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Il Grande Gioco afghano

Bin Laden trova un rifugio sicuro

La prima legge del codice morale pashtunwali è la melmastia: l’ospitalità, intesa in senso lato come accoglienza e profondo rispetto per qualunque visitatore, indipendentemente dalla sua razza, religione, appartenenza nazionale o stato economico. Per i pashtun l’ospite è sacro e proprio così verrà trattato Osama Bin Laden quando, da maggio 1996, farà dell’Afghanistan il suo safe haven.
Nato in una ricca famiglia saudita con origini yemenite, Bin Laden fu tra i primi sostenitori della jihad afghana e del reclutamento di migliaia di musulmani per combattere contro i sovietici. Negli anni Ottanta fondò, insieme al suo amico e maestro Abdullah Azzam, il Maktab al-Khidamat (Mak), che sarebbe divenuto il centro operativo dei «combattenti arabo-afghani». Negli anni successivi iniziò a lavorare ad un database in cui inserì tutti i volontari passati per i suoi campi di addestramento, per dare poi vita ad al-Qaeda, una struttura organizzata costituita intorno all’archivio elettronico. Il ritiro sovietico portò Bin Laden a lasciare l’Afghanistan e tornare in patria, dove lavorò nell’azienda edile di famiglia. Nell’agosto del 1990 l’invasione irachena del Kuwait mise l’Arabia Saudita a rischio, con le forze irachene schierate al confine saudita. Bin Laden incoraggiò allora il re Fahd a organizzare la difesa popolare, fornendo anche dei veterani di guerra afghani, ma l’offerta venne respinta poiché Riyad preferiva fare affidamento sugli Stati Uniti. Bin Laden criticò apertamente i Saud, soprattutto dopo che, nonostante fosse stato liberato il Kuwait, concessero agli americani di mantenere ventimila soldati sul territorio saudita. Partecipò alla rivoluzione islamica sudanese, continuando a rilasciare pubbliche dichiarazioni contro la famiglia reale saudita finché, nel 1994, gli venne revocata la cittadinanza e si stabilì a Khartoum. Negli anni che trascorse in Sudan Bin Laden riunì molti altri veterani della guerra afghana e organizzò una serie di attentati terroristici in Medio Oriente contro gli interessi americani. Nel 1996 fu costretto a lasciare anche il Sudan a causa delle proteste statunitensi e saudite contro Khartoum per avergli dato rifugio e giunse così in Afghanistan con decine di militanti arabi, dove venne accolto dal mullah Omar.

Il 26 agosto 1996 Bin Laden emise una fatwa (decreto religioso islamico) contro Washington intitolata Dichiarazione di guerra contro gli americani che occupano la terra dei due luoghi santi, riferendosi all’Arabia Saudita, patria della Mecca e Medina. Con questo documento di undici pagine Bin Laden si pose in continuità con la jihad afghana: il regno saudita è occupato dalle armate infedeli degli Stati Uniti proprio come lo era l’Afghanistan da quelle sovietiche. Nel suo manifesto riprendeva le parole del suo mentore Azzam, presentando a tutti i musulmani del mondo la jihad come un «obbligo individuale».
In questo periodo la Cia creò una sezione speciale per seguire le attività di Bin Laden e i suoi contatti con altri militanti islamici. Nel 1997 venne formata una squadra a Peshawar che aveva l’obiettivo di catturarlo e portarlo fuori dall’Afghanistan, ma la missione fallì. Nell’agosto 1998 vennero attribuiti ad al-Qaeda due attentati contro le ambasciate statunitensi di Nairobi e di Dar-es-Salaam, causando oltre duecento morti e quattromila feriti, e moltiplicando le pressioni di Washington affinché i talebani consegnassero Bin Laden agli americani. Oltre a offrire un premio di cinque milioni di dollari per la sua cattura, gli americani reagirono lanciando settantacinque missili Cruise contro i campi di addestramento di al-Qaeda nell’area di Zhawar, nella provincia di Khost, e nei pressi di Jalalabad. L’organizzazione terroristica venne accusata da Washington di qualunque atrocità commessa di recente nel mondo musulmano contro gli Stati Uniti, tra cui la morte di diciotto soldati americani uccisi nel 1993 a Mogadiscio e di altrettanti a Dhahran tre anni dopo, nonché il coinvolgimento negli attentati ad Aden e al World Trade Center del 1993. Secondo alcuni molte di queste accuse erano infondate, ma l’amministrazione Clinton riuscì ad ogni modo a presentare Bin Laden come il centro di un complotto globale contro gli Stati Uniti d’America, ignorando invece che era stata proprio la Cia, nei decenni precedenti, a favorire la nascita di movimenti fondamentalisti in tutto il mondo musulmano.

Sotto l’influenza politica e ideologica di Bin Laden e della sua al-Qaeda, i talebani si erano radicalizzati ulteriormente. Omar nei suoi discorsi si rivolgeva sempre più al sostegno della jihad globale piuttosto che alla situazione in Afghanistan e passò alla linea radicalmente antioccidentale di al-Qaeda, smettendo di cercare il riconoscimento dell’Occidente. Per di più, il mullah attaccò i Saud nell’autunno del 1998 e di conseguenza perse l’appoggio dell’Arabia Saudita, cosicché a sostenere i talebani rimase solamente il Pakistan. Anche le relazioni con Islamabad iniziarono a farsi più complicate e contraddittorie quando i talebani si avvicinarono ad al-Qaeda. Un notevole gruppo di mujaheddin arabo-afghani si era unito, incoraggiato dal Pakistan, dai talebani e da Bin Laden, ai militanti dell’organizzazione pakistana Harakat ul Ansar. I mujaheddin dell’Ansar, che in quel periodo combattevano in Kashmir contro le truppe indiane, si erano sempre mostrati rispettosi delle tradizioni liberali dei musulmani della valle al confine indo-pakistano. Tuttavia, l’influenza degli arabo-afghani non solo fece radicalizzare i leader dell’organizzazione, che iniziarono a imporre rigide regole sul modo di vestire, ma contribuì anche a indebolire il movimento stesso, a vantaggio dell’India.
Come testimoniano varie interviste di Ahmed Rashid a diversi funzionari pakistani, il primo ministro pakistano Nawaz Sharif, sebbene si mostrò inizialmente titubante, si rifiutò di collaborare con Washington per la cattura di Bin Laden, ricordando agli statunitensi che erano stati proprio loro ad aver contribuito all’affermazione di mujaheddin come lui negli anni Ottanta e dei talebani negli anni Novanta. L’Isi non poteva infatti cedere alle pressioni statunitensi e aiutare la Cia a catturare Bin Laden per paura di spezzare l’importante legame con i talebani e, soprattutto, di inimicarsi al-Qaeda. D’altra parte, gli Stati Uniti senza l’appoggio del Pakistan non avrebbero mai potuto utilizzare il territorio pakistano per avvicinarsi ad al-Qaeda, ma sperarono fino all’ultimo che i servizi segreti pakistani avrebbero cambiato idea.

Il 9 settembre 2001 il comandante Massud venne ucciso da due agenti di al-Qaeda travestiti da giornalisti occidentali che nascondevano una bomba in una videocamera. Bin Laden sapeva perfettamente che Massud era il principale rivale dei talebani e che, se gli americani avessero attaccato l’Afghanistan, un uomo come lui sarebbe stato un alleato cruciale per Washington. L’assassinio del leader dell’Alleanza del Nord avrebbe rappresentato un terribile presagio per gli Stati Uniti e i loro alleati, ma per altri due giorni il mondo occidentale continuò a ignorare la guerra civile afghana e le organizzazioni terroristiche ospitate nel paese.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il Grande Gioco afghano

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Informazioni tesi

  Autore: Cecilia Bianco
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2020-21
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Mediazione Linguistica e interculturale
  Relatore: Francesco Anghelone
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 61

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