UN UOMO IN CARNE ED OSSA NELL’UMANESIMO DI ORTEGA Y GASSET  
 
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“carne delle cose”; ai risultati di questo impegno “umanistico” Ortega dà il nome 
di “salvazioni”: 
 
  
 
“Dato un fatto, -un uomo, un libro, un quadro, un paesaggio, un errore, un dolore- 
portarlo, attraverso il cammino più breve, alla pienezza del suo significato.”3 
 
  
 
“Tradotte” in ambito antropologico, le “salvazioni” definiscono l’esigenza di 
ricercare un’idea unitaria dell’essere umano; quest’immagine globale dell’uomo, 
però, nel pensiero occidentale è stata fortemente “oscurata” dal dualismo di anima 
e corpo, dualismo che si aggrava con la tradizionale associazione del corpo con 
l’ignoranza, le tenebre ed il male. 
 
Agli inizi del Novecento, comunque, sotto l’influenza prossima o remota del 
metodo fenomenologico, nasce formalmente una visione propriamente 
“filosofica” del corpo umano, che riscopre i valori ed i significati della corporeità. 
Se non una vera e propria “filosofia del corpo”, perlomeno una riscoperta del 
corpo si intravede già nelle posizioni speculative di Schopenhauer e Nietzsche. I 
due filosofi tedeschi rivendicano un ruolo attivo della dimensione corporea della 
persona, sotto la forma di un tessuto continuo di volontà (Schopenhauer) e di 
spontaneità (Nietzsche).  
 
Il merito della filosofia del Novecento è stato poi quello di dirigersi, sebbene 
gradualmente, verso il superamento del dualismo di anima e corpo, senza cadere 
nella tentazione di sostituire il primato del corpo a quello più antico dell’anima. 
Ortega, ad esempio, accoglie in parte nel suo pensiero, l’irrazionalismo che 
traspare dalle pagine nietzschane, ma il “clima” nei suoi scritti è decisamente più 
mite: egli critica il razionalismo, ma non lo fa dalla sponda opposta 
dell’irrazionalismo. Il filosofo spagnolo elabora una “ragione vitale” che gli 
permette di introdurre la “humanitas nelle radicali questioni di Nietzsche.” Ortega 
-come ha sottolineato Gadamer- “poiché insegnava a penetrare la vitalità come la 
razionalità ed a riconoscere la ragione nella vita, ha letto correttamente i segni del 
XX secolo dandone voce nella sua opera filosofico-culturale.”4 
 
Ortega, inoltre, “umanizza” la sua visione aristocratica della cultura, eredità 
nietzschana, riuscendo a fare filosofia “tra la gente”: “Chi vuole creare qualcosa -
ogni creazione è aristocratica- deve riuscire ad essere aristocratico fra la gente. E’ 
questo il motivo per cui, docile alla circostanza, ho fatto nascere la mia opera in 
quella piazza intellettuale che è il giornale.”5 
 
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2.  La “resurrezione della carne” 
 
  
 
“La preferenza per l’uomo concreto, immediato ed individuale”, che vale come 
motto di tutto il pensiero orteghiano, implica una sensibilità nuova, che dia voce 
alla “carne delle cose”, ad i corpi, troppo a lungo rimasti in silenzio di fronte alle 
pretese assolutistiche dell’Idea. Nelle opere del filosofo madrileno, quindi, la 
descrizione di un soggetto in carne ed ossa si sposa con una concezione della 
cultura che, se non è totalmente anti-spiritualista, perlomeno sminuisce il 
predominio filosofico dello Spiritualismo.  
 
“Aspirare all’esattezza in qualsiasi problema della vita, sarebbe la più grande 
inesattezza”;6 il “raziovitalismo” orteghiano “disegna” una cultura che non perde 
mai il contatto con la vita umana; “contatto” immediato, individuale, corporeo, 
sentimentale, spontaneo, creativo, vitale; “contatto” che conosce la gioia e la 
tristezza, la perfezione ed il fallimento; “contatto” che scopre la gracilità ed i 
sogni della singola vita umana che si nasconde dietro qualsiasi sentiero della 
conoscenza; persino dei freddi “attributi topografici”, in un racconto di Ortega, 
appartengono al “colorato” mondo dei desideri; perfino la “geometria è 
sentimentale”: 
 
  
 
“Oggi ho saputo che Soledad lasciò ieri Madrid per un’assenza di vari giorni. Ho 
avuto quasi la sensazione che Madrid restasse vuota ed esangue … Gli stessi 
attributi geometrici, topografici di Madrid hanno perso tutto il loro vigore. Persino 
la geometria è reale solo quando è sentimentale. Prima questa città aveva per me 
un centro ed una periferia. Il centro era la casa di Soledad.”7 
 
  
 
Scompare qualsiasi traccia d’umanità dove ci si dimentica della vita concreta che 
si cela al di là di una “ragione astratta”.  
 
La preferenza orteghiana per la vita individuale ed immediata, emerge 
chiaramente, inoltre, da un aneddoto che il pensatore spagnolo era solito 
raccontare ad i suoi studenti. Tornando in Spagna, dopo un soggiorno a Buenos 
Aires, il pensatore spagnolo conosce in quanto compagne di viaggio, delle belle e 
giovani donne statunitensi. Una di loro, dialogando con Ortega, si sentì offesa 
nella sua condizione di cittadina statunitense, e gli disse: “Esigo da lei che mi 
parli come si parla ad un essere umano.” Ortega le rispose: “Signora, io non 
conosco quel personaggio che lei chiama ‘essere umano’; conosco soltanto uomini 
e donne. Siccome ho la fortuna di parlare con lei, che non è un uomo, ma una 
donna -a proposito, splendida- mi comporto conseguentemente.” 8 
UN UOMO IN CARNE ED OSSA NELL’UMANESIMO DI ORTEGA Y GASSET  
 
7 
 
La vita umana è sempre determinata: la persona che mi sta accanto è un uomo o 
una donna, è giovane o vecchia; il suo corpo è un’“abbreviatura del suo destino”9, 
nelle linee e nelle rughe del suo viso “leggo” la sua “biografia”. 
 
“Quando vediamo il corpo di un uomo vediamo[…] un corpo ed un’anima in 
indissolubile unità.”10 L’anima “scolpisce” la fisionomia della persona, rendendo 
patenti sentimenti, emozioni e desideri, che a volte si riescono quasi a “toccare” 
sulla superficialità della pelle.  
 
Ortega interpreta il corpo umano come “carne” per distinguerlo dal corpo come 
“minerale”. “La carne, oltre che pesare e muoversi, esprime, è espressione”11, 
rimanda ad un’intimità, ad un’interiorità che il minerale possiede solo 
virtualmente. Ogni superficie, infatti, contiene una dimensione di profondità che, 
in un momento dato, può divenire superficiale; “ma l’interno della carne non 
giunge mai a farsi esterno grazie a se stesso: è radicale, assolutamente interno. E’, 
essenzialmente, intimità. A questa intimità la chiamiamo vita.”12  
 
Il corpo-carne, quindi, non esprime la corporeità della persona, ma la profondità 
dell’anima ed i suoi sentimenti, la forza della vitalità e la sua spontaneità, 
l’immediatezza, la concretezza e l’individualità del soggetto in carne ed ossa.  
 
 
UN UOMO IN CARNE ED OSSA NELL’UMANESIMO DI ORTEGA Y GASSET  
 
8 
 
1. Alcuni “luoghi” del corpo nel pensiero occidentale  
 
  
  
Corpo è la certezza sconvolta, messa in frantumi. Niente di più proprio, niente di 
più estraneo al nostro mondo. […] 
 
Un corpo è un’immagine offerta ad altri corpi, tutto un corpus di immagini tese di 
corpo in corpo, colori, ombre locali, frammenti, nei, areole, lunule, unghie, peli, 
tendini, crani, costole, pelvi, ventri, meati, schiume, lacrime, denti, salive, fessure, 
blocchi, lingue, sudori, liquidi, ve ne, pene e gioie, e me e te. 
 
 
J.L. NANCY 
 
Le varie definizioni che dizionari ed enciclopedie, incluso filosofici, danno del 
termine “corpo” possono essere facilmente riassunte in questa scarna formula: 
“Quantità -o, meglio detto filosoficamente, entità-  estesa e limitata di materia, che 
occupa un determinato spazio ed è oggetto delle nostre sensazioni”. Il corpo può 
essere studiato sia dalle scienze fisiche sia dalla geometria, dalla meccanica, a 
causa del movimento, e, in quanto corpo vivente, dalla biolo gia. La riflessione 
filosofica su di esso, dopo aver lasciato progressivamente rifluire nel pensiero 
scientifico tutti gli studi sulle proprietà biologiche, meccaniche, e fisiche del 
corpo in se stesso, si è ripiegata su un’interminabile analisi dei suoi rapporti con 
l’anima. 
 
I significati del corpo sono molteplici, e non sono da meno i suoi usi metaforici: 
tutto sembra formare un corpo e si vorrebbe che ogni associazione, gruppo, 
creazione, produzione, sistema speculativo, fosse assimilato ad un’unità corporale. 
Quest’elasticità del linguaggio tradisce però una forma di violenza: più si parla del 
corpo e meno esso esiste per se stesso. Possiamo trovare il corpo dappertutto, in 
qualsiasi luogo, sia esso dello spazio fisico o culturale, e spesso dimentichiamo 
che il suo senso primario è ciò cui pensiamo quando ascoltiamo, leggiamo, 
scriviamo, pronunciamo, la parola corpo: il nostro proprio corpo. Ogni mio 
pensiero, sul suo nascere, “scivola lungo le curve” del mio corpo, e solo 
successivamente, magari si dirotta verso gli altri corpi. 
 
Inoltre, ogni tentativo di definire il corpo giunge inevitabilmente a dei risultati 
parziali e frammentari perché qualsiasi discorso sulla corporeità incontra un 
ostacolo insormontabile, che nasce dalla natura stessa del linguaggio: come per il 
tempo, per la morte, chi desidera coglierne l’essenza vede svanire il sostegno del 
linguaggio; qualsiasi descrizione o spiegazione non può che essere un determinato 
punto di vista, datoci da un campo epistemologico o culturale specifico. Così ci 
ritroviamo costretti a non poter parlare del corpo senza prima relegarlo in alcuni 
ambiti abbastanza ristretti: “La medicina ed il corpo”, “Il corpo nell’arte 
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9 
moderna”, “Il corpo secondo gli esistenzialisti”. Ciò che viene fuori è qualcosa di 
simile ad una teologia negativa del corpo, che si limita a dirci che esso non è uno 
strumento, non è un organismo, non è questo, non è quello.1 
 
Tuttavia c’è una lingua moderna che ci viene in aiuto per fare più luce sul 
“problema” corpo: è la lingua tedesca, che può tradurre il “nostro” corpo con 
Körper, o con Leib. Il termine Körper sta per corpo esterno, fisico, anatomico; 
Leib sta per corpo interno, vissuto. E’ nota l’insistenza di Husserl sul “corpo 
proprio” (Leib), come vissuto (Erlebnis) radicalmente diverso dal corpo-oggetto 
(Körper). Secondo Gabriel Marcel, invece, abbiamo un corpo, ma allo stesso 
tempo siamo un corpo: ciò che abbiamo è un corpo fisico (quindi Körper), mentre 
ciò che siamo è il corpo interiore (Leib). 
 
Questa differenziazione che ci regala la lingua tedesca svela l’ambivalenza e 
l’ambiguità del corpo umano, in quanto possibilità, ma anche prigione del 
desiderio vitale: questa differenziazione è molto interessante, inoltre, in vista di 
una breve rassegna storica sulle diverse concezioni del “corpo” che ci ha lasciato 
il pensiero occidentale, tra le quali il corpo esteriore2 ha avuto indubbiamente la 
meglio sul corpo vissuto.  
 
Perché il corpo si troverà ridotto a pura estensione e movimento -d’altronde è 
questo che troviamo scritto negli odierni dizionari enciclopedici- limitato ad una 
semplice porzione di materia? Tentiamo di andare alla ricerca di ciò che sta alla 
base di questa definizione. 
 
 
Un discorso sulla nascita del concetto di “corpo” non può essere fatto se non 
iniziando da Omero, poiché la civiltà occidentale è “figlia” dell’Iliade e 
dell’Odissea. 
 
In Omero manca completamente l’immagine del corpo nel senso in cui noi oggi lo 
intendiamo. Il termine greco che corrisponde al “nostro” corpo, soma, nei poemi 
omerici significa “cadavere”, organismo morto. Il corpo vivente, invece, viene 
espresso attraverso delle raffigurazioni che mirano a cogliere il suo mutabile 
aspetto e le sue svariate funzioni. Le diverse parole che Omero utilizza per 
designare le membra di un corpo, o anche le sue dimensioni e la sua forma, 
vogliono rappresentare il corpo come quel ventaglio di possibilità con le quali 
l’uomo può esprimersi nel mondo. L’organo corporeo non è sentito come uno 
strumento e nessuno osa immaginarsi che dietro il corpo possa nascondersi 
un’anima. Il linguaggio omerico non ha di fatto nessuna parola che indichi 
l’anima, quale principio vitale del pensiero e dei sentimenti. Il termine psiche è 
utilizzato solo per l’anima del morto. E’ solo dopo la morte, quindi, che l’uomo 
omerico si divide in corpo ed anima. 
 
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10 
Quest’io unitario dell’uomo omerico, però, sarà scisso anche in vita con il 
dualismo di anima e corpo introdotto dall’Orfismo. Solamente con l’apparizione 
del concetto orfico di psiche l’uomo greco potrà rappresentarsi come corpo.3  
 
 
1.  Il sacrificio del corpo 
 
 
Dal VI secolo a.C. si diffonde in Grecia la religione dei misteri. Ad essa 
appartengono il culto di Dionisio, il culto di Demetra e soprattutto l’Orfismo. Ciò 
che distingue l’Orfismo è che, sebbene sia dedicato anch’esso al culto di Dionisio, 
pone in una rivelazione l’origine dell’autorità religiosa e delle sue tendenze 
mistiche; la rivelazione è attribuita al mitico trace Orfeo, che era disceso nell’Ade. 
 
L’Orfismo prospetta una condizione umana diversa rispetto a quella fissata dalla 
tradizione religiosa greca, dove l’uomo non appare neppure valutabile come 
realtà, perché la sua natura mortale lo differenzia nettamente dagli dei immortali: 
gli autori orfici ci danno un’immagine d’umanità carica di valori religiosi, e 
nient’affatto distinguibile dalla natura divina. In concreto mentre la tradizione 
greca prevede sacrifici cruenti, gli orfici offrono agli dei solo vegetali. 
Sacrificando e mangiando la carne del sacrificio i greci riconoscevano la loro 
mortalità ed inferiorità rispe tto agli dei; il vegetarismo orfico, invece, significa 
voler rivendicare una natura simile alla divina; il rifiuto della carne simboleggia il 
rifiuto di tutto ciò che è mondano in vista di una salvezza ultraterrena. 
 
Tutto ciò porta al rovesciamento dei va lori tradizionali: la vera vita diventa la 
morte ed il corpo si trasforma in “carcere” dell’anima; l’anima è prigioniera di un 
corpo per scontare una colpa originaria, per liberarsi dalla quale dovrà reincarnarsi 
una serie di volte, fino a quando non si sarà purificata completamente. Lo scopo 
dei riti celebrati dalle comunità orfiche è quindi quello di mondare dal peccato 
l’anima dell’iniziato per sottrarla alla “ruota delle nascite”, cioè alla 
trasmigrazione nel corpo d’altri esseri viventi. 
Questa nuova religione, contrapponendo al corpo un’anima di origine divina, 
inserisce nella cultura greca un’interpretazione dell’esistenza umana che sovverte 
il modo tradizionale di pensare.  
 
La dottrina orfica la ritroviamo così com’è nel pensiero di Pitagora di Samo. Egli 
molto probabilmente non scrisse nulla. L’unica dottrina filosofica che gli si può 
attribuire con un buon grado di certezza, è proprio quella della metempsicosi, 
concezione escatologica secondo la quale l’anima di un morto ritorna a vivere 
sulla terra in un nuovo corpo. 
 
L’idea della metempsicosi, che probabilmente è penetrata dall’Oriente, è attestata 
nel mondo classico grazie a Platone, che ne parla attribuendola, appunto, agli 
orfici ed ai pitagorici. Pitagora, che quindi crede nella trasmigrazione delle anime, 
dopo la morte, in corpi di animali o di altri uomini, considera il corpo come una 
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11 
“tomba” dell’anima e la vita corporea come una punizione. C’è solo una via che 
può liberare l’anima dal corpo: la filosofia, che esige la sapienza, che, a sua volta, 
ha il valore di un mezzo per purificare l’anima e condurla alla salvezza. 
 
Non dimentichiamo però, che con Pitagora ed i pitagorici siamo tuttavia alle prese 
con manifestazioni speculative che vanno interpretate come i primordi del 
pensiero filosofico. Infatti, la “scienza” pitagorica è accompagnata dai riti 
purificatori e dalle regole ascetiche praticate dalla setta del profeta-mago di Samo.  
 
Pitagora fu divinizzato dai suoi seguaci, in quanto considerato il depositario di 
una sapienza divina. Egli, tuttavia, non si limitò a riprendere le regole di 
purificazione degli Orfici, ma seppe arricchirle aggiungendo la pratica della 
musica e della dottrina dei numeri; soprattutto, però, creò un nuovo tipo di vita, la 
“vita pitagorica”, basata su una vera e propria formazione spirituale. 
L’insegnamento più importante che ci ha lasciato Pitagora è, quindi, il concetto 
della scienza e dell’attività contemplativa in generale come un cammino di vita, 
cioè come una continua ricerca che conduce verso la piena realizzazione 
dell’uomo. 
 
 
Le riflessioni generali sull’uomo e sulla realtà abbozzate dalle dottrine religiose, 
dall’arte, dalle cosmologie mitiche e dai primi pensatori greci preformano quella 
filosofia che è ancora ai suoi primi passi come una strenua paladina dell’anima. 
 
La filosofia nasce quindi in un ambiente che boicotta il corpo e le sue 
manifestazioni: assegnando all’anima il primato sul corpo, essa prospetta un 
ideale di vita all’insegna della contemplazione; il pensiero deve predominare 
sull’attività fisica, controllare le esigenze corporee per guidare l’anima verso un 
allontanamento definitivo dal corpo. 
 
L’anima è viva prima del corpo, entità radicalmente eterogenea e separata da essa. 
Con Socrate, che assieme ai Sofisti sposta decisamente l’asse della speculazione 
filosofica dalla natura all’uomo, il corpo non riceve maggiori attenzioni e 
consolida la sua posizione di strumento dell’anima: l’uomo è psychè, ciò che si 
serve del corpo. Se l’essenza dell’uomo è l’anima, curare se stessi significa curare 
non il proprio corpo, bensì la propria anima. Il motto dell’oracolo delfico 
“Conosci te stesso”, che Socrate fece suo per farne la motivazione ultima del 
filosofare e la missione stessa del filosofo, mentre stimola una profonda 
conoscenza della propria anima, getta nel dimenticatoio il corpo e tutte le sue 
potenzialità. Socrate porta agli estremi quell’esigenza di filosofia che già da 
qualche secolo era sentita in tutta la Grecia. Con lui si può assicurare che la 
filosofia è definitivamente nata. 
 
“Un bel giorno, per le vie di Atene, Socrate ha scoperto la ragione”,4 scrive José 
Ortega y Gasset nel 1923. Egli non vuole dire che prima di Socrate non si 
ragionasse, perché non c’è dubbio che Parmenide ed Eraclito avevano ragionato. 
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12 
Socrate non scopre l’uso della ragione in sé, ma si accorge che la ragione può 
creare un universo nuovo e più perfetto di quello reale. Il socratismo genera così 
una doppia vita, nella quale la ragione pura vuole sostituire la spontaneità. Socrate 
intravide la linea dove incominciava il potere della ragione. 
 
Aristotele, infatti, attribuisce a Socrate la scoperta del concetto, strumento della 
conoscenza universale. Il suo pensiero e la sua vita sono indubbiamente l’esempio 
di un allontanamento dalla vita spontanea, concreta ed immediata a favore di un 
ripiegamento dell’uomo su stesso: l’uomo si trincera nell’universo “serrato” della 
ragione. Non a caso Nietzsche farà di Socrate l’emblema di un razionalismo 
moralistico, corruttore delle energie primordiali della vita e dell’istintività 
orgiastica. 
 
Questa nuova missione dell’uomo -sostituire ciò che è spontaneo con quel che è 
razionale- generò un drammatico “dualismo, perché la spontaneità non può essere 
annullata: è possibile soltanto trattenerla, frenarla, ricoprirla con quella seconda 
vita, dal meccanismo riflessivo, che è la razionalità”.5  
 
Il dualismo socratico ha in ogni modo un importante antecedente, che fa la sua 
comparsa nel mondo della filosofia già con i Pitagorici, e si deve alla creazione 
della matematica come scienza. 
 
I Pitagorici elaborarono i termini fondamentali della matematica, astraendola da 
qualsiasi applicazione ed implicazione pratica. La loro filosofia era indubbiamente 
un riflesso della loro matematica, della quale la tesi basilare è il numero come 
sostanza delle cose. La nascita del numero converte la natura del mondo in un 
ordine geometrico misurabile; mediante il numero, infatti, è possibile decifrare 
qualsiasi evento naturale, tutto è riconducibile ad una struttura quantitativa; il 
numero, però, si divide in impari e pari, e questa opposizione divide il mondo in 
due parti. Tuttavia, ciò che rende dualistica la filosofia pitagorica risiede 
maggiormente nel fatto che essa crea le basi di una scienza matematica che 
desidera imbrigliare la mutevole realtà con i suoi statici numeri, misura di tutte le 
cose. La matematica diventa il contraltare ideale, fisso ed “incolore”, del mondo 
reale, sfaccettato e “coloratissimo”. 
 
 
Filosofo dell’interpretazione matematica della natura sarà anche Platone. Nel 
Timeo egli pone i numeri quali schemi strutturali delle cose, elevando la 
matematica a “sintassi del mondo”. Secondo una testimonianza di Aristotele 
sembra che il fondatore dell’Accademia, negli ultimi anni della sua vita, abbia 
finito per rielaborare il mondo delle idee come un mondo di numeri. 
 
E’ risaputo, inoltre, che secondo Platone esistono due gradi fondamentali di 
conoscenza, l’opinione e la scienza, che sviluppano un dualismo gnoseologico, 
cui, a sua volta, fa riscontro un dualismo ontologico: ci sono due tipi d’essere 
distinti, che sono le cose e le idee. 
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13 
 
La scienza, immutabile e definitiva, rispecchia la perfezione delle idee. Con 
Platone aumenta il potere del pensiero, ormai capace di riflettere l’essere: la 
mente è lo specchio di ciò che esiste. Per la vita di questo realismo gnoseologico è 
però necessario che l’anima dia il suo addio al corpo. 
 
Già in un suo scritto giovanile, il Gorgia, Platone si chiede: 
 
“E se avesse ragione Euripide là dove dice: ‘Chi può sapere se il vivere non sia 
morire e il morire non sia vivere?’ Forse la nostra vita è in realtà una morte. Del 
resto ho già sentito dire, anche da uomini sapienti, che noi ora siamo morti e che il 
corpo è per noi una tomba.” 6  
 
  
 
Con questa proposizione Platone esprime un paradosso che aprirà le porte verso  
un nuovo schema dell’universo, che conquisterà la civiltà occidentale.  
 
Nel Fedone Platone sembra voler continuare questo discorso con le parole di 
Socrate, che s’interroga sul cammino che porta alla conoscenza della verità:  
 
 
“Fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e confusa con un 
male di tal natura, noi non saremo mai capaci di conquistare compiutamente 
quello che desideriamo e che diciamo essere la verità. […]. E’ chiaro e manifesto 
che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci bisognerà 
spogliarci del corpo e guardare con la sola nostra anima pura la pura realtà delle 
cose. E solamente allora, come pare, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e 
di cui ci professiamo amanti, la sapienza; e cioè, come il ragio namento significa, 
quando saremo morti […] perché allora soltanto l’anima sarà tutta sola in se 
stessa, quando sia sciolta dal corpo, prima no.” 7 
 
  
 
La divisione dell’uomo in anima e corpo, necessaria per la conquista della verità, 
non è una realtà costatata dall’esperienza, ma è il risultato della creazione di 
quell’ordine trascendente ed immateriale raggiungibile solo tramite la liberazione 
dalla materia e quindi dal corpo. Infatti, Socrate prosegue in questo modo:  
 
  
 
“E così liberati dalla follia del corpo, come è verosimile ci troveremo con esseri 
puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è 
puro: questo io penso è la verità.” 8  
 
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14 
Con Platone è ormai consolidatissimo il divorzio tra verità e corporeità. Il mondo 
si è spezzato metafisicamente tra il cielo e la terra, tra lo spirito e la materia, tra 
l’anima ed il corpo: da una parte tutto ciò che vale, il valore, la positività, 
dall’altra parte il disvalore. E’ una separazione netta nella quale il polo positivo si 
fa passare come la vera realtà, spingendo il suo polo contrario nell’irrealtà.9  
 
Platone inaugura l’iperuranio, zona d’essere “al di là del cielo”, sede delle idee-
valori, e causa della mortificazione dei corpi. In questo luogo, così lontano dalla 
nostra terra, le idee formano un ordine gerarchico e piramidale con al vertice 
l’idea del bene, idea delle idee e supremo valore. Il bene vale per se stesso, e 
perciò “supera l’essere in dignità e potenza.”10 Qui ogni traccia dei rapporti 
mondani tra le cose e le idee scompare, e quasi scompare la realtà stessa, o in ogni 
caso è superata, a favore di quel valore universale che è il bene. 
 
Per spiegare in quale modo l’uomo possa accedere al bene, Platone ricorre alla 
dottrina-mito della reminiscenza. Egli afferma, sulla base della credenza orfico-
pitagorica della metempsicosi, che la nostra anima, prima di incarnarsi nel 
presente corpo, è vissuta lontana dalla materia, nel mondo delle idee, dove, tra una 
vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. La 
reminiscenza postula l’immortalità dell’anima: l’anima è vita, soffio vitale, non 
può accogliere in sé la morte. Nell’ambito di questi discorsi si forma la dottrina 
platonica della filosofia come “preparazione alla morte”. Nel Fedone soprattutto, 
filosofare significa preoccuparsi di tutto ciò che si è liberato dal corpo: bisogna 
morire ai sensi ed al corpo -o quantomeno dimenticare di possedere un corpo- per 
poter meglio cogliere le idee. La vita del filosofo è dedita alla ricerca di una verità 
raggiungibile unicamente dall’anima; egli, perciò, deve prepararsi alla morte, in 
vista di quell’allontanamento definitivo dell’anima dal corpo e da qualsiasi 
implicazione fisico-biologica. 
 
La filosofia si assegna quindi il privilegio d’essere l’unico luogo adatto a 
conservare la verità, conquistata una volta e per sempre dall’anima platonica. 
Tutti i significati ed i sensi che aveva “incarnato” il corpo nel mondo greco, e che 
furono esaltati dalla tragedia, sono ormai perduti. Non a caso, Platone non 
indugerà a sistemare l’arte nel gradino più basso della conoscenza: essa, per non 
poter mai oltrepassare la soglia della verosimiglianza, rinserra l’anima in questo 
mondo corporeo, invece di stimolarla verso le vette dell’idealità.  
 
Platone rifugge, quindi, la forza conoscitiva della verosimiglianza, capace di 
approssimarsi al possibile, e sempre contraria alla definizione di leggi 
incontrovertibili. Il filosofo dell’Accademia crede nell’essenza trascendente della 
verità: la sua filosofia segna il passaggio dalla terra materiale e corporea 
rappresentata dalla tragedia greca, al cielo ideale e matematico, aperto solamente 
all’anima disincarnata. Per il corpo, in quest’ottica, non c’è altra prospettiva se 
non quella che ne fa il “carcere” o la “tomba” dell’anima, in quanto vieta 
all’uomo l’accesso al mondo delle idee. I rapporti tra corpo e verità sono ormai 
oscurati da un’impossibilità logica e metafisica di ricomposizione.  
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15 
 
L’anima è, in fin dei conti, la traduzione antropologica del risultato cui ha portato 
l’incessante ricerca dell’unità del molteplice da parte della filosofia greca; è la 
trasposizione sull’essere umano del sommo vertice della piramide platonica, cioè 
dell’idea del bene. La vittoria dell’anima si è chiaramente consumata a spese del 
corpo e dei suo i significati. La “colpa” del corpo, nella filosofia platonica, è tutta 
nel suo rifiutarsi di sottomettersi al predominio logico e metafisico delle idee, le 
quali sanciranno definitivamente l’inferiorità del mondo sensibile rispetto a quello 
ideale. E’ ormai lontano il periodo omerico, nel quale nessuno avrebbe potuto 
immaginare un’anima al di là dal corpo.  
 
L’antropologia di Platone farà presa sulla tradizione biblica. Nel frattempo, però, 
Aristotele aveva ricomposto anima e corpo nell’unità della sostanza : anima e 
corpo sono due elementi separabili di un unico individuo concreto. L’anima è la 
forma, la natura propria dell’individuo; il corpo è materia, ciò di cui l’individuo è 
fatto.  
 
Nonostante Aristotele, che inoltre aveva riportato la differenza platonica tra anima 
e corpo a quella omerica tra corpo vivente e cadavere -corpo ridotto a cosa11-, 
l’Occidente farà sua una filosofia che si trascina dietro un profondo disprezzo per 
il corpo. 
 
  
 
La cultura giudaico-cristiana ignorava il dualismo di anima e corpo. La visione 
unitaria dell’uomo dell’antropologia biblica fu però stravolta già dalla traduzione 
greca antica dei Settanta che, oltre alla lingua greca, apportò la filosofia platonica, 
quale strumento di lettura e filtro dei valori della cultura giudaica. Ciò spostò 
l’antropologia biblica addirittura su un piano tricotomico: il corpo, l’anima e lo 
spirito subentrarono a sbriciolare l’originaria unità dell’essere umano.  
 
Tuttavia, la visione unitaria dell’uomo della tradizione biblica era, di per sé, 
inserita in un dualismo cosmico, che contrapponeva la vita alla morte, il peccato 
all’alleanza. Questo dualismo finirà per lacerare l’unità antropologica, fino a 
permettere quella contaminazione fra la tradizione biblica e la filosofia greca che 
consegnerà all ’Occidente un uomo irrimediabilmente diviso in anima e corpo.  
 
Ciò che dispone in opposizione polare l’ordine dell’universo, separando il bene 
dal male, la vita dalla morte, è la potenza di Dio. Il corpo e l’anima non sono in sé 
né buoni né cattivi: lo diventano dipendendo dalla presenza o meno del supremo 
valore, Dio. Il primo dualismo che scaturisce dall’irraggiungibilità di Dio, è nella 
contrapposizione tra vita e morte. Dio è vita, e dove non spira il suo “soffio 
vitale” è il regno della morte. Il corpo umano ha vita solo perché è vivificato dalla 
potenza divina. La carne non animata da Dio è in sé morte.  
 
UN UOMO IN CARNE ED OSSA NELL’UMANESIMO DI ORTEGA Y GASSET  
 
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Il dualismo di vita e morte si allarga così a quello che separa la carne dallo spirito. 
Peccare è spezzare l’alleanza con Dio, è dimenticare d’essere carne animata dallo 
spirito divino per vivere come se si fosse puramente carne. “Se vivrete secondo la 
carne precipiterete nella morte; se con lo spirito fate morire gli atti del corpo, 
vivrete”, ci lascerà scritto San Paolo.12  
 
Platone fu chiamato il Mosè attico: Agostino sarà il Platone cristiano. “Agostino -
osserva Francesco Iengo- mette semplicemente in pratica il precetto socratico, e in 
modo talmente letterale da differenziarsi all’istante da tutto un primitivo 
visionarismo cristiano […] a rigore finendo così, e proprio come voleva 
l’intellettualizzazione del modello greco, per non vedere più niente di 
sensibilmente descrivibile, se non in quella luce, appena la condizione preliminare 
di ogni visione”.13 Il richiamo a Platone è, nel pensiero del filosofo cristiano, 
assolutamente programmatico. Alcune delle sue pagine, per un certo ed 
importante verso, sembrano essere una riedizione dei discorsi del Socrate 
platonico. Basti come esempio questo passo delle Confessioni:  
 
  
 
“Il corpo preda della corruzione appesantisce l’anima, e il vivere terra terra 
deprime lo spirito che va disperdendosi in mille pensieri”.14 
 
  
 
C’è un filo che legava Platone ai Pitagorici e che arriva fino ad Agostino: è la 
considerazione riservata ai numeri e alla matematica in generale. Il calcolo 
matematico permette di avvicinarsi alla realtà assoluta, dato che non ha bisogno 
dei sensi esterni e può prescindere completamente dalle capacità del corpo. Se per 
Platone la matematica era un insegnamento fondamentale per la formazione del 
filosofo, in quanto allontana dal mondo sensibile e indirizza verso l’essere 
supremo, per Agostino matematica e geometria rappresentano gli strumenti che 
consentono di svincolarsi dal corpo e dalla corporeità: esse diventano le regioni 
privilegiate per il culto dell’anima e della verità.  
 
Un compito che sarà svolto con perizia da Agostino, e dagli altri pensatori 
cristiani, sarà, inoltre, quello di custodire gelosamente la separazione tra il mondo 
terreno e quello celeste, garantendo così continuità storica alla loro religione. E’ 
interessante notare, a questo proposito, come il cristianesimo, soprattutto quello 
delle origini, non parla di immortalità dell’anima, quanto di “resurrezione della 
carne”. Ciò stimola a riflettere sul fatto che l’ideale di un’anima immateriale 
renderebbe vana la morte di Cristo: se l’anima cristiana, al pari di quella di 
Socrate, sfugge già nella vita terrena ad ogni incarnazione, si perde il valore di 
ogni resurrezione.15 
 
“Il corpo va sacrificato”: è questo uno dei precetti più severi che le filosofie 
antiche e medievali hanno lasciato ai loro posteri. 
UN UOMO IN CARNE ED OSSA NELL’UMANESIMO DI ORTEGA Y GASSET  
 
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2.  L’oggettivazione del corpo 
 
  
 
Il sacrificio del corpo e dei suoi significati operato dalla filosofia greca e dalla 
religione biblica, per l’istituzione di un valore trascendente ed assoluto, trova la 
sua radicalizzazione nella ragione cartesiana, da cui prende avvio la determinante 
svolta filosofica della rivoluzione scientifica del XVI secolo. Renato Cartesio 
riprende e rafforza il dualismo platonico-cristiano dell’anima e del corpo, 
privandolo d’ogni tipo d’inquadramento mitico e religioso. 
 
Un dualismo assoluto è al centro del suo pensiero, quello tra le due sostanze, la 
res cogitans e la res extensa, che si definiscono reciprocamente, per via di una 
negazione vicendevole : ciò che pensa non è esteso, ciò che è esteso non pensa. Da 
un lato troviamo la più chiara affermazione della spiritualità dell’anima, sempre 
più lontana dal mondo sensibile: l’unica funzione dell’anima rimane il pensiero; 
scompaiono i residui di animismo che permanevano nella tradizione scolastica 
con l’attribuzione all’anima anche delle funzioni biologiche. Dall’altro lato, la 
natura risulta spogliata di qualsiasi tipo di forze, con la riduzione a mera 
spazialità.  
 
Il corpo umano, il corpo vivente, viene così relegato nella res extensa, dove è 
risolto in oggetto, considerato sullo stesso livello di qualsiasi altro corpo e 
studiato unicamente secondo le leggi della fisica. L’anima, a sua volta, diventa 
puro intelletto, che neutralizza ogni possibile influenza corporea. 
 
L’uomo è il punto d’incontro di queste due sostanze così diverse fra loro. 
L’eterogeneità della res cogitans rispetto alla res extensa significa che l’anima non 
va concepita in rapporto alla vita: essa non è vita, ma pensiero; e la sua 
separazione dal corpo non determina la morte, che è provocata da cause 
fisiologiche. Se l’anima è una realtà inestesa, non può avere nulla in comune con 
il corpo, entità estesa, che occupa un determinato spazio. Con il dualismo 
cartesiano finisce, quindi, la strumentalità del corpo rispetto all’anima: la 
distinzione e la separazione tra le due sostanze è ormai così netta che sembra 
scomparire ogni traccia della loro relazione. 
 
Infatti, se la separazione istituita da Cartesio tra anima e corpo stabilisce 
l’indipendenza dell’anima rispetto al corpo, allo stesso tempo stabilisce 
l’indipendenza del corpo rispetto all’anima Di fatto, come scrive Cartesio, “tutto il 
calore e tutti i movimenti che sono in noi appartengono solo al corpo, in quanto 
non dipendono dal pens iero affatto.”16 
 
Il corpo è ridotto ad una macchina17 e non ha più voce, gli è vietato avvicinarsi al 
mondo dei significati, non può dire nulla nemmeno di sé, la sua produzione di 
senso è azzerata. Questo destino spetta anche all’intero mondo fisico. “L’anima -
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18 
scrive Umberto Galimberti- […] viene pensata come un puro intelletto, […] nelle 
cui cogitazioni, rigorosamente eseguite con metodo matematico, c’è ogni 
possibile senso del mondo e di ogni io personale e soggettivo che abita il 
mondo.”18 
 
Divenendo impossibile qualsiasi tipo di rapporto tra anima e corpo, diviene 
insensata anche la primordiale relazione tra corpo e mondo; insensata perché 
corpo e mondo si ritrovano senza quel loro senso originario che si sono visti 
sottrarre dalle cogitazioni della ragione cartesiana, che intanto andavano 
componendo la nuova scienza. L’ego cogito di Cartesio non si limita più ad 
osservare le differenze che incontra sul suo campo di studio -quella scena 
“interminabile” della vita, composta dal mondo e dall’essere umano: esso 
riconduce le differenze alle sue regole matematico-quantitative per riconsegnare 
un nuovo senso al corpo e al mondo; è un senso però, questo, che non viene 
carpito ascoltando le cose, ma che viene assegnato loro dalla scienza, dopo averne 
azzittito ogni pretesa di significato. 
 
Con Cartesio la scienza, produzione umana nata dall’osservazione del mondo 
sensibile, sembra dimenticarsi dell’uomo e del mondo: le definizioni del corpo 
vanno dedotte dalle cogitazioni dell’ego, che però oramai prescinde da tutto ciò 
che è corporeo e mondano. Scrive Cartesio nelle Meditazioni metafisiche:  
 
  
 
“Siccome ora so che noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà 
d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li 
conosciamo per il fatto che li vediamo e li tocchiamo, ma solamente per il fatto 
che li concepiamo per mezzo del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è 
nulla che mi sia più facile conoscere del mio spirito.”19 
 
  
 
L’iperuranico mondo delle idee, immesso da Platone nell’universo filosofico, 
sopravvive quindi al pensiero platonico. “Vien da pensare che l’Occidente -scrive 
ancora Galimberti-, percorrendo i sentieri della filosofia prima e della scienza poi, 
non abbia inseguito altro scopo se non quello di difendersi dalla multiformità della 
natura mediante l’uniformità dell’idea.”20  
 
La ragione cartesiana è, in fin dei conti, alla ricerca di quell’unità del molteplice 
che la filosofia non si è mai stancata di promuovere, da quando Talete azzardò le 
prime ipotesi su quale potesse essere il principio di tutte le cose. Sul piano 
antropologico questa ricerca ha portato all’oggettivazione del corpo; esso viene 
imbrigliato dalla rete concettuale dell’intelletto: ciò produce una nozione di corpo 
quale è pensata dalla mente umana e non quale è vissuta dal soggetto umano. Il 
corpo in carne ed ossa, il corpo che soffre, desidera e vive si perde dietro le quinte 
di quella scena filosofica che ha sancito il trionfo concettuale del corpo-oggetto. 
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19 
 
Tuttavia il buon senso, il senso comune, invita l’uomo a riconoscersi in un corpo, 
che in qualche modo è pur sempre senziente: Leib e non semplicemente Körper, 
corpo che vede, tocca, ed ama, oltre che corpo visto, toccato, ed amato. In fondo è 
impensabile una coscienza del tutto slegata dal nostro essere corpo, come 
inimmaginabile è al tempo stesso un vissuto puramente oggettivo della nostra 
corporeità. Lo stesso Cartesio, che, dubitando dell’esistenza del corpo ma non di 
quella della coscienza, riteneva il corpo inessenziale alla nostra esistenza, non 
voleva postulare una separazione reale tra la mente ed il corpo, ma solo la 
possibilità concettuale di una loro indipendenza. Nel giugno del 1643 Cartesio 
scriveva infatti ad Elisabetta:  
 
  
 
“E’ infine, con la sola consuetudine della vita e delle conversazioni ordinarie, 
astenendoci dalla meditazione e dallo studio delle cose, che s’impara a concepire 
l’unione dell’anima e del corpo.”21 
 
  
 
  
 
  
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3.  La riscoperta del corpo 
 
  
 
Nel XVIII secolo entrano in crisi le filosofie idealistiche e la loro crisi si 
ripercuote sulle sorti del dualismo di anima e corpo. L’Idealismo, dal canto suo, si 
era già lasciato alle spalle ogni concezione dualistica, considerando la corporeità e 
l’intera natura come un momento dialettico dello Spirito e dell’Assoluto. Ma 
nell’universo idealistico corporeità e natura restavano pur sempre una 
manifestazione dell’Idea. 
 
Le filosofie che sorsero in reazione all’Idealismo, capovolsero questa prospettiva: 
mantennero il rapporto unitario tra mondo ideale e mondo reale, però a partire dal 
sensibile, dalla natura e, nell’uomo, dai suoi caratteri istintivi e dalla sua 
corporeità. Molti sono i pensatori che, in contrapposizione all’Idealismo, hanno 
messo in risalto il ruolo della dimensione corporea nell’uomo. Tra loro si 
distinsero con originalità Feuerbach, Marx, Schopenhauer e Nietzsche. 
L’Ottocento segnerà quindi l’inizio di un’importante rivalutazione del corpo e dei 
suoi significati, che si protrarrà anche nel XX secolo.  
 
Nel 1837 Feuerbach era ancora un fervente hegeliano. Già nel ’39 però appaiono 
le sue prime critiche nei confronti di Hegel nello scritto “Per la critica della 
filosofia hegeliana”: “E’ vana ogni speculazione che vuole andare oltre la natura e 
gli uomini […]. I segreti più profondi sono contenuti nelle più semplici cose 
naturali, quelle che calpesta il filosofo speculativo che brama fantasticamente un 
al di là. L’unica fonte di salvezza è il ritorno alla natura […]. La natura ha 
edificato non soltanto quella comunissima officina che è lo stomaco, ma anche 
quel tempio che è il cervello”22. Già emerge qui il tema del condizionamento 
corporeo del pensiero e della coscienza. Nella filosofia di Feuerbach il “corpo -
scrive Leonardo Casini- diventa il fondamento della totalità umana, la sorgente di 
virtualità e di potenzialità emotive, di sentimenti e di valenze spirituali”23. L’io di 
Feuerbach è decisamente corporeo, aperto alla natura ed all’alterità: la corporeità 
è lo strumento che oltre a permettere di recuperare la totalità dell’essere umano, 
riesce a sanare le scissioni tra uomo e uomo. Se Hegel aveva spazzato via il Dio 
trascendente, sostituendogli lo Spirito, cioè la realtà umana nella sua astrattezza, 
Feuerbach s’impegna a rivalutare l’uomo reale che è prima di tutto natura, 
corporeità, sensibilità, bisogn o. “Verità è l’uomo e non la ragione astratta, verità è 
la vita e non il pensiero che resta sulla carta e trova nella carta l’esistenza che gli 
si addice.”24 Feuerbach giunge così a formulare la necessità di negare 
l’Idealismo, che è solo lo smarrimento dell’uomo concreto. 
 
Sulle orme di Feuerbach, Marx nei manoscritti economico- filosofici del 1844 
critica Hegel, mostrando che questi si aggira sempre nella sfera dell’astrazione 
facendo della realtà il risultato di quest’astrazione, quando il vero punto di 
partenza dovrebbe essere il reale. Marx, inoltre, insiste sulla realtà dell’uomo 
quale essere naturale, corporeo, piantato sulla terra ferma e solida, che ha i suoi