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L'impero del sogno oltre i confini del reale nel cinema di David Lynch

Blue Velvet: il primo ambiguo rapporto tra realtà e sogno

Velluto Blu (1986) è il primo neo-noir uscito da Lynchland, un film importante all’interno della carriera artistica del regista del Missoula per diversi motivi: è il film che avvia la collaborazione artistica tra Lynch e Angelo Badalamenti che contribuirà a rendere l’immaginario lynchiano indimenticabile; è la pellicola della redenzione professionale del regista dopo il disastro produttivo di Dune (1984); ed è, soprattutto, la sintesi più equilibrata di un’estetica di morbosità e ossessioni, con il retaggio più tradizionale del racconto cinematografico. Una sintesi perfetta tra innovazione e classicismo.
Girato in 35 mm, a colori, Velluto Blu si muove infatti all’interno di coordinate di genere già codificate dalla Hollywood anni Quaranta, per unirle a quelle tendenze cinematografiche tipiche degli anni Ottanta che fondevano il thriller con l’erotismo, come avevano fatto agli inizi degli anni Ottanta William Friedkin in Cruising (1980), Lawrence Kasdan con Brivido Caldo (1981), oppure Brian De Palma con Omicidio a luci rosse (1984). Il risultato è un capolavoro, una pellicola seminale che ridefinisce questi codici in maniera personale e assolutamente coerente con la poetica del regista.
Il film si apre su un drappo di velluto blu che si muove sinuosamente, come mosso dal vento, la vicinanza è tale da permettere allo spettatore di scorgere senza fatica le increspature del tessuto e le variazioni cromatiche causate dall’alternanza tra luce e ombra. Finiti i titoli di testa il drappo si dissolve per lasciare spazio a un radioso cielo mattutino, accompagnato dalle note della canzone Blue Velvet di Bobby Vinton. Le immagini successive sono tutti dettagli della città di Lumberton, fotografata come se fosse un quadro di Norman Rockwell. Una panoramica verticale inquadra una staccionata di bianco candido, davanti alla quale danzano mossi da un vento leggero, delle rose di colore rosso acceso.
Lumberton è un luogo pieno di colori, gioia e serenità: i pompieri sorridono e salutano a bordo delle loro autopompe, i bambini camminano ordinati per andare a scuola, il sole splende, Mr. Beaumont è intento ad annaffiare il prato mentre la moglie guarda un noir alla televisione; è la tipica rappresentazione del sogno americano. L’idillio di questa sequenza è tutto accompagnato dalle note rassicuranti e soavi di Blue Velvet che pervade la città della Carolina del Nord lasciandola sospesa in una dimensione spoglia da incubi e orrori. Il missaggio del leitmotiv musicale si abbassa per dare spazio al rumore diegetico metallico della pompa con i suoi schizzi d’acqua che sbattono sul rubinetto incessantemente. Mr. Beaumont a quel punto è colpito da un infarto – anticipato visivamente dall’immagine della pompa, somigliante ad un’arteria, attorcigliata su un ramo dell’aiuola che ostruisce lo scorrimento fluido dell’acqua –, l’uomo si accascia con il getto ancora in funzione diventando oggetto di accanimento da parte di un cagnolino. Lynch enfatizza l’immagine attraverso un attacco sull’asse e l’uso dello slow motion. A questo punto i suoni, diegetici e no, iniziano a respingersi l’uno con l’altro: il sibilo dell’acqua, il ticchettio della pompa, i versi di dolore di Mr. Beaumont con il suono di Blue Velvet che impera ancora, rendono l’inquadratura, spazio di un contrasto interno alienante per lo spettatore poiché, la voce soave e vellutata di Bobby Vinton stride con l’evento drammatico a cui stiamo assistendo impotenti.
A questo punto l’obiettivo della macchina da presa si disinteressa dell’uomo agonizzante per insinuarsi sotto i fili d’erba bagnati; il movimento della macchina scava sempre di più nelle viscere del prato fino a mostrare la macabra coreografia di frotte di insetti e coleotteri che producono agghiaccianti crepitii mentre si mangiano e graffiano a vicenda, il tutto unito ad altri suoni non identificabili che eliminano completamente la voce di Vinton. Taglio secco di montaggio su un cartello che dà il benvenuto a Lumberton.
L’opening scene di Velluto Blu è un pezzo di cinema muto postmoderno meraviglioso, una sequenza in cui il cinema è riportato al suo stato prelinguistico, dove le immagini, dalla natura artefatta e stereotipata, si muovono come a simulare un ricordo ossessivamente ripetuto. In altre parole, la scena d’apertura funge da chiave di lettura per l’intera opera filmica. Lynch sa guardare, sa come mostrare una realtà che non abbiamo mai scorto, realizzando una delle qualità più rilevanti per la settima arte; lo scenario placido e sereno iniziale è solo lo strato più superficiale, lo sguardo del regista deve andare oltre, ha bisogno di nutrirsi del lato oscuro che questa ambientazione cela così gelosamente. Non è un caso, che la parola Lumberton contenga al suo interno il termine “umber” che significa letteralmente: “Terra d’ombra”.
Terminato il segmento introduttivo facciamo la conoscenza di Jeffrey Beaumont – interpretato da Kyle MacLachlan, vero e proprio alter-ego del regista – che, lungo la scorciatoia di ritorno dall’ospedale si imbatte in un orecchio umano mozzato, infestato da formiche necrofaghe: un’immagine che ricorda Un chien Andalou, il capolavoro surrealista diretto da Luis Buñuel nel 1929, in collaborazione con Salvador Dalì.

L’orecchio reciso assume in Velluto Blu diverse valenze stratificate: è un riuscitissimo MacGuffin degno delle migliori narrazioni noir; diventa la reificazione dei concetti di weird ed eerie; l’organo è infatti la porta di accesso verso un altro mondo che vive nascosto al di là degli steccati immacolati mostrati all’inizio della pellicola, un mondo fatto di follia, perversione e morte. Le immagini lynchiane evocano magistralmente questo passaggio di confine poiché, attraverso una dissolvenza incrociata, vediamo la figura di Jeffrey dentro il labirinto auricolare e, successivamente un lento travelling in avanti conduce anche i nostri occhi all’interno della spirale organica. In una raccolta di saggi intitolata Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) (2018), David Foster Wallace scrive in modo acuto riguardo a Velluto Blu e il mistero dell’orecchio affermando che “A Quentin Tarantino interessa guardare uno a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l’orecchio” (Wallace 2018, p.75). Il movimento descritto era già stato utilizzato in Elephant Man (1980) per anticipare il sogno di Merrick; la macchina da presa in quel caso si insinuava all’interno della fessura oculare della maschera dell’Uomo Elefante, in Mulholland Drive (2001) lo stesso movimento ci farà accedere nel famigerato cubo blu.
L’organo uditivo, con la sua struttura dedalica e claustrofobica, diventa quindi la perfetta rappresentazione della condizione che vivrà il nostro protagonista Jeffrey.
Jeffrey è intento a sciogliere il mistero dell’orecchio, si imbatte così in Sandy (Laura Dern) la figlia del detective Williams che lo incentiva parlandogli di una certa Dorothy Valens, una cantante di nightclub connessa in qualche modo al mistero. Sandy e Jeffrey quindi, si recano allo Slow Club dove assistono all’esibizione di Dorothy – interpretata da una indimenticabile Isabella Rossellini – che canta proprio Blue Velvet in una delle scene più iconiche di tutto il film.
In questa sequenza troviamo Angelo Badalamenti in persona al pianoforte che accompagna la voce ammaliante di Dorothy. La scena è resa attraverso uno schema di montaggio che alterna soggettive ad oggettive di Jeffrey che resta incantato. Ogni volta che viene inquadrato Jeffrey, l’inquadratura successiva riduce la lontananza di Dorothy, isolando i due sempre di più rispetto al resto del nightclub che appare fuori fuoco.
Quella allo Slow Club è un’altra scena avvolta da un’atmosfera sognante, rarefatta, con i contrasti cromatici delle luci blu al neon e del sipario rosso che irradiano il frame circondato da ombre; una scena che anticipa l’incontro successivo tra Jeffrey e Dorothy e il sadico Frank Booth interpretato da Dennis Hopper.
Attraverso uno scaltro stratagemma Jeffrey riesce ad entrare nell’appartamento di Dorothy in Lincoln Street e, poco prima che lei arrivi si nasconde all’interno del suo armadio, dal quale ha la possibilità di spiarla mentre si spoglia. Il personaggio interpretato da Isabella Rossellini con le sue scarpette rosse è una citazione alla Dorothy di Judy Garland nel Mago di Oz diretto da Victor Fleming nel 1939; per Jeffrey infatti Dorothy rappresenta, tanto quanto l’orecchio, la chiave di accesso ad un mondo sconosciuto.
La sequenza all’interno dell’appartamento della cantante dello Slow Club è la più disturbante di Velluto Blu per costruzione e narrazione; assistiamo infatti allo stupro di Dorothy da parte di Frank Booth, un sadico criminale che per raggiungere uno stato di euforia inala popper. L’incontro tra Frank e Dorothy è fondamentale poiché determina la posizione dello spettatore rispetto alla figura di Jeffrey. Jeffrey, infatti, assiste dall’interno dell’armadio alla violenza subita da Dorothy che viene resa ancora una volta tramite l’alternanza di soggettive e oggettive del personaggio di MacLachlan. È una scena incentrata sul voyeurismo, costruita sull’utilizzo dei punti di vista dello spettatore e dei personaggi: Jeffrey è colui che guarda; Dorothy è la cosa vista; lo spettatore osserva Jeffrey mentre guarda, finché successivamente, lo sguardo dello spettatore non coincide con quello di Jeffrey; a quel punto siamo diventati voyeur anche noi. È lo stesso meccanismo utilizzato da Hitchcock nel 1960 per il film Psycho – e ancora prima in La finestra sul cortile (1954) – ma Lynch ne ribalta la funzione semiotica: se in Psycho il nostro sguardo coincideva con quello della pazzia di Norman Bates, in Velluto Blu la nostra vista si sovrappone a quella di Jeffrey che osserva la pazzia per la prima volta. In Psycho vediamo con gli occhi della psicosi; in Velluto Blu osserviamo la psicosi. Il risultato è una sequenza disturbante, malsana e ricca di suspense.
In molti noir ogni personaggio di qualche rilievo è soggetto e oggetto di sguardo allo stesso modo, poiché la capacità di guardare è un dispositivo alla portata di tutti. Questa condizione complica tutto, non genera chiarezza, verità e coerenza, in quanto, ogni inquadratura è filtrata dalla soggettività del personaggio che guarda. È per questo motivo che i sensi e quindi le soggettive, ingannano nei film noir; Lynch riprende questo meccanismo e ne amplifica le ambiguità all’estremo. Paolo Bertetto nel suo libro dedicato al cinema di David Lynch individua infatti nella soggettiva, la tecnica di regia “…più specificamente lynchana” (Bertetto 2008, p.24), distinguendone varie tipologie secondo quattro configurazioni specifiche.
La prima è la soggettiva che testimonia l’esistenza di un soggetto guardante. La seconda è “la soggettiva apertamente voyeuristica, che fa vedere quello che c’è e insieme mostra il voyeurismo” (p.25), ed è questa che caratterizza la sequenza centrale di Velluto Blu sopracitata. Questo tipo di soggettiva, inoltre, allude espressamente ad uno dei caratteri intrinseci dello sguardo cinematografico, impregnato dalla necessità di scoperta e piacere. La terza configurazione soggettiva è quella più frequente nella filmografia di Lynch ed è costituita da lunghi travelling che “…segnano generalmente l’entrata di un personaggio in uno spazio non conosciuto o ambiguo” (ib). L’ultima tipologia di soggettiva è strettamente connessa con il montaggio, spesso di tipo flash cut e rende visibile il contenuto di origine “psichica, preconscia, inconscia, onirica, memoriale, allucinatoria” (p. 25); sono immagini che rivelano i traumi dei personaggi o le loro visioni.
Il personaggio interpretato da Dennis Hopper è in questo senso un’anomalia all’interno della tradizione noir poiché si oppone fisicamente ad essere osservato; tutte le volte che Dorothy incrocia il suo sguardo lui urla “Non mi guardare!” e preferisce l’atmosfera tetra, con piccoli barlumi di luce che donano all’appartamento di Dorothy la struttura di un antro all’interno del quale si annida il coacervo di tutti i mali. Per Lynch l’esperienza cinematografica stessa è strettamente connessa con il voyeurismo poiché “la visione possiede una forza potentissima. Vogliamo vedere dei segreti, li vogliamo vedere davvero. E più nuovi e segreti sono gli eventi a cui assistiamo, più abbiamo voglia di starli a guardare” (Rodley 2004, p. 208).
L’incontro tra Frank e Dorothy, rivela che l’orecchio reciso appartiene al marito della cantante, a cui Booth ha rapito anche il figlio. Nella scena successiva assistiamo, all’amplesso tra Jeffrey e Dorothy. Lynch insiste sul dettaglio delle labbra di Isabella Rossellini richiamando, come rima visiva, la staccionata bianca dominata dalla presenza dei fiori rossi della prima inquadratura. Tutta la sequenza centrale nell’appartamento di Dorothy è surreale, estranea alle logiche mondane; ogni dettaglio morboso è attrattivo e repulsivo allo stesso tempo. Quando Jeffrey descriverà quello che ha visto a Sandy, la sua risposta infatti sarà: “ Hai visto tutto questo in una notte? ”, alludendo al fatto che il racconto sembra seguire più le dinamiche di un sogno che di un evento occorso nella realtà. Nonostante l’organo reciso sia l’elemento scenico centrale, l’occhio diventa il dispositivo adottato per catturare il mondo al di là dell’orecchio: abbiamo Jeffrey che guarda, noi spettatori guardiamo dentro quel mondo insieme a lui, Sandy che può guardare attraverso Jeffrey.
Malgrado abbia assistito a quell’evento disturbante, il nostro protagonista non resiste al fascino della cantante dello Slow Club e torna da lei; diventando il suo amante scopre che la donna ha un bisogno masochista di essere picchiata perché Frank le ha trasmesso la sua “malattia”. Riguardo questa malattia Lynch è chiaro sul qualcosa di astratto, infatti afferma che “non significa Aids, né niente del genere” (Lynch 2016, p. 194). Nel frattempo, il nostro detective improvvisato continua le sue indagini e scopre dei loschi traffici di droga tra Frank e “l’uomo vestito di giallo”.
La sequenza successiva essenziale per una buona comprensione di Velluto Blu è quella dentro il covo di Frank Booth, nel locale This is it, dove assistiamo ad una singolare esibizione in playback di Ben (Dean Stockwell) che canta In Dreams di Roy Orbison tenendo una luce da muratore in mano.
La canzone di Roy Orbison è un altro elemento che riflette sull’ambiguità tra realtà e sogno poiché racconta di un uomo che può vivere il proprio amore solo quando chiude gli occhi perché nella realtà la propria amata gli ha detto addio. Racconta Lynch che la scelta della canzone di Orbison arrivò per caso.

Eravamo a New York, stavamo passando per Central Park e ascoltammo Crying di Roy Orbison; io rimasi ad ascoltare e poi feci: ecco! Per Velluto Blu userò questa musica. Restai di questa opinione finché non arrivammo nel North Carolina, dove eravamo diretti. Così spedii qualcuno a comprare Roy Orbison’s Greatest Hits; misi su Crying e poi In Dreams, e a quel punto mi scordai completamente di Crying (p. 170).

In questa scena vediamo il personaggio di Dennis Hopper addirittura commuoversi, lui che fino a quel momento si era sempre mosso ad un ritmo stordente e nocivo, adesso piange “…lacrime cattive” (Monacò 2018, p.74) . La potenza della scena è coadiuvata dallo sfondo in cui si muovono i personaggi: luci soffuse, pareti dello stesso colore dell’organo in cui risiede il subconscio, cui l’orecchio è anatomicamente e simbolicamente connesso. La luce riflessa sulla faccia dipinta di bianco di Ben conferisce al personaggio i tratti di una maschera teatrale. I bizzarri sgherri di Frank che fanno da accompagnamento, sembrano i Malebranche di Dante, i quali non permettono al malcapitato Jeffrey di fuggire e chiedere aiuto. Tutto è meravigliosamente macabro.
Il momento della resa dei conti finale tra Jeffrey e Frank è un ritorno all’appartamento di Dorothy all’interno del quale troviamo il cadavere del marito della cantante, identificabile attraverso l’orecchio mancante, con in bocca un pezzo di velluto blu e il famigerato “uomo in giallo” con una terribile ferita da cui fuoriesce una porzione di cervello. Il ritorno nell’appartamento di Dorothy si delinea nuovamente come luogo di orrore e morte e ancora una volta il nostro eroe noir deve ritornare nell’armadio e armarsi di pistola con la quale ucciderà Frank.
La morte di Frank è accentuata da un rumore di scratch improvviso che arresta la musica extradiegetica di tensione, per lasciare spazio al tonfo del cadavere del sadico killer. L’atmosfera si distende, i due amanti si abbracciano e in quel momento dall’alto viene fuori una luce innaturale che irradia lo schermo. A questo punto la macchina da presa esce fuori dall’orecchio di Jeffrey che apre gli occhi; il tutto accompagnato dalla voce unica di Julee Cruise che canta Mysteries of love, una ballata dream pop scritta da Lynch e da Angelo Badalamenti. Le immagini iniziali vengono riproposte in ordine disuguale e soprattutto con distanza e fotografia differenti: ritroviamo il pompiere che saluta a ralenti sull’autopompa, le staccionate bianche con i tulipani, il sole, ma Blue Velvet non risuona più nell’aria. Questa scelta registica di chiusura sembra voler accentuare la possibilità stessa del mezzo cinematografico di farci vedere il mondo di Lumberton in maniera empiricamente diversa. Le immagini dei meandri più celati e oscuri della città modello, non possono svanire sotto il sole e il bianco degli steccati immacolati; non a caso questa volta, uno di quei coleotteri che si agitavano sotto le zolle di terra di casa Beaumont, viene mostrato in bocca ad un pettirosso – lo stesso che appare nella sigla di Twin Peaks – come a voler sintetizzare visivamente il concetto che quel male che serpeggiava all’inizio in profondità, adesso è visibile in superficie.
La cittadina linda e pulita di Lumberton è il posto dove la gente sa di quanti tronchi è fatto il pasto di un castoro; un luogo incontaminato che si rovescia nel suo contrario fatto di oscurità e violenza; un microcosmo che Lynch può plasmare come demiurgo e dal quale nascerà poi l’idea di Twin Peaks. Nel 1993, Jennifer, la figlia di Lynch esordirà alla regia con Boxing Helena, un altro thriller a tinte erotiche che deve molto a Velluto Blu in molte sequenze, purtroppo la pellicola non avrà la stessa forza del lavoro del padre.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'impero del sogno oltre i confini del reale nel cinema di David Lynch

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Nicolì
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2022-23
  Università: Università degli Studi di Bari
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Filippo Silvestri
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 180

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