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Le soglie di punibilità nel diritto penale dell'economia

Il nuovo volto dei reati tributari

Quello che ci apprestiamo a trattare, avendo sempre, come comune denominatore della nostra analisi, le soglie di punibilità nel diritto penale dell’economia, è un tema che, negli ultimi mesi, si presenta di scottante attualità, ovvero i reati che attengono all’evasione d’imposta, cavallo di battaglia della politica contemporanea, animata dalla volontà rinnovata di mettere le manette agli evasori, per contribuire, almeno in parte, a risanare il pesante deficit che affligge il nostro Paese.
Perseveriamo, infatti, nel seguire le tracce di quella che pare essere una delle più recenti tendenze inaugurate dal legislatore nell’ambito del diritto penale economico, ovvero l’introduzione di soglie quantitative di rilevanza, come discrimine del carattere penale o meno della condotta posta in essere dai consociati, descritta dalla norma.
Le citate soglie, per riprendere in estrema sintesi, alcune considerazioni fatte in incipit alla presente trattazione, costituirebbero uno strumento che avrebbe la precipua funzione di rispondere alla necessità di contenere l’intervento della sanzione penale ai soli casi in cui essa si dimostri effettivamente l’extrema ratio in grado di assicurare adeguata tutela ai beni giuridici, al cui presidio viene posta la fattispecie incriminatrice.
Sembra, dunque, che questa sia stata la ragione che avrebbe ispirato la previsione di soglie di punibilità anche nelle nuove figure di illeciti penali tributari, così come essi risultano dalle novelle apportate dal famoso decreto 74/2000, sulla cui operatività e natura dogmatica ci interrogheremo a lungo, come abbiamo fatto in relazione al falso in bilancio.
Tale intervento riformatore, sul quale avremo modo di soffermarci ampiamente nelle pagine a seguire, a differenza di quanto abbiamo potuto, non senza rammarico, constatare, con riguardo alle rinnovate figure delle false comunicazioni sociali, pare essere stato salutato con favore, sotto numerosi aspetti, come quello del recupero del principio d’offensività dell’illecito penale e l’abbandono della tecnica dei reati prodromici inaugurata dalla legge 516/1982.
In chiave di contestualizzazione della materia, sarebbe opportuno fare alcuni brevi cenni all’excursus normativo che ha accompagnato la storia degli illeciti penali tributari.
Sicuramente possiamo partire col dire che lo scopo precipuo del diritto penale tributario, il quale emerge anche dal suo fondamento costituzionale, posto nell’art. 53 Cost., è quello di tutelare l’interesse dello Stato ad una pronta ed efficace riscossione dei tributi, in modo da garantire la disponibilità delle risorse economiche necessarie all’attuazione di diversi compiti, fra cui l’erogazione dei servizi pubblici ai cittadini. Ne scaturisce, come conseguenza, che i reati tributari dovrebbero essere imperniati sulla repressione dell’evasione della materia imponibile, ma appare altrettanto evidente che, perché ciò sia possibile, è necessario accertare preventivamente a quanto ammonta l’imposta dovuta, che si assume essere stata evasa. Proprio da questa incontestabile verità sembra essere discesa la sofferenza del nostro sistema penale-tributario.
Tale sistema trova la sua genesi nella legge 2834/1928 e nel decreto 1628/1931, che, poco dopo, l’aveva surrogata, in cui l’utilizzo dello strumento penale rimaneva assestato su livelli minimali, in quanto, anche per l’ipotesi di frode fiscale, si prevedeva solo l’irrogazione di sanzioni pecuniarie.
Per vedere la comparsa della pena detentiva in campo penale-tributario, si dovette attendere il decreto 645/1958 e, ancor di più, la riforma tributaria degli inizi degli anni ’70, caratterizzata da una brusca impennata delle risposte punitive, che veniva, però, ad essere vanificata dal risalente istituto della pregiudiziale tributaria. In forza di siffatto meccanismo l’esercizio dell’azione penale per gli illeciti tributari era subordinato al previo accertamento dell’ammontare dell’imposta in sede di contenzioso tributario, cosa che avrebbe potuto funzionare correttamente solo se tale contenzioso avesse avuto tempi di svolgimento ragionevoli. Purtroppo, però, l’esasperante sua lentezza aveva l’effetto di condurre ad una sostanziale impunità quei contribuenti che, avvalendosi di tutti gli strumenti che la legge tributaria metteva a loro disposizione, riuscivano a procastinare di anni e anni l’avvio del processo penale, determinando una vorticosa caduta dell’interesse al perseguimento dei fatti criminosi.
Si giunse, qualche anno più tardi, all’emanazione del decreto 429/1982, convertito, poi, nella legge 516/1982, con la quale si pensò di porre rimedio alle carenze del sistema attraverso l’abolizione della pregiudiziale tributaria e, soprattutto, la rielaborazione delle fattispecie punitive, che venivano, così, ad essere sganciate dall’evasione d’imposta e articolate su condotte poste a monte della stessa e di semplice accertamento, solo astrattamente evocative dell’intento elusivo dei contribuenti.
Appariva di evidente constatazione la frizione di siffatte previsioni con il principio di necessaria offensività dell’illecito penale; oltretutto, tolto il freno della pregiudiziale tributaria, si era transitati, nel giro di breve tempo, da una situazione di repressione inesistente ad una valanga vera e propria di notitiae criminis relative a reati tributari, che andavano ad intasare le Procure della Repubblica e i nostri tribunali.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Le soglie di punibilità nel diritto penale dell'economia

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Informazioni tesi

  Autore: Marzia Castiglia
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2011-12
  Università: Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Mario Romano
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 250

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Parole chiave

diritto penale
falso in bilancio
illecito
punibilità
reati tributari
frode fiscale
riforma mirone
sistema penale
soglie quantitative

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