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Introduzione 
 
Mentre sfoglio le pagine, in cerca delle parole esatte per 
scrivere un‟introduzione eloquente e „adeguata‟, mi rendo 
conto che ognuna di esse è venuta da sé, è scivolata senza 
alcuno sforzo. E non poteva essere altrimenti trattandosi di un 
percorso il mio, che si barcamena tra i dubbi e la confusione di 
una generazione disorientata, come un trapezista che dondola 
nella sua paura di non afferrare la corda. 
Un‟ipotesi azzardata si insinua tra le righe, la stessa che ha 
dato un titolo e una forma al tutto, e cioè l‟idea che in una 
società spaesata come la nostra, talvolta capziosa, talaltra 
condizionata da una quantità inquietante di specchietti per le 
allodole, l‟unica salvezza possibile, l‟unico cammino verso la 
verità, la ultima ambrosia per l‟uomo, sia l‟arte. Mestizia 
diffusa e comune a tutti, in una struttura algida e schizofrenica 
di ossimori e contraddizioni, di miti deprecabili 
nell‟ostentazione di una chirurgia dell‟anima, di nutrimenti 
privi di nutrimento. Mentre il tempo correva su talloni diversi 
da come li abbiamo sempre immaginati, l‟ambiente dell‟arte 
performativa prendeva forma, si schiudeva poco a poco,
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manifestando un interesse sempre più ampio, nei confronti 
della realtà e della percezione. Tale riflessione sulla realtà , ha 
sedotto la mente di molti artisti: Marcel Duchamp trasforma un 
orinatoio in una fontana, Yves Klein espone il vuoto, Piero 
Manzoni vende la pittura a rotoli, Romeo Castellucci allestisce 
la scena con sentimenti primordiali e sensazioni rimosse. Il 
dubbio quindi, si annida ormai da molti anni nell‟arte, e oggi 
vive nel pieno della sua deflagrazione contenta. Probabilmente 
per coincidenza, nel mio cammino didattico, spesso mi 
ritrovavo posseduto nella contemplazione delle teorie di fisica 
quantistica, delle domande, della ricerca di risposte (forse). Un 
carattere analitico e sperimentale, un‟indole di processualità 
incerta che inevitabilmente riconduce all‟attuale contesto 
dell‟arte.  
Apparteniamo ad un mondo opacizzato da un‟ agonizzante 
propensione verso l‟eccesso in ogni cosa, verso l‟attaccamento 
tossicomane nei confronti della ripetizione, che pone le cose 
sotto una luce inanimata. Non ci si può fermare. Ogni cosa è 
catturata in una centrifuga avvilente di costruzioni e 
decostruzioni continue di una realtà sempre più vicina alla 
parodia e al paradosso. Siamo diventati i burattinai di noi 
stessi. Abbiamo costruito un labirinto , ma abbiamo ucciso il
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minotauro ed ora siamo rimasti senza nessun‟altro, affaticati e 
abulici nella totale assenza di un‟autodefinizione. E ciò che 
troviamo sono cloni, fantocci di botulino che sorridono tutti 
alla stessa maniera. La morte dell‟alterità , l‟esclusione di tutto 
ciò che è diverso (la donna, l‟uomo di colore, l‟ebreo, 
l‟omosessuale, l‟immigrato) , ci ha portato allo smarrimento di 
noi stessi. Per questo motivo, abbiamo costruito la realtà 
virtuale , per un bisogno di rapportarci a qualcosa. Una eterna e 
parallela esistenza di tutto, in una traboccante iper-disponibilità 
di qualunque cosa, in tempo reale. Con la sovranità del 
concetto di realtà, tutto viene iperrealizzato, e le cose positive, 
e quelle negative, come ad esempio la morte. Come afferma 
Jean Baudrillard, per sfuggire a questa oggettività e al 
terrificante palesarsi del male e della sventura, per svincolarci 
finalmente dalla responsabilità di dover sempre „scegliere‟, 
cosa è vero e cosa è falso, cos‟è bene e cos‟è male, abbiamo 
dato vita al mondo virtuale
1
. Seguaci del più radicato dei 
desideri, e cioè quello di essere come Dio, di vedere senza 
essere visti, abbiamo dato sfogo a tale voyeurismo , creando 
una nuova realtà che “esiste al posto nostro”, una delega di 
                                                 
1
 Baudrillard J., Il delitto perfetto – La televisione ha ucciso a realtà?, 
Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, p.46
11 
 
vita.  Abbiamo bisogno di un mondo perfetto ed è per questo 
bisogno che abbiamo creato la macchina e l‟era virtuale, 
creature che trovano la loro perfezione in un‟impossibile 
rivalità con noi, in un confronto che non avverrà mai giacché 
siamo noi a crearle e siamo noi che le vogliamo senza volontà, 
senza sessualità, ma soprattutto senza ciò che è stato dato a noi 
e cioè la conoscenza del Male.  
Una rassegna di asserzioni, storiografie e teorie, su una realtà 
che abbiamo considerato solo parzialmente.  Il ritorno 
dell‟illusione, di qualcosa di rimosso e primordiale, si fa 
criterio estetico in un panorama artistico, colmo di 
contaminazioni tra generi differenti. Dinnanzi all‟illusione non 
ci sono differenze: vige un principio basilare d‟uguaglianza che 
nel mondo del reale viene dilaniato e cede il passo ad un 
continuo generarsi delle differenze. In quel „principio 
democratico‟ dell‟arte, si rispecchia una sempre più forte 
necessità di non sentirsi più parte di un branco di pesci che pur 
muovendosi insieme, nella stessa  direzione, non si guardano 
mai negli occhi. Si rispecchia l‟eterna necessità di non sentirsi 
soli. Ed è in questo, che il mondo tende all‟ artificazione, 
intesa appunto come una consapevolezza nei confronti 
dell‟aspetto di „unione‟ e di vicinanza. All‟interno di un teatro,
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in silenzio, ogni spettatore partecipa ad un rituale di unione: 
sebbene a livello percettivo, permangano differenze soggettive, 
nasce uno spirito di collettività, un respiro unico che, passo 
dopo passo, sviluppa una condivisione che solo in un altro 
contesto può trovare la stessa forza: la religione. Un teatro 
come chiesa dell‟arte dunque, all‟interno della quale ognuno 
viene attraversato da una corrente di stimoli , rapito da una 
commozione libera da ogni preconcetto, da ogni statuto 
predeterminato di come dovrebbero essere le cose, giacché a 
teatro tutto è possibile. 
 Probabilmente il mio è un punto di vista altrettanto spaesato e 
altrettanto confuso, lontano da un percorso clinico o analitico 
definibile in un risultato deciso, in una risposta o in una 
conclusione chiara e finita. Tuttavia essendo una tesi la mia, 
che punta i piedi sul dubbio e sul paradosso della realtà di oggi, 
è con un sollievo gradevole che mi accorgo di esser giunto ad 
una conclusione priva di conclusioni certe. Più che di ipotesi, si 
tratta di ulteriori visioni sulle possibilità offerte da una 
condizione di opulenza strabordante di cose del mondo, che 
inevitabilmente si annullano reciprocamente, evaporano 
lasciandoci nel vuoto.
13 
 
“È nel vuoto che esiste la possibilità, è nel vuoto che le 
possibilità si possono realizzare”
2
. 
Romeo Castellucci 
E forse, è proprio grazie a questo vuoto che sarà possibile un 
nuovo inizio. Il desiderio di restare senza fiato, sbalorditi come 
di fronte ad un‟aurora boreale di colori e nuovi fermenti. 
L‟incantevole presentimento di una rivoluzione dello sguardo, 
che ci riconduca finalmente, verso un approccio al mondo 
basato sulla bellezza e sulla verità dell‟Illusione.  
 
 
  
 
 
 
 
                                                 
2
 Jean Frédéric Chevallier e Matthieu Mével, intervista a Romeo 
Castellucci,  citato in Audino A.(a cura di), Corpi e visioni – Indizi sul 
teatro contemporaneo, Editoriale Artemide, Roma, p.119
14 
 
CAPITOLO I  
REALTÀ IN MOVIMENTO
15 
 
 1.1 - Evoluzioni del dubbio 
 
Il clima generale negli anni Cinquanta in Europa, è 
caratterizzato da un sentimento di rivoluzione e rinnovamento 
anche e soprattutto nei confronti della vita culturale, come 
spesso accade alla fine di una guerra. C‟è l‟esigenza di uscire 
fuori dai limiti delle diverse discipline, di dar vita ad una 
cultura alternativa rivalutando il modo di vivere per renderlo 
più adatto alla nuova vita e quindi più “moderno”. E‟ da quel 
momento che gli artisti assumono un atteggiamento differente 
che si protrarrà fino ad oggi, e cioè concentreranno 
un‟attenzione sempre maggiore nei confronti della ricerca di 
nuove forme di espressione. Abbattere le barriere conosciute ed 
entrare nella vita dunque, è lo spirito nuovo che porterà alla 
luce l‟happening e la performance, rendendo più anonimo 
l‟artista e più coinvolto il pubblico. Ci sono, nel territorio 
culturale di quegli anni, una miriade di vere e proprie mine di 
eclettismo che esplodendo una alla volta, lasciano sul suolo la 
traccia di una corrente artistica o una scuola di pensiero. La 
prima traccia visibile è il Nouveau Rèalisme, un gruppo di 
artisti coalizzati attorno ad un manifesto, indisposti nei 
confronti della supremazia dell‟espressionismo astratto del
16 
 
dopoguerra e del suo carattere elitario, per una destinazione 
dell‟arte più ordinaria, popolare ed impegnata nella costruzione 
della nuova società di massa. Pratiche come la performance o 
l‟assemblage, divengono lo strumento principale per la 
diffusione di un‟arte, concentrata sull‟oggetto reale in tutte le 
sue sfaccettature, comprese quelle prive di valore (e talvolta, 
soprattutto quelle)
3
. Il 27 ottobre 1960 Pierre Restany con la 
Déclaration costitutive du Nouveau Réalisme, riconosce al 
nuovo realismo la supremazia dell‟esperienza e un nuovo 
metodo di percezione della realtà: alla composizione si 
sostituisce l‟esperienza e la realtà assume sempre di più il 
carattere della „manifestazione‟. Ritrovando i principi dei 
ready-made, ogni artista si fa spazio seguendo non i cardini di 
un soggettivismo stantio, ma quelli del gesto, un gesto che, 
come nel caso della scelta di Yves Klein di „esporre il vuoto‟, 
si immerge nelle tonalità della mitologia. Tale importanza, 
attribuita all‟avvenimento ed assieme alla performance, 
all‟azione, al movimento, viene testimoniata perfettamente 
dalle prime manifestazioni del Nuovo Realismo, come le 
esposizioni dinamiche dell‟Indipendent Group a Londra o le 
                                                 
3
 Poli F. (a cura di), Arte contemporanea –le ricerche dalla fine degli anni 
‟50 ad oggi,Electa, Milano 2003, p.15.
17 
 
sempre più acclamate feste di Fluxus
4
.Sarà sempre la 
performance, a connettere tra loro correnti con estetiche e 
filosofie molto differenti tra loro come la pop art. Fluxus o 
l‟azionismo viennese, una performance più o meno interattiva, 
talvolta vicina al teatro o alla danza, ma sempre frutto di una 
innovativa impostazione nel metodo di lavoro dell‟artista, 
improntata sull‟esplorazione, la raccolta di informazioni e di 
materiali e lo scambio. 
Lo stesso rifiuto dell‟egocentrismo e dell‟interiorità propri 
dell‟espressionismo del dopoguerra, permea le opere della pop 
art, sebbene con una convergenza più solida e determinata.  
Nel 1960, Lawrence Alloway inventa il termine pop art, per 
raccogliere in un unico movimento, tutti quei pittori concentrati 
sulla realtà di massa: avviene una rivoluzione non solo nel 
panorama artistico, ma anche in quello più ampio della cultura 
popolare, attraverso un ritorno all‟immagine ed una sempre più 
ostentata iconografia. Il desiderio, la mimesi, la divinizzazione 
delle pop star, si traducono in una vera e propria „estetica del 
modello‟, che procede verso un‟idea dell‟immagine in quanto 
„riproduzione dell‟immagine‟ e non dell‟oggetto stesso, 
aggrovigliandosi in fotografie delle star o in immagini 
                                                 
4
 Poli F. ,op. cit., p.21
18 
 
direttamente prese dai fumetti e riprodotte in enormi formati 
pubblicitari. E‟ cosi che Andy Warhol e gli altri numerosi 
seguaci della pop art, demistificano il genio dell‟artista e la 
maestria del gesto creativo, spostando di molto i confini della 
concezione dell‟arte vigente sino ad allora ed orientandola 
verso un‟atmosfera collettiva, che si nutre di relazioni, 
dell‟aspetto ludico ed ordinario della vita di ognuno
5
. Un‟altra 
insubordinazione rispetto alla solita destinazione artistica, è il 
situazionismo. Nell‟istituzione di un principio dell‟arte 
incentrato sul dubbio, i situazionisti giocano un ruolo decisivo: 
scendono in strada in piccoli gruppi di psicogeografi, con 
l‟intenzione di intervenire sull‟ habitat urbano, di modulare il 
presente, seguendo però delle metodologie tecniche come la 
deriva –e cioè un modus operandi che prevedeva il rilevamento 
dei dati- e il détournement – rispondente alla logica del „tutto 
può servire‟ perché può essere svuotato di senso. Nel 1954, i 
dé-collage , la sovrapposizione di manifesti strappati che Wolf 
Vostell compie a Parigi, dirottano l‟espressione artistica verso 
l‟happening, che troverà la sua prima vera testimonianza 
sempre a Parigi nel 1962 con Ligne PC Petite Ceinture, la linea 
di un autobus parigino a bordo del quale i cittadini prendevano 
                                                 
5
 Poli F. , op. cit., p.30