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Educare alle differenze per un nuovo paradigma di normalità: dal perfezionamento della razza alla valorizzazione della diversità

Antropologia come educazione “versus” antropologia pedagogica

Tim Ingold, nel libro Antropologia come educazione, rileva che viviamo in un'epoca in cui i politici richiedono un'educazione forte. La debolezza è ritenuta un problema. L'educazione forte introduce una divisione tra chi ha un intelletto “inferiore” e chi, invece, è dotato d’intelletto “superiore”. Queste concezioni consolidano l'idea di classe come laboratorio scientifico in cui individuare i “deboli/diversi” e intervenire con una pedagogia che cerchi di renderli forti/normali. Ai giorni nostri quello che avviene nelle classi non è molto distante da quello che avveniva a fine ‘800; gli insegnanti individuano gli alunni che non stanno al passo con gli altri per i più svariati motivi: brutta calligrafia, lettura lenta, soglia di attenzione scarsa, difficoltà di stare seduti al banco per tutto il tempo richiesto, difficoltà logico-matematiche, “troppa” irrequietezza o al contrario “troppa” timidezza. Segnalano la difficoltà ai genitori, compilano un modulo di richiesta di valutazione neuropsicologica e attendono la diagnosi, sperando in una risposta positiva e nell'assegnazione dell'insegnante di sostegno. L'eccesso di medicalizzazione nella scuola è stato evidenziato in più occasioni da pedagogisti e psicologi tra i quali Daniele Novara. Egli, nel suo libro Non è colpa dei bambini, ritiene che l'approccio metodologico diffusosi nel secolo scorso, basato su un processo di “normalizzazione”, che passava attraverso la stigmatizzazione sanitaria e l'isolamento del soggetto portatore di diversità, si sia radicalizzato nel tempo in diversi ambiti della società tra i quali la scuola. La tendenza più preoccupante in cui cadiamo come insegnanti è, a mio avviso, etichettare qualsiasi discostamento del bambino a quello che consideriamo “comportamento standard”, inquadrandolo in una patologia. Questa tendenza non solo provoca una divisione arbitraria in bambini standard e non standard ma soprattutto crea l'effetto Pigmalione per cui, con o senza una diagnosi, l'insegnante crederà che quel bambino sia meno dotato e lo tratterà di conseguenza.

Nell'organizzazione scuola il “comportamento standard” è costruito da una cultura che da una parte subisce ancora i retaggi del periodo gentiliano determinando un sapere predeterminato e basato sulla trasmissività, dall'altra parte risente dell'influsso dei principi neoliberisti che riducono la persona a homo oeconomicus orientato alla competizione e al profitto individuale. Le leggi sui Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA) e sui Bisogni Educativi Speciali (BES), pur con il pregio di rispondere alle esigenze personali dei bambini in difficoltà hanno di fatto contribuito al processo di medicalizzazione all'interno della scuola perché, come ho già sottolineato in precedenza, non sono state accompagnate da cambiamenti strutturali della didattica e degli ambienti di apprendimento. Affrontare un problema complesso mediante interventi di natura prevalentemente burocratica e semplicistica ha portato a due conseguenze; la prima è che il problema è stato affrontato e scalfito solo in superficie, la seconda è che si producono oltre a quelli sperati anche effetti contrari a quelli per cui la legge era nata. Uno degli effetti non voluti più problematico è stato sottolineato dal Prof. Giacomo Stella durante un incontro del convegno Ripensare l'educazione nel XXI secolo durante il quale egli ha affermato che l'eccesso di medicalizzazione riferito a DSA e BES è dovuto principalmente al bisogno degli insegnanti di avere delle diagnosi per “normare” qualsiasi differenziazione del percorso di apprendimento individuale dei loro studenti. Questo avviene, ad esempio, se un alunno presenta difficoltà a scrivere in corsivo o a leggere ad alta voce e l'insegnante non ritiene possibile dispensarlo da tali attività senza una certificazione medica che certifichi le sue difficoltà.
Per ovviare a questi limiti, Ingold propone un'educazione “debole”, contrapposta a quella “forte” che ha la pretesa di definire i risultati ed è basata su una presunta oggettività.
La pedagogia debole non ha niente da trasmettere, ma ha molto da ascoltare e condividere, non per raggiungere obiettivi prefissati, ma per costruire insieme un percorso di crescita reciproco creando così “comunità di relazioni”. Queste comunità costituiscono per l'antropologia il campo di osservazione partecipante, il luogo in cui, secondo Ingold l'antropologia stessa diventa educazione.
Il campo è caratterizzato dal prestare attenzione alla presenza dell'altro e dall'attivazione di un processo dialogico in cui domande e risposte non si esauriscono in assunti dati per certi, anzi, restano aperte a nuove domande e diverse risposte.
Mentre con l’antropologia pedagogica Maria Montessori mirava a trasformare le classi in laboratori scientifici per lo studio dei bambini, Ingold propone una classe come campo di osservazione partecipante, dove l’interazione, la relazione, l’attenzione e il riconoscimento dell’altro permettono di superare l’individualità del singolo per costruire quel senso di cittadinanza planetaria che trasforma l’alterità da un’eccezione alla regola che riguarda tutti gli esseri umani. La classe da laboratorio scientifico dove si misuravano le differenze e si cercava di curarle, deve diventare luogo dove si valorizzano le differenze, perché esse costituiscono la normalità dell'essere umano in quanto sono insite nella sua stessa natura.
Obiettivo dell'antropologia come educazione, diversamente dall'antropologia pedagogica, è «studiare con le persone e non fare uno studio su di esse».

Scopo dell’antropologia non è quindi misurare, etichettare e incasellare gli individui in definizioni precostituite ma innescare un processo relazionale ed esperienziale che non si limiti al tempo della scuola, ma prosegua per tutto l’arco della vita.
Il proposito dell'antropologia e anche dell'educazione non è pervenire a risultati definitivi ma «aprire a delle esperienze che apriranno a loro volta a esperienze ulteriori, rendendo possibile un processo di crescita e di scoperta senza fine e continuamente rinnovato».
Il campo di osservazione partecipante permette di creare quelli che Roberta Bonetti chiama “ponti tra codici comunicativi differenti” anziché tra diverse culture, spostando il focus dalla diversità esterna a quella interna per scoprire che l’alterità è prima di tutto dentro di noi. Unire le persone tramite ciò che hanno in comune, dà la possibilità a tutti di mettersi in gioco alla pari; in questo modo ognuno si sente riconosciuto nella sua unicità. Ciò non significa negare le differenze, ma prenderne consapevolezza per comprendere che esse sono parte delle molteplici identità che abitano ognuno di noi e che, anche se provocano disagio, ci insegnano a navigare nell'incertezza e a confrontarci con essa come parte ineludibile della nostra esperienza umana.

La scuola deve formare i ragazzi alla capacità di integrare e connettere le loro “molteplici identità”: identità di tipo spaziale, come l'appartenenza a una città, a una regione, a uno Stato, a un insieme di Stati quali l'Unione Europea, al mondo; ma anche identità politiche, identità culturali, identità religiose, identità individuali, identità collettive, identità di nascita, identità elettive, identità antiche, identità nuove...Il compito di “integrare le diversità” e il compito di “valorizzare le diversità” non sono per la scuola compiti fra loro in contrapposizione. Sono complementari, nella finalità di educare alla cittadinanza del tempo della globalizzazione.

Il percorso verso lo sviluppo e il riconoscimento delle nostre molteplici identità, è un processo che parte dalla valorizzazione delle differenze personali che ci abitano e successivamente si rivolge all'apertura e all'accoglienza delle differenze altrui. In questo processo è inevitabile scontrarsi con il significato sociale oggi attribuito alla parola normalità. Un significato che deve essere curato e modificato per passare da categoria chiusa che seleziona, deforma e semplifica il mondo, a spazio aperto che accoglie, contempla e valorizza la complessità dell'essere umano visto nella sua normalità come portatore di molteplici diversità. Questo è l'obiettivo primario che persegue, all'interno dell'organizzazione scolastica, l'educazione alle differenze.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Educare alle differenze per un nuovo paradigma di normalità: dal perfezionamento della razza alla valorizzazione della diversità

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Informazioni tesi

  Autore: Vanessa Agosti
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Bergamo
  Facoltà: Scienze Umanistiche
  Corso: Scienze pedagogiche
  Relatore: Chiara Brambilla
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 129

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