3 
dottrine da studiare solo in ambienti accademici e dimenticare quando possibile. Sarebbe ora di 
vederla sotto una prospettiva diversa, ma non troppo; del resto, si tratta di riscoprire quel valore che 
ha avuto sin dalle sue origini: la filosofia dev’essere vissuta!  
In un’epoca in cui non si può essere apprezzabili storici della filosofia se non facendo 
riferimento alle basilari regole interpretative proposte dall’ermeneutica contemporanea, la domanda 
sull’opportunità di studiare ancora gli autori della filosofia antica si rende fin troppo banale. E 
banale sarebbe l’eventuale risposta: dopo essere stati soggetti ad indagini e interpretazioni d’ogni 
genere, a commentari, a stroncature e a successive riabilitazioni, i filosofi della Grecia antica non 
hanno ancora detto tutto.  
Se l’epoca attuale identifica generalmente la parola «filosofia» con «amore per la saggezza», 
ciò accade perché i Greci trasmisero una determinata accezione del termine al Medioevo e all’epoca 
moderna. In realtà, la rappresentazione che gli antichi si facevano della filosofia era profondamente 
diversa da quella che si affermò in epoche successive, e ciò che va evidenziato innanzitutto, al di là 
della loro straordinaria capacità di sviluppare una riflessione filosofica sui problemi più sottili della 
logica o della teoria della conoscenza, è la peculiarità dell’atteggiamento individuale. Almeno a 
partire da Socrate, l’opzione per un determinato modo di vita non si pone, infatti, al termine del 
processi dell’attività filosofica, come una sorta d’appendice accessoria, ma al contrario all’origine 
di essa, in una complessa interazione di visione del mondo e posizione esistenziale, che condiziona 
in modo decisivo la stessa dottrina e la modalità del suo insegnamento. Il pensiero antico non si 
risolve soltanto in una successione dialettica di dottrine scientifiche, ma anche in un altissimo 
esercizio spirituale e in un’idea complessiva dell’universo derivante dalla decisione di vivere la 
filosofia in comunità2.  
Pierre Hadot, uno dei massimi specialisti contemporanei nel campo degli studi di filosofia 
antica, professore al Collège de France, al termine di un attento esame in merito all’importanza e al 
valore che assume oggi la filosofia, con il proposito di definire nel suo insieme la peculiarità di 
quell’irripetibile fenomeno storico e culturale costituito dalla filosofia antica, ammette, in un lucido 
intervento contenuto in uno dei suoi più famosi saggi sulla filosofia antica3,  che generalmente i non 
filosofi considerano la filosofia un linguaggio astruso, un discorso astratto, che un piccolo gruppo di 
specialisti, l’unico in grado di capirlo, sviluppa senza scopo intorno a questioni incomprensibili e 
prive d’interesse; si tratta di un’occupazione riservata ad alcuni privilegiati che, grazie al loro 
denaro o ad un fortunato insieme di circostanze, hanno il tempo di dedicarvisi; dunque, un lusso. 
Questo lusso, poi, si riconduce sempre più ad un’attività considerata inutile dal punto di vista 
professionale, e qualcuno potrebbe chiedersi a che cosa la filosofia possa servire «nella vita». Nel 
                                                           
2
 Hadot, Qu’est ce-que la philosophie antique, Gallimard, Paris 1995 [trad. it. Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, 
Torino 1998], Premessa. 
 4 
mondo moderno, dominato dalla tecnica scientifica e industriale, in cui tutto è valutato in funzione 
della redditività e del valore commerciale, a che cosa può servire discutere dei rapporti tra verità e 
soggettività, mediato e immediato, contingente e necessario, o, peggio, del dubbio cartesiano? Di 
tanto in tanto, tuttavia, si vedono, su qualche canale televisivo, anche dei filosofi: di solito essi 
seducono il pubblico grazie alla loro abilità espressiva; il giorno dopo la gente acquista i loro libri, 
ne sfoglia le prime pagine, ma le richiude immediatamente, respinta dal loro gergo incomprensibile. 
Questo aspetto fa sì che la filosofia sia percepita come un lusso per pochi eletti, qualcosa che 
interessa solo una cerchia ristretta di privilegiati, che non influenza le grandi scelte della vita.  
Tuttavia, come osserva Hadot, il vanto della filosofia sta proprio nel fatto di essere 
considerato da tanti un lusso e un discorso inutile. Sì, perché se nel mondo ci fosse soltanto l’utile, 
il mondo sarebbe invivibile. Ciò che rientra nelle “arti” - musica, poesia, pittura – non è considerato 
utile dal punto di vista commerciale, né riscuote l’apprezzamento utilitaristico da parte di questa 
attuale società consumistica: le “arti” non incrementano la produttività e, come tale, non meritano di 
essere valorizzate. Tuttavia, esse sono indispensabili alla vita, perché ci liberano dalle pressioni 
dell’utilitarismo, ci offrono una via di scampo dalle forzature ideologiche del consumismo, ci 
permettono di volare alti verso il cielo delle nostre libere idee, perché non hanno alcun fine 
commerciale; questo è altrettanto vero anche per la filosofia. Il compito della filosofia consiste 
proprio nel rivelare agli uomini l’utilità dell’inutile o, in altre parole, nell’insegnare loro a 
distinguere due diversi significati del termine “utile”. Infatti - osserva il filosofo francese -, esiste 
ciò che è utile in vista di un fine particolare: il riscaldamento o l’illuminazione, ed esiste anche ciò 
che è utile all’uomo, in quanto essere pensante. Quest’ultimo aspetto è quello che si lega al valore 
che la filosofia deve avere, sebbene la filosofia continui ad essere considerata un lusso, perché non 
serve a fini particolari e materiali. Se la stragrande maggioranza degli uomini considera la filosofia 
un lusso, è soprattutto perché essa appare loro infinitamente lontana da ciò che costituisce l’essenza 
della loro vita: dalle loro preoccupazioni, dalle loro sofferenze, dalle loro angosce, dalla prospettiva 
della morte che li aspetta e che aspetta coloro che essi amano. Di fronte a questa gravosa realtà della 
vita, i discorsi filosofici non possono apparire loro altro che una vana chiacchiera e un lusso 
ridicolo. In ultima analisi: «qual è la cosa più utile all’uomo in quanto essere pensante?», discutere 
sul linguaggio, sull’essere o non essere, sulla verità, ecc.., oppure imparare a vivere una vita 
umana?  
Gli antichi, però, nel riconoscere un carattere in qualche modo sacro della vita e della propria 
esistenza, anche nella responsabilità verso gli altri e verso se stessi, trovavano la serenità, la 
tranquillità dell’anima, la libertà interiore, l’amore per gli altri, la certezza dell’azione. A vederla 
così, allora, questa filosofia non può essere considerata un lusso, perché è legata alla vita stessa. 
                                                                                                                                                                                                 
3
 Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, La filosofia è un lusso?, Einaudi, Torino 2005, p. 193. 
 5 
Parrebbe piuttosto un bisogno elementare dell’uomo. Ecco perché filosofie come l’epicureismo o lo 
stoicismo si presentavano come universali. Proponendo agli uomini l’arte di vivere da uomo, esse si 
rivolgevano indistintamente a tutti gli esseri umani: schiavi, donne, stranieri, derelitti ai margini 
della società. Esse svolgevano una missione: cercavano di convertire le masse.  
Oggi, la filosofia è sempre concepita (così com’era l’impostazione degli antichi filosofi) un 
modo di vivere: solo che, paradossalmente, sembra impossibile non filosofare, così come sembra 
altrettanto impossibile filosofare, nella considerazione che la filosofia appare un lusso per pochi. La 
coscienza filosofica schiude all’uomo lo spettacolo delle meraviglie del cosmo e della terra, una 
percezione più acuta, una ricchezza inestinguibile di scambi con gli altri uomini, con le altre anime, 
l’invito ad agire con benevolenza e giustizia. Ma, le preoccupazioni, le necessità, le banalità della 
vita quotidiana gli impediscono di accedere a questa vita cosciente di tutte le sue possibilità4. Il 
concetto stesso di filosofia (e di filosofo) non ha ai nostri giorni la stessa «estensione» che aveva 
nell’Antichità; possiamo aggiungere che non ha più la stessa «comprensione».  
Si può dire, infatti, che il filosofo contemporaneo è in generale un universitario o uno 
scrittore, nella maggior parte dei casi tutte due le cose. Come universitario, egli è uno specialista, un 
professionista, che forma altri specialisti. Come scrittore, egli produce dei libri, degli oggetti 
letterari, nei quali propone la sua interpretazione del mondo, o della storia, o del linguaggio, e 
s’identifica in qualche modo con quegli oggetti che sono le sue opere. Come universitario, il 
filosofo interpreta le opere degli altri o commenta la sua produzione. Dunque, si può dire, con Paul 
Valéry, che: «la filosofia, definita dalla sua opera che è opera scritta, è oggettivamente un genere 
letterario particolare, caratterizzato da certi soggetti e dalla frequenza di certi termini e di certe forme e 
che, inoltre, destituita da ogni verifica esteriore, non giunge all’istituzione di alcun potere, ed è a ragione 
non troppo lontano dalla poesia»5. In ogni caso, qualunque definizione possa darsi della filosofia, 
bisogna notare che la stessa sua storia, tale come la si studia generalmente, consiste essenzialmente 
nell’analisi della genesi e delle strutture delle opere letterarie che sono state scritte dai filosofi, 
seguendo lo studio del loro rigore razionale e della coerenza interna di questi esposti sistematici. 
Tuttavia, ci si domanderà se una tale concezione contemporanea della filosofia e della storia della 
filosofia possa restare valida, allorquando si voglia applicarla alla filosofia antica. Vedremo, infatti, 
come nell’Antichità il concetto di filosofia avrà un contenuto sicuramente differente rispetto a 
quello che ha nel mondo moderno.                 
Sulla scorta di tutte queste considerazioni, Pierre Hadot, già in uno dei suoi primi saggi, 
pubblicato negli Atti del Congresso di Filosofia di Bruxelles nel 1953, cercava di descrivere «l’atto 
filosofico come una conversione»; poi, sotto l’influenza di Henri Bergson e dell’esistenzialismo, 
                                                           
4
 Ivi, p. 195. 
5
 P. Valéry, Variété & Oeuvres, Paris, tomo I, 1957, cit., p. 1256. 
 6 
egli ha inteso «la filosofia come una metamorfosi totale della maniera di vedere il mondo e di essere 
in esso»6. Nel 1939, niente portava a pensare che il filosofo francese avrebbe trascorso tutta la sua 
vita a studiare il pensiero antico e, in special modo, l’influenza che la filosofia greca ha esercitato 
nella letteratura latina. Nelle sue lunghe ed accurate indagini, Hadot ha costatato come molte siano 
le difficoltà che s’incontrano quando ci si avvicina alla comprensione delle opere filosofiche degli 
antichi; si commette, il più delle volte, un duplice errore anacronistico: il credere che tali opere 
siano destinate a comunicare un certo contenuto concettuale, e il presumere di carpire agevolmente 
e catturare (perché si crede sia vicina alla propria) la psicologia dell’autore. Di fatto, però, si tratta 
solo di semplici esercizi spirituali che l’autore compie su se stesso, e fa praticare al suo lettore: sono 
sicuramente esercizi che impegnano tutto lo spirito, destinati soprattutto a formare le anime e ad 
educarle secondo un particolare orientamento7; non a caso lo studioso ha più volte ribadito che le 
opere filosofiche dell’antichità fossero composte più per produrre un effetto formativo, che per 
esporre un sistema concettuale. In effetti, formare gli animi, piuttosto che riempirli concettualmente, 
è il fondamento su cui si basa l’idea degli esercizi spirituali8.  
Che Pierre Hadot sia uno dei massimi storici del pensiero antico dei nostri tempi è cosa ovvia; 
forse meno scontato è il fatto che egli possa, a buon diritto, apparire nel contemporaneo scenario 
filosofico internazionale. Non a caso, il libro Esercizi spirituali e filosofia antica è già un classico 
che conserva, però, la forza di un libro ancora attuale9. L’idea che si debba imparare a leggere i libri 
implica la necessità di liberarsi dalle preoccupazioni, per ritornare in sé, meditare più serenamente e 
«lasciare che i testi ci parlino»10. Leggere, dunque, è un’attività di formazione e di trasformazione di 
se stessi, e non si deve mai dimenticare che gli esercizi spirituali di cui parla Hadot non si limitano 
ad un ambito particolare della nostra esistenza: essi hanno una portata molto ampia e penetrano 
nella nostra vita quotidiana11. La filosofia antica «è esercizio spirituale, perché è un modo di vivere, 
una forma di vita, una scelta di vita»12, dove l’esercizio spirituale permette di costruire un’esistenza 
in modo sicuramente originale, o quantomeno ricca di stimoli creativi. Hadot vuole combattere la 
falsa immagine della filosofia «ridotta al suo contenuto concettuale» e «senza rapporto diretto con il 
modo di vivere del filosofo»13. Ciò significa essenzialmente che la filosofia va vissuta, più che 
concettualizzata; la filosofia è un modo di vivere e non solo un insieme di concetti e formalismi. In 
effetti, nell’epoca ellenistica e romana, ma a partire già da Socrate, la filosofia si presentava come 
                                                           
6
 Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Prefazione dell’autore, cit., p. IX. 
7
 Ibidem. 
8
 Ivi., p. XI. 
9
 In tal senso, è utile sottolineare che la traduzione italiana dell’originale francese ha contato varie riedizioni, la più 
recente delle quali è quella relativa alla nuova edizione ampliata edita dalla Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2005, a 
cura e con una prefazione di Arnold I. Davidson.    
10
 Hadot, La philosophie comme manière de vivre., Paris 2001, cit., p. 68. 
11
 Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, [trad. it.], Torino 2005, cit., p. XII. 
12
 Hadot, La filosofia come maniera di vivere, [trad. it.], Torino 2004, cit., p. 152. 
13
 Hadot, Qu’est ce-que la philosophie antique, Paris 1995, cit., pp. 247, 242. 
 7 
un modo di vivere, come un’arte della vita, come una maniera d’essere. La filosofia antica 
proponeva all’uomo un’arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna si presentava, 
anzitutto, come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti14. Tenendo sempre 
vivo l’interesse per la filosofia antica, in Il saggio e il mondo, Hadot sottolinea l’importanza della 
figura del saggio e il ruolo dell’esercizio della saggezza nella sua concezione di filosofia15. 
L’esercizio della saggezza può e deve realizzare una trasformazione del rapporto tra l’Io e il mondo 
«grazie ad un mutamento interiore, grazie ad un cambiamento totale del modo di vedere e di vivere»16. 
In questo senso, tutti quelli che esigono un lavoro su se stessi e una trasfigurazione della visione del 
mondo possono essere considerati filosofi; ecco perché, nell’ottica di Hadot, la filosofia non è 
soltanto una disciplina accademica, bensì una pratica che investe quanti hanno il coraggio di 
mettersi in gioco, di meditare sulla propria vita, di fare il punto della situazione, di puntare verso 
l’esemplarità.  
È fuori ogni dubbio che, sotto l’influenza della sofistica, la filosofia antica ha avuto, piuttosto 
rapidamente, la tendenza ad avere un carattere dottrinale e accademico, ad essere scritta. Tuttavia, 
in controtendenza, la filosofia antica si è sempre sforzata d’essere più una parola viva che scritta, e 
più ancora una vita che una parola. Si conosce la celebre fine del Fedro17, nella quale Platone lascia 
intendere che solo il dialogo vivo è duraturo e immortale, perché si scrive nelle anime viventi e non 
nelle pagine morte.  
Che la filosofia antica sia prima di tutto una forma di vita, è la conclusione che emerge dai 
molteplici testi dell’Antichità. Hadot non cita che uno solo di questi, tratto da Plutarco: «C’è della 
gente che pensa che ci sono  quelli che dissertano dall’alto di una cattedra e che fanno i loro corsi 
basandosi su dei testi, che filosofano. Ma che la vita quotidiana nella città sia, essa stessa, una filosofia 
che si rivela, in una maniera continua e uguale, a quella contenuta nelle opere e nelle azioni, questo essi 
lo ignorano [...] La vita quotidiana nella città è essenzialmente simile alla filosofia. Socrate, per esempio, 
non faceva disporre dei gradini per gli auditori, egli non si sedeva su una cattedra professorale; egli non 
aveva un orario stabilito e fisso per discutere o per camminare con i suoi alunni [...] Socrate è stato il 
primo a mostrare che, in tutti i tempi e in tutte le direzioni, assolutamente, in tutto ciò che ci accade e 
che noi facciamo, la vita quotidiana può fare posto alla filosofia»18.  
Nell’Antichità, il filosofo non è dunque necessariamente un professore o uno scrittore. Il 
filosofo è, prima d’ogni cosa, un uomo che ha un certo stile di vita che ha scelto volontariamente di 
seguire, anche se non ha insegnato o scritto; tale è il cinico Diogene, o lo scettico Pirrone di Elide, 
                                                           
14
 Hadot, op. cit., pp. 158, 164. 
15
 Hadot, La figure du sage dans l’Antiquité gréco-latine, in Études de philosophie ancienne, Paris 1984, p. 34. 
16
 Hadot, op. cit., p. XVI. 
17
 Platone, Fedro, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, pp. 276-277. 
18
 Plutarco, An seni res publica gerenda sit, 26, 796d, in Quinto Ennio, Annali – libri IX e XVIII – Commentari, ed. 
Liguori, Napoli 2006. 
 8 
oppure tali furono quei celebri uomini politici romani come Marco Porcio Catone Uticense, Publio 
Rutilio Rufo, Quinto Muzio Scevola Pontefice, Rogaziano martire di Abitinia, o Peto Trasea oratore 
e filosofo, che furono tutti considerati, dai loro contemporanei, dei veri filosofi. Questi personaggi 
vivono nel mondo, insieme ai loro concittadini, e pertanto non separati dagli altri. Tuttavia, essi si 
distinguono dalla massa per la loro condotta morale, la loro franchezza, la loro maniera di vestire o 
di condursi, la loro attitudine nei riguardi delle ricchezze e dei valori convenzionali. Qui, ancora, 
Socrate è l’esempio del filosofo. Se egli ha mostrato che la vita quotidiana può fare posto alla 
filosofia, ha provato anche, molto chiaramente, attraverso la sua vita e la sua morte, che non c’è 
un’opposizione radicale tra la vita abituale degli uomini e la vita del filosofo.  
Ecco perché, nel V sec. a.C., si assiste ad un mutamento nell’oggetto della riflessione 
filosofica. In effetti, l’interesse per l’archè (elemento strutturale del mondo, indagato dai 
presocratici, che ha il suo vertice proprio in quel secolo), lascia il posto ad una maggiore attenzione 
rivolta verso le problematiche che riguardano l’uomo. L’agire morale, il bene, il male e la loro 
relatività, la possibilità per l’essere umano di accedere alla verità, il rapporto natura/cultura: questi 
ed altri sono gli argomenti all’attenzione, sebbene con impostazioni e sviluppi differenti, sia dei 
sofisti che di Socrate. L’importanza di Socrate per la successiva storia della filosofia è 
fondamentale: con lui si acquisisce piena consapevolezza della peculiarità del metodo d’indagine 
filosofica (e dell’indagine intellettuale in generale).   
Pierre Hadot, nella sua Prefazione al Dictionnaire des philosophes antiques, pubblicato sotto 
la direzione di Richard Goulet19, ha giustamente evidenziato come la maggior parte della 
produzione filosofica dell’Antichità sia andata irrimediabilmente perduta. Noi con conosciamo che 
un’infima, minuscola parte di questa produzione. Per esempio, lo storico Crisippo di Corinto, 
allievo della scuola pitagorica, aveva scritto ben 700 opere, che sono però ormai perdute; per non 
citare alcuni filosofi importanti, che hanno fatto totalmente naufragio, o altri le cui opere personali 
sono sparite completamente. È probabile che se noi conoscessimo la totalità di questa produzione, 
per esempio le opere di Senocrate, di Speusippo, di Crisippo, l’idea che noi ci faremmo della 
filosofia antica sarebbe totalmente rivoluzionata. Tant’è che il troppo corto frammento di dialogo 
scoperto ad Aï-Khanoun20 lascia presumere l’esistenza d’opere, ormai perdute, che trattano di 
soggetti metafisici con un rigore, a livello d’argomentazioni trattate, uguale a quello di Platone o di 
Aristotele.  
Per compensare questa perdita irreparabile, non ci resta che formulare delle liste di titoli 
d’opere. Queste liste potrebbero essere la materia di uno studio ulteriore consacrato alla letteratura 
filosofica perduta. Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de Montesquieu, aveva già 
                                                           
19
 R. Goulet, Dictionnaire des philosophes antiques, Éditions du CNRS, Tomo I, Paris 1989. 
20
 C. Rapin e P. Hadot, Les textes littéraires grecs de la Trésorerie d’Aï-Khanoun, BCH 111, 1987, pp. 244-249.  
 9 
pensato a un’opera di questo genere: «A présent qu’on est dans le goût des collections et des 
bibliothèques, il faudrait que quelque laborieux écrivains voulût faire un catalogue de tous les livres 
perdus qui sont cités par les anciens auteurs. Il faudrait un homme libre de soins et des amusements 
mêmes. Il faudrait donner une idée de ces ouvrages, du génie et de la vie de l’auteur, autant qu’on 
pourrait le faire sur les fragments qui nous restent et les passages cités par d’autres auteurs qui on 
échappé au temps et au zèle des religions naissantes. Il semble que nous devions ce tribut à la mémoire 
de tant de savants hommes. Une infinité de grands hommes sont connus par leurs actions et non par leurs 
ouvrages»21. Le speranze di Montesquieu sono legittime, ma rimangono solo tali, poiché la 
predisposizione di una lista di tale genere richiederebbe uno studio estremamente dettagliato, 
sicuramente avvicinabile all’opera di catalogazione svolta da Richard Goulet con il suo 
Dictionnaire.  
A questo riguardo, Hadot, durante la sua lezione inaugurale tenuta al Collège de France il 
venerdì 18 febbraio 1983, ha segnalato che solo grazie agli scrittori latini è stata salvata una parte 
notevole del pensiero ellenistico. Senza Cicerone, Lucrezio, Seneca, Aulo Gellio, sarebbero 
irrimediabilmente perduti vari aspetti della filosofia degli epicurei, degli stoici, degli accademici. 
Sono altrettanto preziosi i latini dell’epoca cristiana: senza Mario Vittorino, Agostino, Ambrogio di 
Milano, Macrobio, Boezio, Marziano Capella, quante fonti greche sarebbero interamente ignorate! 
In pratica, solo grazie ai latini è stato possibile ritrovare il pensiero greco perduto, che ha generato 
la comparsa di una lingua filosofica latina, tradotta dal greco22.  
D'altronde, le traduzioni dal greco in latino non sono che un aspetto particolare di quel vasto 
processo d’unificazione, ossia d’ellenizzazione, delle diverse culture del Mediterraneo, dell’Europa, 
dell’Asia Minore, che si è attuato progressivamente a partire dal secolo IV a.C. e fino alla fine del 
mondo antico. Tutte le culture del mondo mediterraneo hanno così finito per esprimersi con le 
categorie del pensiero ellenico; il prezzo pagato, però, è stato alto: miti, saggezze, valori, propri di 
tali culture, hanno subito un’irrimediabile deformazione o, in alcuni casi, sono scomparsi del tutto. 
Nella trappola del processo d’unificazione ellenistico sono caduti perfino i romani (pur conservando 
la loro lingua), gli ebrei, e poi i cristiani23. L’effetto evidente di quest’incessante processo 
d’ellenizzazione è sicuramente lo straordinario pullulare di scuole, nella scia del movimento 
sofistico e dell'esperienza socratica, almeno fino all’inizio del secolo III a.C., quando in altre parole 
si assisterà ad una drastica riduzione (o, se si vuole, razionalizzazione) del numero di scuole. Infatti, 
non sopravvivono ad Atene, che le scuole a cui i loro fondatori avevano pensato di assicurare il 
supporto d’istituti bene organizzati: la scuola di Platone, quella di Aristotele e di Teofrasto, quella 
                                                                                                                                                                                                 
 
21
 C. de Montesquieu, Cahiers (1716-1755), Paris 1941, cit., p. 92.  
22
 Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, La storia del pensiero ellenistico e romano, pp. 9 e 10. 
23
 Ivi., p. 10. 
 10 
di Epicuro, la scuola di Zenone e Crisippo. Accanto a queste quattro scuole, esistono anche due 
movimenti, che sono soprattutto tradizioni spirituali: lo scetticismo e il cinismo. Da quel momento 
in poi, si assiste così, durante sei secoli (dal secolo III a.C. fino al secolo III d.C.), ad una 
sorprendente stabilità delle sei tradizioni, di cui ho finora parlato. Solo a partire dal secolo III della 
nostra era, il platonismo riuscirà ad assorbire l’aristotelismo e lo stoicismo, a prezzo però di 
numerose reinterpretazioni e deformazioni semantiche; tutte le altre tradizioni sono destinate a 
diventare marginali. Questo fenomeno, chiamato sintesi platonica, ha un’importanza storica 
capitale per tutta la tarda antichità, perché dominerà in tutto il pensiero del Medioevo e del 
Rinascimento, grazie alle traduzioni arabe e alla tradizione bizantina. La sintesi platonica sarà, 
inoltre, il comune denominatore delle teologie e delle mistiche ebraiche, cristiane e musulmane24.  
Appare chiarissimo, allora, come la divulgazione della filosofia sia una delle caratteristiche 
salienti dell’epoca: la filosofia è presente dappertutto, nei discorsi, nella poesia, nella scienza, 
nell’arte. Il filosofare, tuttavia, presupponeva una rottura con ciò che gli scettici chiamavano Bios, 
vale a dire la vita quotidiana. Sì, perché l’arte della filosofia - intesa come habitus, come modo di 
vivere – non era in linea né con la condotta della vita comune, né con la maniera abituale di vedere 
e di agire, che consisteva, per gli Scettici, nel rispetto dei costumi e delle leggi, nella pratica delle 
tecniche artistiche o economiche, nella soddisfazione dei bisogni del corpo, e mirava ad uno scopo: 
la tranquillità ininterrotta e la serenità dell’anima.  
Inoltre, presso gli autori comici e satirici, «i filosofi appaiono come personaggi a dir poco 
bizzarri, se non addirittura pericolosi»25. È pur vero che questa cattiva considerazione non poteva 
affatto essere mitigata, poiché, in tutta l’antichità, il numero dei ciarlatani che si presentavano come 
filosofi era notevole. Anche i giuristi consideravano i filosofi come gente a parte, da tenere alla 
larga. Secondo Ulpiano, nei litigi dei professori con i loro debitori, le autorità non devono occuparsi 
dei filosofi, poiché questi ultimi professano essi stessi il disprezzo del denaro. I filosofi sono 
dunque gente a parte e strana. Strani sono tutti quei filosofi il cui comportamento, senza essere 
ispirato dalla religione, tuttavia rompe interamente con i costumi e le abitudini dei comuni mortali. 
Già il Socrate dei dialoghi platonici era detto atopon, ossia «inclassificabile»26. Ciò che lo rende 
                                                           
24
 Ivi, p. 11. 
25
 Ivi., p. 12.  
26
 Il dialogo socratico è un metodo d'indagine filosofica, descritto per la prima volta da Platone nei Dialoghi, sulla 
verosimile scia del Socrate storico, ed è anche chiamato metodo “maieutico”. La maieutica è un termine che deriva dal 
greco e significa "l'arte della levatrice " (o "dell'ostetricia"). L'accostamento, tra la maieutica ed il dialogo socratico, è 
originato da Socrate che paragona l'arte della dialettica a quella della levatrice: come quest'ultima, Socrate intendeva 
"tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli 
altri con la retorica e l'arte della persuasione. Socrate fingeva di abbassarsi al livello culturale del discepolo 
ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e attraverso il dialogo, Socrate 
riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le 
piccole verità dal discepolo. La stessa psicanalisi si rifà all'arte della maieutica. Il dialogo socratico, basato su 
domande e risposte tra Socrate e l'interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva 
delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l'infondatezza di tutte quelle