inferiori rispetto ad 
altri contesti, soprattutto extraeuropei. Si è anche dato un volto all’autore e alla 
vittima di omicidio caratteristici del territorio italiano, nonché delle relazioni tra 
loro intercorrenti. 
Infine, si è ritenuto fondamentale tratteggiare un quadro statistico e 
criminologico degli omicidi compiuti all’interno della famiglia e del gruppo dei 
conoscenti più intimi, considerato il loro costante aumento ed il forte impatto 
emotivo che essi suscitano sull’opinione pubblica. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 5
CAPITOLO PRIMO 
 
EXCURSUS TEORICO SU DEVIANZA, CRIMINALITA’ 
 E OMICIDIO
 6
Introduzione 
 
Le teorie utilizzate più recentemente per spiegare il comportamento 
violento, in psicologia come in sociologia, si sono sviluppate in rapporto ad 
aspetti specifici del comportamento stesso, come la devianza ed il crimine in 
generale, ma anche relativi al comportamento normale. 
La ragione di ciò è il graduale declino della concezione per la quale gli 
autori di reato siano fisicamente e/o psicologicamente diversi dal resto della 
popolazione. 
Gli approcci prevalenti negli ultimi decenni si orientano verso l’idea che:  
 
    ogni comportamento è appreso;  
    ogni gruppo sociale formula una definizione di devianza e 
criminalità;  
    ogni persona normale diventa deviante nel momento in cui riceve 
tale etichetta. 
 
Tra i vari studi diretti a spiegare il comportamento deviante e la 
criminalità, alcuni privilegiano l’aspetto sociale del fenomeno, e quindi il ruolo 
svolto dalla società nel suo complesso, dai vari gruppi in cui il soggetto è 
inserito fin dalla nascita e dalla cultura di appartenenza, nell’orientare la sua 
condotta in senso conforme alle regole o meno. 
Sellin (1938) vede nel contrapporsi negli individui di sistemi culturali 
differenti una delle principali cause dell’instabilità e del conseguente agire 
deviante. 
Coloro che sono immersi in una cultura per loro aliena senza integrarvisi, 
vedono posti in crisi i valori normativi che, in precedenza, consentivano loro 
l’efficiente controllo della condotta. 
L’Autore distingue i conflitti culturali primari, derivanti dal disagio e dalle 
incertezze che il singolo vive dentro di sé per l’attrito diretto fra sistemi culturali 
troppo diversi, dai conflitti secondari, dovuti alla discriminazione e al rigetto da 
parte della società ospitante nei confronti dell’individuo “estraneo” e della sua 
cultura originaria. 
 7
Per aversi una condotta integrata è necessario che vi sia una sintonia fra 
i valori normativi e culturali del gruppo di appartenenza e quelli di cui la legge è 
espressione.  
Se le proibizioni della norma legale nei confronti di un certo tipo di 
condotta non si accompagnano all’opposizione del gruppo nei confronti di tale 
condotta, poiché il gruppo vive valori culturali devianti rispetto a quelli legali, 
l’intimidazione della legge è insufficiente. 
Qualora un gruppo sociale abbia una propria cultura fortemente 
differenziata rispetto alla cultura globale per alcuni valori particolarmente 
importanti, si parlerà propriamente di sottogruppo caratterizzato da una sua 
sottocultura. 
Per sottocultura criminale si intende quella di un sottogruppo che ha una 
sua particolare visione normativa, in contrasto con ciò che la cultura generale 
considera come illegale. 
La sottocultura delinquenziale è pertanto quella di un sottogruppo che, 
pur avendo molti valori normativi comuni con gli altri gruppi, se ne distingue per 
quanto attiene a certi comportamenti vietati dalla legge. 
Il fatto di condividere i valori non richiede necessariamente un’interazione 
sociale, di conseguenza una sottocultura può essere anche largamente 
distribuita nello spazio senza alcun contatto interpersonale fra singoli individui o 
gruppi interi di individui. 
Sutherland (1934), studiando le contraddizioni normative presenti nella 
società, osserva che un gruppo sociale è disorganizzato quando le sue norme 
sono contrastanti e contraddittorie; il delitto si verifica allora perché la società 
non è saldamente strutturata contro questa forma di comportamento. 
Il conflitto tra le norme riduce, in altre parole, l’efficacia del controllo sulla 
condotta dei singoli. 
Johnson (1970) riconosce le condizioni responsabili della 
disorganizzazione sociale:  
 
    Socializzazione difettosa o mancante; 
    Sanzioni deboli; 
    Inefficienza o corruzione dell’apparato giudiziario o di polizia. 
 8
Queste circostanze creano un conflitto di norme e indeboliscono 
l’efficacia delle leggi, rendendo più probabile la loro violazione. 
Shaw e Mac Kai (1942) parlano di “aree criminali” per definire quelle 
zone delle città dalle quali proviene e nelle quali risiede la maggior parte della 
criminalità comune. 
Le aree criminali consistono per lo più in quartieri caratterizzati da un’alta 
percentuale di minoranze etniche e di gruppi marginali, da persone bisognose 
di sovvenzioni assistenziali, da sovraffollamento nelle abitazioni, da condizioni 
igieniche e residenziali carenti, da inadeguatezza dei servizi. 
L’incapacità o il disinteresse ad abbandonare queste zone, in cui è più 
elevato il rischio di divenire criminali, sono connessi anche a fattori personali 
(scarso livello di aspirazione, scarsa iniziativa, indifferenza per il rischio di 
criminalizzazione, accettazione passiva delle proprie condizioni ecc.). 
L’area criminale attira coloro i quali, vivendo già in una condizione di 
delinquenza, cercano un ambiente protettivo e non emarginante.  
Tali zone attraggono però anche gli strati più poveri della popolazione, a 
causa degli scarsi mezzi di cui dispongono e delle condizioni favorevoli che in 
esse trovano (affitti più bassi, minore emarginazione ecc.), finendo facilmente 
coinvolti nelle trame della criminalità. 
L’aspetto principale di questa teoria è la variabile ambientale come 
fattore criminogenetico più importante. 
Sutherland (1934) ritiene che il comportamento delinquenziale è un tipo 
di condotta che viene appresa non per semplice imitazione, bensì mediante 
l’associazione interpersonale con altri individui che sono già criminali.  
Non tutti i gruppi con i quali si entra in contatto nel corso della vita hanno 
la stessa capacità di influenzare la condotta: hanno più forza persuasiva gli 
ambienti frequentati con maggiore intensità, quelli nei quali i rapporti hanno 
maggiore priorità e durata, e quelli che per anteriorità si sono proposti come 
modelli in epoca più precoce e in età più giovane. 
Sutherland (1934) sostiene inoltre che può realizzarsi un processo 
psicologico di identificazione con tipi criminali, pur in assenza di contatti 
interpersonali diretti. 
Il termine identificazione si riferisce al processo psichico mediante il 
quale si tende, consapevolmente o talora inconsciamente, a rendersi simili a 
 9
certi modelli scelti come ideali e dei quali si vengono ad assumere anche i valori 
normativi ed etici. 
L’identificazione non richiede contatto interpersonale, poiché il processo 
può realizzarsi in modo differenziale anche verso molteplici modelli con i quali 
non vi è mai stato rapporto diretto. 
 
 
 
1. Devianza e carriere criminali 
 
Il termine “devianza”, accostato al termine “delinquenza”, allarga l’ambito 
di analisi della semplice violazione delle norme giuridiche alla violazione di tutte 
le norme che regolano la vita collettiva, incluse le norme culturali e sociali. 
De Leo definisce la devianza come “una categoria socio - psicologica 
che fa riferimento a tutte le forme evidenti ed evidenziate di trasgressione alle 
norme e alle regole rilevanti di uno specifico contesto di rapporti interpersonali e 
sociali” (De Leo, Patrizi, 1999). 
Alcuni Autori distinguono 5 categorie di devianza caratterizzate dal 
sistema di regole con il quale il soggetto entra in conflitto (Dinitz, Dynes, Clarke, 
1969): 
 
    individuo in contrasto con il modello fisico, fisiologico o intellettivo 
prevalente; 
    individuo che infrange le norme religiose o ideologiche; 
    individuo che infrange le norme giuridiche; 
    individuo che pone in essere comportamenti non rispondenti alla 
definizione culturale di salute mentale; 
    individuo che rifiuta i valori culturali dominanti. 
 
Il concetto di devianza, in altre parole, racchiude situazioni tra loro 
assolutamente diverse, ed il suo uso così esteso e scientificamente 
approssimativo offusca la differenza tra le condotte devianti verso le quali, da 
 10
parte dei singoli e della società, si risvegliano reazioni di censura, da quelle in 
cui la disapprovazione cede il posto alla solidarietà. 
La qualificazione di devianza è quindi la conseguenza dell’applicazione 
di una gerarchia di valori morali: gerarchia non codificata, soggetta a continue 
verifiche e mutamenti, che esprimono il variare nei gruppi sociali dei contenuti 
etici fondamentali e prioritari di una certa cultura. 
Ne deriva che al modificarsi della gerarchia di importanza delle norme, 
alcuni comportamenti cessano di essere percepiti come devianti e altri li 
sostituiscono. 
L’autore di reato fa quindi parte di un insieme eterogeneo di persone 
accomunate da una qualche forma di “indesiderabile differenza” (Bandini, Gatti, 
1987).  
Tali differenze non sono indesiderabili di per se stesse ma ritenute tali 
dalla società in generale o da qualche gruppo sociale. 
La messa in atto di un comportamento contrario ad uno dei suddetti 
insiemi di norme, non determina automaticamente il passaggio ad un’identità 
deviante.  
Tale passaggio, secondo Bandini e Gatti (1987) “è costituito da un 
processo psicosociale di azioni, reazioni e controreazioni” che attraverso varie 
fasi conduce il soggetto a strutturare in modo stabile, ma non irreversibile, 
un’identità deviante.  
La prima fase è caratterizzata da atti antisociali occasionali che non 
influenzano la percezione di sé.  
Nella seconda fase si osserva una reazione rabbiosa e violenta 
all’etichetta di delinquente che la società gli ascrive: il soggetto inizia a 
riconoscersi nell’immagine negativa che gli altri hanno di lui, e teme di non 
potersi sottrarre ad un futuro di marginalità.  
Il suo comportamento risulta impulsivo più che violento, associato a 
sprezzo del pericolo e ad atti autolesivi.  
È solo nella terza fase che il percorso deviante appare come il solo 
possibile ed il soggetto vi aderisce completamente. 
I criminologi di impostazione interazionista ricorrono al concetto di 
carriera criminale per “evidenziare l’importanza del passaggio da un atto 
deviante isolato ad un sistema di comportamenti devianti” e per “differenziare, 
 11
nell’ambito della devianza globale, quella parte di delinquenza che è attuata da 
individui per i quali il crimine ha assunto sempre più importanza, fino a divenire 
l’elemento più significativo della loro vita” (Bandini, Gatti, 1987). 
Criticando la concezione per la quale un individuo passa, 
improvvisamente, dalla condizione di “non delinquente” a quella di “delinquente” 
nel momento in cui compie un reato, essi propongono un modello interpretativo 
in cui l’individuo percorre diverse e successive tappe, nelle quali la devianza 
costituisce un esito possibile, ma non ineluttabile. 
Becker (1987) definisce la carriera come la “successione di passaggi da 
una posizione all’altra compiuti da un lavoratore all’interno di un sistema 
occupazionale”.  
L’Autore sostiene che, nella maggior parte delle carriere devianti, il primo 
passo è la realizzazione di un atto che va contro un determinato insieme di 
norme.  
In molti casi quest’atto non è intenzionale; spesso risulta essere 
conseguenza dell’ignoranza della norma che infrange, come può accadere nel 
passaggio dalla cultura di appartenenza ad un’altra.  
Ed inoltre “non c’è motivo di supporre che solo coloro che alla fine 
commettono un atto deviante siano effettivamente spinti a farlo. E’ molto più 
probabile che gran parte della gente provi frequentemente stimoli di tipo 
deviante” (Becker, 1987). 
A questo punto l’analisi si complica e si dirige, oltre che sul perché alcuni 
commettono atti devianti, anche sul perché coloro che rispettano le norme non 
seguano i loro impulsi devianti. 
In merito a ciò Becker parla di commitment per intendere il processo 
attraverso il quale la persona “normale” viene progressivamente coinvolta nelle 
istituzioni e nel comportamento convenzionale.  
L’individuo conforme alle regole che scoprisse in sé un impulso deviante, 
riuscirebbe a controllarlo pensando alle conseguenze del suo eventuale 
cedimento.  
Alcuni, non avendo una reputazione da salvaguardare o un lavoro 
conforme da conservare, riescono ad evitare l’uncinamento ai commitment 
convenzionali, potendo così seguire i propri impulsi.  
 12
Altri autori, in particolare Sykes e Matza (1957), prendendo le distanze 
da ogni sorta di determinismo, pongono l’accento sull’uomo come costruttore 
del proprio destino e, quindi, della propria devianza.  
Essi affermano che “i delinquenti provano effettivamente forti impulsi ad 
essere conformi alla legge e li affrontano con tecniche di neutralizzazione. La 
deviazione da certe norme può avvenire non perché esse siano rifiutate, ma 
perché altre norme, giudicate più importanti, riescono ad avere la precedenza” 
(Sykes, Matza, 1957).  
Tali tecniche, attuate nella fase antecedente all’atto delittuoso, sono: la 
negazione della propria responsabilità, la minimizzazione del danno provocato, 
la negazione della vittima, la condanna di coloro che condannano, il richiamo ad 
ideali più alti. 
La teoria dell’etichettamento (labelling approach) considera il crimine 
come processo di etichettamento sociale che, come ultima fase, può 
comportare la riorganizzazione del sé in senso deviante.  
Secondo questo approccio, il deviante non è visto come disfunzionale al 
sistema sociale: la devianza è invece necessaria e utile e viene indotta dalla 
società che, nella condotta deviante, trova il confine ben delineato della propria 
conformità. 
Il deviante assume il ruolo di capro espiatorio: “nel momento stesso in cui 
si polarizza contro di lui tutta l’emotività e lo sdegno per gli autori del male, si ha 
il vantaggio di non far percepire come devianti altre condotte, parimenti 
dannose alla società, ma che sono proprie delle classi dominanti; queste 
vengono perciò coperte da una sorta di immunità nella considerazione sociale e 
le loro azioni contrarie alle leggi non vengono percepite come veri e propri atti 
devianti e criminosi” (Ponti, 1990). 
La discriminazione si attua a vari livelli: chi ha più potere può far leggi a 
sé più favorevoli e determina la formazione del concetto sociale e culturale di 
delinquente e di deviante.  
La stigmatizzazione di devianza viene così a colpire quei delitti che sono 
tipici delle classi subalterne, lasciando impuniti i delitti propri dei gruppi di 
maggior potere. 
 13
Uno dei momenti più importanti nel processo di stabilizzazione 
dell’attività deviante, è costituito dall’esperienza di esser preso e pubblicamente 
etichettato come tale: “perché la trasgressione acquisti risonanza, dev’essere 
svelata, comunemente disapprovata, ufficialmente sanzionata. Solo attraverso 
la pubblica condanna, il deviante entra in quel tunnel di significazioni che agisce 
da cassa di risonanza del suo atto, della sua identità” (De Leo, 1981). 
L’individuo subisce così un profondo mutamento del proprio status.  
Per ogni essere umano lo status rappresenta, in definitiva, un giudizio 
formulato dagli altri, e le aspettative che un determinato gruppo nutre nei suoi 
confronti (Gergen, Gergen, 1990). Esso indica, non tanto ciò che una persona 
è, quanto ciò che sembra.  
Afferma Kitsuse (1962): “le forme del comportamento non valgono di per 
sé a differenziare i devianti dai non devianti, sono piuttosto le risposte date dai 
membri convenzionali e conformisti della società quelle che identificheranno e 
interpreteranno un determinato comportamento come deviante, trasformando 
così sociologicamente la persona in un deviante”. 
E’ sufficiente un solo atto criminale perché s’imponga l’etichetta della 
criminalità. In tali circostanze si realizza la cosiddetta “profezia che si 
autodetermina”.
1
  
Le vittime della discriminazione sono spesso indotte a comportarsi in 
modo da giustificare il pregiudizio; esse assumono le caratteristiche atte a 
provocare negli altri un comportamento discriminatorio: “il processo di 
stigmatizzazione è già in atto molto prima che l’infrazione della norma venga 
commessa” (De Leo, Salvini, 1978).  
Il pregiudizio agisce, così, come una sorta di profezia.  
L’intervento selettivo della società fa sì che un individuo etichettato come 
deviante, venga escluso dalla partecipazione a gruppi più convenzionali. Di 
conseguenza egli dovrà utilizzare modalità illecite per raggiungere quelle mete 
che, solitamente, rappresentano la naturale conseguenza di un comportamento 
conforme alle regole.  
                                                 
1
 La “profezia che si autodetermina” è un fenomeno osservato negli studi sul pregiudizio e la 
discriminazione, cfr. a questo proposito: GERGEN K. J., GERGEN M. M., Psicologia sociale, Il 
Mulino, Bologna, 1990. 
 14
Possono fermare questo processo coloro i quali, al momento dell’arresto 
(etichettamento), si trovano ancora nella possibilità di scegliere una via 
alternativa che li riammetta nella comunità convenzionale. 
Becker (1987) sostiene che il passo finale nella carriera di deviante è 
l’entrare a far parte, in maniera stabile, di un gruppo deviante organizzato.  
All’interno di questo tipo di compagine, il giovane adepto arriva 
gradualmente a percepire se stesso come deviante e a strutturare una nuova 
identità personale basata su un nuovo sistema di valori.  
Questo processo è favorito dal fatto che i membri del gruppo affrontano 
gli stessi problemi e sentono di essere orientati verso un comune destino. 
Lemert (1981) fornisce un ulteriore apporto allo studio delle carriere 
criminali, ponendo al centro della sua teorizzazione il controllo sociale come 
variabile indipendente nello studio delle azioni devianti ed operando una 
distinzione tra “deviazione primaria” e “deviazione secondaria”.  
Nel primo caso il soggetto attua un comportamento illecito, di cui 
riconosce la pericolosità, ma che non considera come un aspetto stabile della 
sua personalità.  
Egli trova delle spiegazioni e delle giustificazioni per il proprio agire, 
affinché non sia costretto a mutare la definizione che dà di se stesso.  
La “deviazione secondaria” consiste nel comportamento deviante 
realizzato in risposta ai problemi di stigmatizzazione, degradazione ed 
isolamento derivanti dalla reazione sociale e comporta, per il soggetto, la 
riorganizzazione della propria identità e l’immedesimazione nel ruolo 
attribuitogli.  
Da questo momento la condotta deviante diverrà strumento di difesa, di 
attacco o di adattamento nei confronti dei problemi creati dalla reazione sociale 
stessa.  
Lemert (1981) afferma, infatti, che “la devianza viene stabilizzata entro 
ruoli sociali e perpetuata proprio dalle forze destinate ad eliminarla o a 
controllarla”. 
Reckless (1961) si sofferma in modo particolare su tre tipi di carriera 
criminale, quelle che egli ritiene coinvolgano gran parte dei fenomeni 
delinquenziali.  
 15
Al livello più basso egli situa la carriera criminale “ordinaria”, riguardante 
soprattutto reati contro la proprietà, che non richiedono grandi capacità oltre 
l’uso della forza e delle armi.  
I criminali appartenenti a questa categoria, provengono, generalmente, 
dai ceti meno abbienti ed hanno una lunga storia di reati e di periodi di 
detenzione.  
Al secondo livello Reckless (1961) colloca la carriera criminale 
“organizzata”, nella quale, le attività svolte sono più complesse e richiedenti 
maggiore specializzazione.  
Queste vanno dal traffico di droga al controllo della prostituzione ed in 
esse l’arresto rappresenta un evento raro. 
Il livello di più elevata complessità, concerne la carriera criminale 
“professionale”.  
Questa forma di delinquenza richiede competenze che vadano oltre la 
pura violenza; è, appunto la professionalità che consente, a questa tipologia di 
criminali, di raggiungere alti gradi di benessere economico ed una bassa 
probabilità di venire scoperti.  
Analizzando il rapporto famiglia/devianza, De Leo (1998) individua alcuni 
fattori di rischio (soprattutto aspetti di deprivazione) che nella prima fase del 
percorso sono a-specifici, cioè non deterministici nell’orientare il 
comportamento in senso deviante, e che diventano sempre più specifici nelle 
fasi successive.  
Il soggetto, nella seconda fase, inizia a percepire l’aspetto deviante delle 
proprie azioni che costituiscono gli “amplificatori” dei processi psicologici, 
relazionali e simbolici che le sottendono.  
Nella terza fase la devianza si stabilizza come sistema privilegiato con 
cui comunicare disagi, attirare attenzione e provocare reazioni, rendendo 
sempre più difficile l’orientarsi verso percorsi alternativi non devianti. 
De Leo interpreta tali rischi attraverso quelli che egli chiama “metarischi”, 
anch’essi inizialmente a-specifici, e via via sempre più specifici nelle fasi 
intermedia e finale.  
I “metarischi” sono le modalità con cui il soggetto valuta, affronta, 
pianifica, attiva o destabilizza i rischi della prima fase.  
 16
Quindi, “il riferimento è alle capacità negoziali dell’individuo, della 
famiglia, dei sistemi richiamati dall’azione deviante, di interagire con essa 
estraendone funzionalità per un percorso di non devianza o, al contrario, di 
utilizzarla, amplificarla, renderla coerente e necessaria rispetto ad ipotesi di 
deprivazione materiale, relazionale o simbolica” (De Leo, Patrizi, 1999). 
 
 
 
2. Studi sull’omicidio 
 
L’omicidio è un fenomeno reso estremamente complesso dalle numerose 
variabili che lo costituiscono e gli studiosi che l’hanno studiato si dividono fra 
coloro che lo concepiscono come un fatto unitario e concretamente 
distinguibile, e coloro che lo vedono, invece, come una realtà polimorfa ed 
estremamente differenziata.  
A seconda del diverso punto di osservazione, l’omicidio può essere 
analizzato: 
 
    dal punto di vista del diritto penale e quindi osservando la concezione 
giuridica del reato, le pene previste e le modalità della loro esecuzione; 
    dal punto di vista sociologico, in riferimento ai costi e alle implicazioni 
che esso ha sulla società nel suo complesso o su alcuni suoi ambiti (i 
giovani, la famiglia ecc.), ma anche sul ruolo che tali ambiti 
eventualmente svolgono nella genesi del delitto; 
    dal punto di vista psicologico e psichiatrico, in relazione ai disagi 
individuali che possono condurre alla commissione di tale reato, e alle 
ripercussioni che esso può produrre sul suo autore. 
 
In realtà, questi diversi tipi di studio sull’omicidio, sono profondamente 
interconnessi e perciò indivisibili: la ricerca criminologica sulla violenza richiede 
uno studio interdisciplinare che sappia fondere, armonizzare e utilizzare i 
contributi provenienti da molteplici settori, in modo tale da giungere ad una 
visione completa e reale del problema.