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Il delitto di infanticidio tra passato e presente

Le infanticide

Come è emerso anche nella ricerca statistica le infanticide erano per lo più donne nubili che lavorano, come domestiche e braccianti, in quanto si trovano in condizioni di vita misere. Questo maggiore presenza di donne di basso ceto, non indica però che l’infanticidio è un reato tipico delle fasce più povere, ma solo che questo tipo di donne sono maggiormente a rischio di essere sottoposte a processo penale in quanto non godono di alcuni coperture e protezioni per evitare la scoperta del crimine che invece potevano avere le donne benestanti.

L’età delle protagoniste, invece, varia dai 18 ai 48 anni, anche se il gruppo più numeroso è di donne intorno ai 25 anni. Le donne per la maggior parte dei casi, rimangono incinte a seguito di rapporti casuali o, anche se più duraturi, non sempre finalizzati al matrimonio. La casualità dei rapporti è più evidente nei casi delle braccianti della campagna. Il comportamento maschile non è praticamente preso in considerazione dall’autorità giudiziaria, sia perché spesso le donne non facevano il suo nome, ma soprattutto perché, nell’Ottocento vi era ancora una concezione dell’infanticidio come un reato prettamente femminile, in cui gli uomini non avevano mai o quasi mai un ruolo, se non marginale.

Per quanto riguarda il comportamento delle infanticide durante l’atto criminoso, le modalità sono molto simili: il neonato viene strangolato o più spesso soffocato con le mani immediatamente dopo il parto e, solo più raramente, viene soppresso con atti violenti. Di particolare attenzione da parte dei medici legali del periodo è il comportamento della madre dopo l’uccisione: l’analisi di come la madre si è sbarazzata del cadaverino è indice della possibile infermità mentale o meno.

Nell’analisi dei casi presi in esame si può notare che nella fase di occultazione del cadavere vi sono i maggiori segni di comportamenti confusi da parte della madre. Un elemento particolarmente interessante è rappresentato dalla serie di tracce e indizi che le donne non si curano o non riescono a nascondere: ad esempio non solo il corpicino, ma anche macchie di sangue, abiti sporchi o residui placentari.

Per quanto riguarda il comportamento delle infanticide in sede di processo, ci sono alcuni modelli ricorrenti. Per la maggior parte dei casi, infatti le donne, all’inizio negano il fatto, affermando che il neonato è nato morto, per poi confessare l’infanticidio, oppure avviene il contrario. Le versioni dell’imputata durante gli interrogatori infatti sono contraddittorie, ma per più della metà dei casi, arrivano alla fine ad ammettere la propria colpa o condividerla con qualche complice. Le altre invece continuano a negare il fatto, attribuendo la morte del bambino a cause naturali o di natura accidentale.

Esse inoltre affermano che, se il bambino fosse nato vivo, sarebbero state felici di allevarlo, anche se, nel raccontarlo, traspare un atteggiamento di distacco e indifferenza per le sorti di un bambino non voluto. Questo atteggiamento delle imputate, totalmente differente dalla concezione odierna, riflette la scarsa diffusione del sentimento materno nelle campagne bolognesi. Ciò era dovuto alle loro condizioni di vita: le madri si dovevano separare molto presto dai figli, per poter tornare a lavorare nei campi o a causa dell’alta mortalità infantile. Inoltre vi è da specificare che la concezione di protezione dell’infanzia è iniziata in quei periodi, nelle città e di certo non aveva raggiunto e permeato le concezioni degli abitanti della campagna.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il delitto di infanticidio tra passato e presente

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Informazioni tesi

  Autore: Veronica Iacarella
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Sociologia
  Relatore: Antonio Bonfiglioli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 58

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