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Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l'insofferenza

La trilogia del lavoro

"Il lavoro culturale", "L’integrazione" e "La vita agra" formano, a detta della maggioranza dei critici, una trilogia; «la trilogia del lavoro» secondo l'interpretazione di Massimo Coppola e Alberto Piccinini, curatori degli Antimeridiani di Isbn. Di lavoro infatti si parla: ma non più di quello degli altri, il quale era stato protagonista ne "I minatori della Maremma" ma di quello che Luciano Bianciardi vive in prima persona; le attività di respiro culturale che svolge a Grosseto prima, la “grande impresa” milanese poi. Quando entra in Feltrinelli Bianciardi si aspetta di trovare intellettuali giovani e fecondi, come lui, ma non è così. La convivenza quotidiana con gente che passa le giornate a decidere quale colore assegnare alle schede dell'archivio dei testi sociologici e quale a quelle dell'archivio dei testi antropologici, lo annoia mortalmente. Si trova insomma in mezzo a uomini rassegnati e metodici che hanno capito da tempo come ci si deve comportare nel mondo della cultura industrializzata. Stenta a comprendere quale sia il nesso tra giornate passate a catalogare libri e un reale cambiamento in senso rivoluzionario della società, uno scopo finale insomma. Si rende conto dell'insensatezza dell'impresa, della “grossa iniziativa” e rimpiange il “lavoro sul campo”, i colloqui con i minatori; prova la nostalgia di quella provincia dalla quale era fuggito e che non esita a mettere alla berlina nel primo volume della trilogia. Quella stessa provincia immobile, popolata di tipi, divisa in compartimenti stagni tra nostalgici risorgimentali, nostalgici fascisti, nostalgici e basta, e i giovani, che si contrapponevano a tutti gli altri. Un'immobilità che denota comunque genuina aderenza a determinate idee, portate avanti in infinite discussioni ai tavolini dei bar; un'immobilità che l'intellettuale Luciano Bianciardi cerca di scalfire con le attività della Biblioteca Chelliana, che dirige e dei cineforum, che organizza. Se a Grosseto tutto è vissuto in prima persona (la politica si fa ogni giorno con le discussioni) a Milano tutto è delegato a funzionari “profeti” dell'idea unica, che cala dall'alto. Nella grande città, nonostante il gran ballare di piedi, tutto è fermo, tutto è immobile, le idee non si hanno ma si apprendono, i luoghi della cultura sono pieni di «minchioni» asserviti al concetto di produzione; dalla grande città partono anche i funzionari del Partito Comunista ad indottrinare la “plebe” dei paesi, carichi dei loro film cecoslovacchi, che non hanno mai visto e che nessuno vuol vedere, ma che il Partito considera fondamentali. Milano è «una giungla merdosa» dove si tira a campare, eppure nella sensazione diffusa di benessere. Bianciardi esce pertanto dalla casa editrice e si chiude in casa decidendo che il suo lavoro debba essere la manovalanza: il lavoro a cottimo delle traduzioni, la serialità delle collaborazioni giornalistiche, la routine delle presentazioni pubbliche. Lo “scopo finale” di Bianciardi è quello di non fingere di averne uno, di costringersi ad una pratica quotidiana, al conto della spesa, alla “pagnotta” da portare a casa.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Luciano Bianciardi: lo sguardo, la malinconia, l'insofferenza

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Informazioni tesi

  Autore: Gianluca Ciucci
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2007-08
  Università: Università degli Studi di Perugia
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filologia moderna
  Relatore: Massimiliano Tortora
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 138

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Parole chiave

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