6
Infatti, quando le banche si affidano a sistemi di rating realizzati 
da agenzie esterne, a volte non possono valutare i rischi su molte piccole 
e medie imprese che per motivi economici non richiedono rating alle 
agenzie. Secondo Basilea, un’impresa della quale non si ha un rating 
viene inserita nella fascia di rischio più alta. Le banche potrebbero 
decidere allora di razionare l’offerta creditizia nei confronti di queste 
controparti e, di conseguenza, per le PMI qualsiasi tentativo di 
intraprendere un processo di sviluppo virtuoso verrebbe compromesso. 
Il lavoro è stato strutturato in quattro capitoli: il primo capitolo si 
apre con una disamina sul tradizionale rapporto banca-cliente, rapporto 
spesso inficiato dall’esistenza di asimmetrie informative che influiscono 
negativamente sulla capacità della banca di analizzare il merito creditizio 
della clientela stessa.  
Solo l’instaurazione di un reciproco rapporto di fiducia tra 
impresa e banca può consentire a quest’ultima l’accesso a dati necessari 
alla valutazione, superando di fatto anche i problemi legati alla selezione 
avversa (adverse selection) degli affidamenti, nonché quelli derivanti da 
comportamenti opportunistici dell’affidato nel corso della vita del 
prestito (moral hazard). Seguono poi delle riflessioni sul concetto di 
rischio di credito, termine che a prima vista può apparire scontato, ma 
che in realtà racchiude in se diversi significati che devono essere 
analizzati e chiariti. Primo fra tutti il fatto che esso non significa soltanto 
possibilità di insolvenza di una controparte (credit default risk), in 
quanto anche il semplice deterioramento del merito creditizio di questa, 
che determina una riduzione del valore di mercato della posizione 
creditoria detenuta, deve già considerarsi una manifestazione del rischio 
predetto (credit spread risk).  
 7
Si analizzano quindi le sue due componenti fondamentali, la 
perdita attesa e inattesa (che assume la maggiore rilevanza), entrando nel 
merito dei benefici apportati dalla diversificazione al portafoglio prestiti 
della banca.  
Il secondo capitolo entra invece nel merito dell’ Accordo di 
Basilea, tema quanto mai attuale data l’entrata in vigore, nel 2006, delle 
novità introdotte dall’elaborazione del Nuovo Accordo sul Capitale, a cui 
peraltro le banche devono già adeguarsi per essere pronte a recepirle e a 
metterle in pratica.  
Vengono posti in evidenza i limiti della precedente formulazione 
del 1988, che si basava su requisiti minimi di capitale applicati 
uniformemente a tutte le banche, senza tenere conto della rischiosità dei 
singoli portafogli né delle attività fuori bilancio. La rigidità delle 
precedenti regole ha prodotto, in particolare, il cosiddetto fenomeno del 
“regulatory capital arbitrage”.  
Sulla base di approfondimenti condotti dalla Banca d’Italia e dalle 
autorità di vigilanza di altri Paesi, sono state introdotte nello schema 
specifiche modalità di calcolo dei requisiti patrimoniali relativi ai crediti 
alle imprese di minori dimensioni; le esposizioni verso le società con 
fatturato fino a 50 milioni di euro vengono assoggettate, a parità di 
rischio di fallimento, a requisiti patrimoniali inferiori rispetto a quelli 
relativi alle società più grandi. 
 Nel terzo capitolo si affronta il concetto di rating, e in particolare 
quello di rating interno, che è la più importante innovazione apportata 
dalle nuove regole dell’ Accordo sul Capitale, in quanto rappresenta il 
miglior incentivo per le banche a valorizzare il patrimonio informativo 
accumulato nel corso delle relazioni creditizie, e a migliorare la qualità 
dei processi di controllo dei rischi.  
 8
Si passano così in rassegna i principali elementi che caratterizzano 
un sistema di rating interno, che consente tra le altre cose di ottenere una 
più stretta correlazione tra la rischiosità dell’impresa affidata e il capitale 
necessario alla banca per coprire il rischio. Si mettono in evidenza i 
benefici della selezione individuale della clientela, che integrerà il merito 
creditizio con più ampie valutazioni prospettiche in termini di potenziale 
contribuzione del cliente al valore generato dalla banca (remunerazione 
del capitale assorbito), ma individuando al contempo alcuni aspetti critici 
di non secondaria importanza.  Il capitolo si conclude con una disamina 
sulle tecniche di conversione dei rating delle Agenzie esterne in punteggi 
di rating interno.  
L’ultimo capitolo è il caso pratico della tesi, frutto dell’esperienza 
di stage condotta presso la divisione Banche-Finanza e Assicurazioni di 
“Datamat S.p.A.”, una società leader nel settore ICT con presenza su una 
vasta gamma di mercati del panorama economico nazionale e 
internazionale. In tal caso, sono stati approfonditi per via empirica alcuni 
punti caratterizzanti i sistemi di rating interno, in modo tale da analizzare 
qualità e coerenza dei dati che alimentano i modelli applicabili. E’ stata 
effettuata un’analisi delle scale di rating su dati provenienti da alcuni tra 
i maggiori concorrenti, bancari e non, a livello nazionale, a cui si 
aggiunge infine lo studio sulle possibili ripercussioni della scelta tra due 
metodi di valutazione della probabilità di default: stima ex-ante o ex-
post. 
 9
Capitolo 1  
 
Dal merito di credito al rischio di credito:  
il ruolo  della banca 
 
 
 
SOMMARIO:  1.1 La banca tra efficienza allocativa e affidabilità della clientela;  1.2 Alcune 
riflessioni sul concetto di rischio di credito;  1.3 La gestione strategica del rischio di credito: il 
Credit Risk Management (CRM);  1.3.1 I concetti chiave di un sistema di Credit Risk 
Management; 1.3.2 La valutazione dell’esposizione al rischio di insolvenza e il tasso di 
recupero. 
 
 
1.1  La banca tra efficienza allocativa e affidabilità della 
clientela 
 
Secondo la teoria economica la banca è una impresa che nella sua 
attività tipica sviluppa una esperienza specifica nella valutazione del 
merito di credito e nella gestione degli affidamenti, il che la mette in 
condizione di svolgere un ruolo quasi unico nella selezione e nella 
allocazione delle risorse nel mercato del credito. E’ ormai nota 
l’esistenza di asimmetrie informative che, secondo Akerlof
1
, possono 
portare al fallimento del mercato per l’effetto di una selezione avversa 
(adverse selection) degli affidamenti, cioè l’impossibilità di valutare la 
qualità effettiva degli strumenti trattati
2
,
 
ma anche maggiori rischi 
derivanti da comportamenti opportunistici (moral hazard) da parte 
                                                 
1
 Cfr. Akerlof G., The market for lemons: qualitative uncertainty and the market 
mechanism, in Quarterly Journal of Economics n.84, 1970. 
2
 In sostanza si accordano crediti a condizioni non proporzionate al rischio a cui ci si 
espone: in presenza di condizioni troppo restrittive rispetto a  tassi di credito eccessivamente 
alti, la banca corre il serio pericolo di cedere i rischi più contenuti alla concorrenza più a buon 
mercato (perdita di clienti), innalzando automaticamente il peso dei gravi rischi insiti nel 
portafoglio crediti. Viceversa, se i tassi credito sono troppo modesti la banca appare appetibile 
agli occhi dei debitori della fascia di solvibilità più bassa (clienti in perdita), con l’effetto di 
deteriorare ulteriormente la struttura del portafoglio. 
 10
dell’affidato nel corso della vita del prestito stesso; fattispecie, queste, 
che sono viste come ostacoli al libero estrinsecarsi dei meccanismi di 
mercato, ma anche come giustificazioni dell’esistenza e dell’operare 
degli intermediari.  
Tutto ciò espone la banca al rischio di credito, cioè al rischio che 
il finanziato sia inadempiente o addirittura insolvente
3
, con conseguente 
necessità di misurare tale rischio con metodologie più o meno sofisticate 
che rientrano tra i criteri di valutazione dei fidi. 
L’analisi del merito di credito della clientela richiede però una 
notevole quantità di informazioni che di solito sono riservate, e solo 
l’instaurazione di un reciproco rapporto di fiducia tra impresa e banca 
può consentire a quest’ultima l’accesso a dati necessari alla valutazione, 
superando di fatto i problemi legati all’esistenza di asimmetrie 
informative. 
I benefici derivanti da un siffatto rapporto si estendono a entrambi 
i contraenti: per l’impresa infatti c’è la possibilità di ottenere una 
stabilizzazione del costo del finanziamento, ovvero di godere di 
finanziamenti a tassi inferiori, mentre per la banca si intravede un 
migliore sfruttamento delle informazioni riservate. 
Come rovescio della medaglia, le imprese si trovano ad affrontare 
però l’eterno dilemma tra la diffusione di informazioni necessarie alla 
loro valutazione e le esigenze di competitività aziendale, che invece 
suggeriscono di mantenere una certa riservatezza per evitare di favorire 
le aziende concorrenti. 
                                                 
3
 Si ha inadempienza quando il debitore non realizza la prestazione al momento 
dovuto, nel luogo dovuto e secondo le modalità stabilite. L’insolvenza invece è una situazione 
di inadempienza definitiva, a fronte della quale il creditore può chiedere la risoluzione del 
contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c. 
 11
Non c’è dubbio però che l’avvio di un rapporto privilegiato con la 
banca è particolarmente importante per le imprese di dimensioni minori, 
che solamente tramite l'intervento della stessa hanno accesso al mercato 
dei capitali, determinante per raccogliere finanziamenti a costi adeguati 
alle loro possibilità.  
Se infatti le grandi imprese hanno la possibilità di agire 
autonomamente sui mercati finanziari, e accedere direttamente alle 
opportunità di finanziamento, le imprese più piccole, che non hanno tale 
capacità, devono necessariamente rivolgersi al mercato finanziario in 
forma mediata. 
 
1.2 Alcune riflessioni sul concetto di rischio di credito 
 
Prima di addentrarci nelle questioni relative al merito di credito, 
pare utile soffermarsi sul concetto di rischio di credito, termine che a 
prima vista potrebbe sembrare scontato, ma che in realtà racchiude in se 
diversi significati che devono essere analizzati e chiariti. 
Secondo una definizione ormai condivisa nel mondo accademico, 
per rischio di credito s’intende “la possibilità che una variazione inattesa 
del merito creditizio di una controparte, nei confronti della quale esiste 
un’esposizione, generi una corrispondente variazione inattesa del valore 
di mercato della posizione creditoria”.
4
 
Questo porta ad alcune riflessioni importanti: innanzitutto rischio 
di credito non significa solo possibilità di insolvenza di una controparte 
(credit default risk), in quanto anche il semplice deterioramento del 
merito creditizio di questa, che determina una riduzione del valore di 
                                                 
4
 Cfr. A. Sironi, I rating interni e i modelli per la gestione del rischio di credito, 
Tematiche istituzionali – Banca d’Italia, aprile 2000.  
 12
mercato della posizione creditoria detenuta, deve già considerarsi una 
manifestazione del rischio predetto (credit spread risk).  
A sua volta le componenti del rischio di credito sono 
essenzialmente due: la perdita attesa (o Expected loss, EL) e la perdita 
inattesa (o Unexpected loss, UL).  
Evidentemente assume rilevanza solo la componente inattesa del 
rischio di credito, ossia deve verificarsi un deterioramento della qualità 
del credito che non era stato previsto; questo perché le perdite attese 
sono già comprese negli accantonamenti prudenziali e nella 
determinazione del tasso d’interesse per i titoli di debito o per i prestiti, 
nell’ambito di quell’attività di pricing che deve riflettere in modo 
adeguato il profilo di rischio di un impiego.  Proprio in quanto stimata a 
priori quindi, la perdita attesa non costituisce il vero rischio di 
un’esposizione creditizia, ma si configura piuttosto come un elemento di 
costo per così dire “fisiologico”, incorporato già nelle aspettative 
dell’investitore. In altri termini, essa consente di tener conto del rischio 
medio di insolvenza della controparte, che viene quantificato, nella 
determinazione del pricing, da uno spread che misura il premio rispetto 
ad un investimento privo di rischio. 
Analiticamente per perdita attesa s’intende il valor medio della 
perdita che una banca si attende di subire con riferimento ad un credito o 
portafoglio di crediti, in un certo arco temporale; mentre la perdita 
inattesa non è altro che il grado di variabilità del tasso di perdita intorno 
al proprio valore atteso.
5
  
                                                 
5
 Cfr. A. Sironi, Le componenti del rischio di credito §1.3, in A. Resti, “Misurare e 
gestire il rischio di credito nelle banche: una guida metodologica”, 2001. 
 13
Quest’ultima, quindi, equivale alla possibilità che la perdita 
effettiva risulti, ex post, superiore alla perdita attesa stimata ex ante.    
 
Figura 1:Perdita attesa e inattesa 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fonte: Credit Suisse 
 
Normalmente la perdita attesa è espressa come funzione di tre 
elementi: a) la probabilità di insolvenza del debitore (Probability of 
Default, PD), b) la perdita in caso di insolvenza (Loss Given Default, 
LGD), c) l’esposizione al momento dell’insolvenza (Exposure at 
Default, EAD). Ovvero si ha:  
 
Equazione 1 - La perdita attesa 
LGDPDEADEL ⋅⋅=  
 
La probabilità di insolvenza (PD) discende a sua volta dal merito 
creditizio del debitore, cioè dalla sua capacità di reddito e quindi da 
fattori relativi alle condizioni economico-finanziarie, attuali e 
 
 14
prospettiche, dell’impresa affidata, nonché dalla qualità del management, 
dalle prospettive di sviluppo del settore produttivo, ecc. 
Invece, la percentuale di perdita in caso di insolvenza (LGD) 
dipende, in genere, dalla stima dei “valori di liquidazione” del 
patrimonio dell’impresa affidata, ma anche dalla natura del 
finanziamento e dalle eventuali garanzie che lo assistono, da cui discende 
una metodologia di analisi dei due profili notevolmente diversa. 
Il calcolo di EAD richiede di conoscere sia la quota di fido 
utilizzata (Drown Portion, DP), sia la quota non utilizzata (Undrown 
Portion, UP); quest’ultima assume importanza in quanto il debitore ha 
praticamente la facoltà di aumentare la sua esposizione in corrispondenza 
dell’insolvenza.  
Si inserisce quindi una terza variabile che prende il nome di 
Usage Given Default, UGD, che rappresenta la percentuale della quota 
inutilizzata che  si ritiene venga utilizzata dal debitore in corrispondenza 
dell’insolvenza. Analiticamente avremo: 
Equazione 2 - L' Exposure At Default 
UGDUPDPEAD ⋅+=  
 
Le due componenti del rischio di credito quindi, non solo 
rappresentano aspetti diversi della manifestazione delle perdite, ma 
hanno anche implicazioni diverse sulle politiche di bilancio della banca: 
infatti, come abbiamo visto, la perdita attesa serve a determinare il livello 
adeguato degli accantonamenti in conto economico, mentre la 
componente inattesa ha il compito principale di garantire un adeguato 
livello di patrimonializzazione dell’istituzione creditizia.  
 15
Oltre alla suddivisione tra perdita attesa e inattesa, è interessante 
notare l’esistenza di svariate determinanti del rischio di credito, che può 
assumere la forma di: 
 Rischio di insolvenza (o di default), che si manifesta come 
probabilità che il debitore si renda incapace o indisponibile 
ad onorare i propri impegni. Tale probabilità viene 
misurata attraverso un giudizio sintetico (il cosiddetto 
rating) emesso da apposite agenzie specializzate, o dalle 
banche stesse; 
 Rischio di esposizione, che fa riferimento all’ammontare 
del debito che risulta a rischio nel momento in cui si 
manifesta l’insolvenza; 
 Rischio di recupero, che riguarda l’ammontare di prestito 
in sofferenza che potrà essere effettivamente recuperato 
dalla banca attraverso le varie procedure di recupero 
crediti. E’ in tale ambito che si inquadra il concetto di loss 
given default, cioè la perdita in caso di insolvenza; 
 Rischio di concentrazione, ossia il rischio che un 
portafoglio di crediti eccessivamente orientato verso pochi 
grandi prestiti, o verso determinati settori industriali, risulti 
esposto a grandi oscillazioni di valore rispetto a quello 
atteso; 
 Rischio di migrazione, che consiste nella probabilità di un 
deterioramento del merito creditizio di un debitore, e che 
trova riscontro in un declassamento del rating da parte 
delle varie agenzie internazionali o da parte della banca 
stessa. 
La misurazione e la gestione del rischio di credito non sono 
purtroppo operazioni agevoli né tantomeno intuitive, ed è ben nota la 
 16
scarsità di serie storiche a cui le istituzioni creditizie italiane dovrebbero 
far riferimento per costruire modelli previsivi attendibili.  
Tra i vari motivi, bisogna ricordare in particolare la difficoltà di 
stimare le correlazioni esistenti all’interno di un portafoglio di crediti 
perché, a differenza delle correlazioni tra i vari strumenti finanziari 
(generalmente liquidi), i crediti sono tendenzialmente illiquidi e 
caratterizzati da frammentarie serie storiche. 
 
 
1.3 La gestione strategica del rischio di credito: il Credit Risk 
Management (CRM) 
 
Nel corso degli ultimi anni lo scenario competitivo delle banche 
internazionali è stato caratterizzato da una evoluzione e da un dinamismo 
sempre crescenti, che di fatto hanno spinto le istituzioni creditizie ad 
assumere rischi più elevati, accrescendo al contempo l’esigenza di 
affinare le tecniche di mitigazione dei rischi stessi. 
Tali mutamenti hanno determinato, con particolare riferimento al 
rischio di credito, il superamento della prassi tradizionale basata sulla 
limitazione del rischio attraverso le garanzie, e l’affermazione di nuove 
metodologie sviluppate secondo un’ottica di portafoglio, capaci di 
contribuire in maniera determinante alla formazione del risultato 
complessivo di gestione. 
La maggiore attenzione riservata alle problematiche del rischio di 
credito, più che ad altre tipologie di rischio, nel contesto del sistema 
bancario italiano, è da ricondurre a motivazioni ormai note in ambito 
accademico: 
 al peso che l’attività di erogazione del credito assume 
rispetto al totale delle attività detenute in portafoglio; 
 17
 alla rilevanza delle perdite su crediti, quale elemento che 
ha contribuito a peggiorare sensibilmente i già poco 
esaltanti risultati economici degli intermediari creditizi che 
operano nel nostro Paese; 
 alla classica attenzione che la nostra autorità di vigilanza 
ha da sempre riservato al controllo del rischio di credito, in 
particolar modo negli ultimi tempi in seguito alle proposte 
di modifica dell’Accordo di Basilea sui requisiti 
patrimoniali; 
 al crescente interesse degli investitori all’andamento 
economico e alle performance delle istituzioni creditizie, 
ecc. 
 
 
1.3.1 I concetti chiave di un sistema di Credit Risk Management 
(CRM) 
 
 
Quando si parla di Credit Risk Management ci si riferisce in 
genere ad un “sistema integrato di modelli e di strumenti di misurazione 
che consente, unitamente all’esistenza di idonee strutture organizzative, 
una gestione finalizzata e ottimale del rischio di credito.”
6
 
Per cui un adeguato sistema di CRM deve fondarsi innanzitutto 
sulla chiara individuazione degli obiettivi da perseguire, unitamente alla 
scelta dei modelli, degli indicatori e degli strumenti per la misurazione 
del rischio; di fondamentale importanza risulta poi essere la 
predisposizione degli elementi di carattere organizzativo, che consentono 
di rendere operativo il modello di misurazione adottato. 
                                                 
5
 Cfr. Pogliaghi P., Gaetano A., Vandali W., Rischio di credito e rischi operativi in 
banca – Un’applicazione nel Credito Cooperativo, 2001 
 18
Con riferimento a quest’ultimo, bisogna denotare una scarsa 
chiarezza sui concetti di fondo nei diversi contributi presenti in dottrina 
in quanto ,ad esempio, si fa spesso confusione tra le definizioni di 
scoring e rating. In alcuni casi si ritiene che il passaggio dalla fase di 
scoring a quella di attribuzione del rating si sostanzi nella mera 
considerazione di elementi soggettivi che vengono aggiunti alla 
valutazione automatica del sistema, con il rischio però di non cogliere 
adeguatamente l’evoluzione dinamica del rischio di credito nel contesto 
operativo della banca. 
Un sistema di CRM deve poi fornire, nella fase di misurazione, 
una quantificazione della perdita attesa sulle singole posizioni, connessa 
alla probabilità di default del debitore, considerato nella sua individualità 
o come appartenente ad una classe omogenea. Questo richiede 
ovviamente che i modelli di analisi della rischiosità relative alle varie 
fasi di gestione dei crediti (istruttoria, monitoraggio e revisione), 
debbano essere integrati tra loro, fino ad apparire come un unico modello 
complesso. 
L’adozione dei modelli suddetti, ai fini dell’affidamento, 
presuppone che si ponga attenzione alle componenti fondamentali del 
rischio di credito, ossia la perdita attesa e inattesa, ma anche al grado di 
correlazione fra le perdite inattese delle varie categorie di impieghi. E’ 
ben noto che la variabilità della perdita attesa (cioè la perdita inattesa) 
risulta tanto minore quanto minore è il grado di correlazione fra i singoli 
impieghi; per cui è evidente che essa può essere ridotta efficacemente 
mediante una adeguata politica di diversificazione per aree geografiche, 
settori produttivi e classi dimensionali.  
Al contrario la perdita attesa non può essere eliminata 
diversificando il portafoglio in base alle modalità suddette, ma può 
essere semplicemente “stabilizzata” e quindi livellata mediante 
 19
l’ampliamento del portafoglio stesso, ossia introducendo un gran numero 
di impieghi della stessa natura in modo tale da far si che il livello di 
perdita media sia effettivamente quello conseguito dal portafoglio 
impieghi della banca. Per quanto riguarda infine il terzo elemento, cioè il 
grado di correlazione tra le perdite inattese delle varie categorie di 
impieghi, che rappresenta il contributo del singolo prestito al rischio 
complessivo del portafoglio, si è potuto rilevare in base a studi empirici 
che le divergenze in termini di rapporti sofferenze/impieghi fra settori 
produttivi e aree geografiche, siano particolarmente forti, denotando una 
correlazione imperfetta, e si accentuino in corrispondenza delle fasi di 
crisi. Ne consegue che un’efficace politica di diversificazione del 
portafoglio impieghi consentirebbe di ridurre in maniera significativa, a 
parità di rendimento atteso, il grado di rischio complessivo del 
portafoglio stesso. 
 
Figura 2: effetto della diversificazione sul rischio 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La riduzione della variabilità, tuttavia, pur combinando il maggior 
numero di attività consentito dal mercato, non scende al di sotto di una 
soglia, tale per cui i fattori di rischio comunque presenti nell’economia 
determinano una comune variabilità “di fondo” dei rendimenti attesi.