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Dialogo e comunicazione educativa secondo Martin Buber

Che cos’è il pensiero dialogico?

Il pensiero dialogico che sta alla base della filosofia di Buber consiste nel pensare alla presenza dell’Altro, del Tu, come una parola rivolta a un’altra persona, alla quale quest’ultimo deve rispondere. Per comprendere meglio il pensiero del filosofo austriaco su questo tema è necessario prima trattare del suo pensiero predialogico. Un tema di cui il filosofo tratta in molti suoi scritti predialogici è quello della realtà. Su questo tema fu molto influenzato dal pensiero del suo insegnante universitario Wilhelm Dilthey e da quello di Friedrich Nietzsche. Secondo Casper, per Buber, esiste una realtà grande (realtà vera) e una piccola (realtà alienata), e l’intensità della realtà dipende dall’intensità dell’esperienza vissuta. La realtà vera è formata dalla pura vita interiore, mentre la realtà alienata è formata da un atto orientante, che pone il vissuto nel contesto dell’esperienza. Buber prende spunto da Nietzsche per quanto riguarda il tema dell’estasi, che è l’atto che rilascia da sé la realtà come salva. Nietzsche inserisce l’estasi nella parte dionisiaca, che va in contrapposizione alla parte apollinea. Lo spirito apollineo, secondo il filosofo tedesco, è la componente razionale dell’individuo e, riprendendo il concetto già presente nell’antica Grecia, lo associa alla figura di Apollo che è il dio delle forme armoniose, del ritmo e dell’intelligenza. Lo spirito dionisiaco, invece, è la parte irrazionale e caotica dell’essere umano, a cui Nietzsche, sempre riprendendo dall’antica Grecia, affianca la figura di Dioniso:

Il Dio sofferente e dilaniato, il dio dei misteri della vita e della morte e dell’eterna rinascita, colui che giustamente col suo martirio è simbolo del martirio dell’unità primitiva dell’essere, lacerata e divisa contro se stessa, e ricostituita nelle tenebre orfiche, dove si producono le morti individuali, ma di dove risorge eternamente giovane e vivace la vita universale.

Nella parte dionisiaca Nietzsche colloca l’estasi (da intendersi nel suo significato etimologico dell’esser fuori di sé), perché Dioniso è il Dio dell’ebbrezza, e nel suo pensiero il filosofo tedesco tratta quest’aspetto più come uno stato che nelle sue forme estreme può arrivare all’esperienza dell’estasi o della trance. Il vino, in questo caso, agisce come una droga che produce effetti intensi. Secondo il filosofo austriaco, l’origine dell’estasi è nella perdita del confine tra il sé e l’altro. Per Buber l’estasi è l’atto che tutto unifica, ed è origine della realtà reale e nell’estasi l’uomo, secondo Buber, vive la realtà della relazione. Di questo tema il filosofo austriaco tratta nel libro Confessioni estatiche, dove ciò che vuole non è inquadrare quell’ «esperienza sovraumana» che è l’estasi, ma ciò che dell’estasi non si può inquadrare, e lo fa attraverso l’essere umano che parla della propria anima e del proprio indicibile segreto. Ciò a cui il filosofo austriaco è interessato è la parola, la parola dell’Io. L’uomo in estasi, per Buber, vive in realtà l’estasiante dinamica della relazione. Questa unità, da Buber in realtà testimonia come il conseguimento dell’unità dell’anima e l’apertura alla relazione sono due movimenti sincroni: il divenire unità dell’anima «é l’attimo decisivo dell’uomo. Senza di esso l’uomo è inadatto all’azione dello spirito».  Tale unità non è all’insegna di una autarchia del soggetto, ma è già chiamata a quella azione dello spirito. In alcune sue opere giovanili, il filosofo scrive anche dell’atto orientante che, in una dimensione spazio e tempo, separa la realtà dalla sua origine. La realtà dell’uomo è tale solo nel presente e nella sua unicità. L’istante è la realtà raccolta in un’unità e non dispersa nella continuità temporale.

Apparentemente, l’istante, in quanto vita interiore, è nel tempo. E in realtà esso è infinito. Quando entra in me, in me entra il presente, si temporalizza la realtà. Ma proprio facendo tutto questo, l’istante è ciò che, svolgendosi, non è più sicuro, è ciò che cessa, cioè che si scontra con l’incerto.

Nell’istante, secondo il filosofo austriaco, avviene la realizzazione del sé. Esso, in quanto ente nel tempo, per realizzarsi ha bisogno della direzione, che è la pura risolutezza del sé verso se stesso ed è collegata alla costituzione temporale dell’esistenza. Solo grazie all’esperienza vissuta, per Buber, la realtà diventa reale e avviene la distinzione tra la realtà pura e quella che non lo è. Nel libro Il principio dialogico e altri saggi, Buber scrive così dell’esperienza vissuta:

Si dice che l’uomo fa esperienza del suo mondo. Che cosa vuol dire? L’uomo percorre la superficie delle cose e ne fa esperienza. Ne trae un sapere sul modo in cui sono fatte, un’esperienza. Fa esperienza di ciò che concerne le cose.

L’esperienza vissuta, come modalità fondamentale dell’essere nel mondo, è autentica perché non è collegata a nessun’altra cosa, ma è pienamente se stessa. Inoltre può diventare pura quando l’essere umano arriva a toccare in essa i propri limiti. È un tipo di conoscenza sempre concepita e quindi ordinata.

Altro argomento importante affrontato dal filosofo in alcune sue opere giovanili, è il concetto di Dio. Per il Buber predialogico, l’atto religioso si caratterizza come religiosità dell’azione. La religiosità che Buber intende proporre è fatta di unità e relazione, concretizzarsi della presenza a partire dall’incontro tra l’Io che ha saputo farsi unità ed il Tu che gli viene donato nella relazione. Nel suo pensiero, Dio è nell’estremo dell’azione che crea la realtà come unità, possibile solo grazie all’azione, attraverso la quale, il divino vuole realizzarsi. Legato a quest’argomento, Buber, tratta anche dell’unione tra la persona che crea e Dio. Con questo, il filosofo austriaco si lega al pensiero di Jacob Böhme. Quest’ultimo, per Buber, era importante per l’epoca moderna perché manifestava l’unità in Dio di tutto ciò che vive. L’uomo aspirava a un legame più profondo con il mondo, e poteva trovarlo dando spazio alla sua esperienza interiore. Questo perché l’essere umano portava dentro di sé un’immagine, datagli da Dio, dell’armonia del mondo. Secondo il filosofo tedesco, infatti, Dio è entrato interamente nella creazione, in modo così perfetto che si può identificare con le sue forze passate all’atto. Quindi, Dio non solo crea il mondo, ma crea anche nel mondo, in modo talmente perfetto che egli è entrato in esso, ed in ogni cosa. Dio rimane, anche nella natura, nel principio di individuazione dinamico; egli è colui attraverso il quale ogni cosa diventa una parabola dello spirito eterno, che si sarebbe introdotto interamente in ogni cosa. Se però Dio è entrato interamente nella creazione, questo significa che è presente in ogni cosa e non è divisibile, ma, al contrario, è sempre intero, e dove si rivela, lo fa interamente. Dal momento che però Dio ha tutte le essenze dentro di sé, anche ogni cosa deve portare tutte le cose in sé come Dio di fronte alla creazione, nel temperamento. In ogni cosa si trovano tutte le proprietà di cui consiste il mondo, in modo silenzioso.

In alcune sue opere, come per esempio Theoscopia, Böhme fa riferimento a Dio chiamandolo separatore, perché tratta della sua potenza nella differenziabilità, così lavora a realizzare sempre di più il Tutto potenziale, che essa porta in sé, e ad incarnare, allo stesso modo, la sua forma individuale. Buber riassumeva e approvava in pieno la teologia di Böhme; essa penetrò profondamente nella religiosità del filosofo austriaco e, influenzò la sua interpretazione delle origini mistiche dell’ebraismo, che sono al centro del suo pensiero. Secondo Böhme, Dio è l’eterna unità, il bene unico, e non è misurabile. È una cosa sola in se stesso che non ha un’origine nel tempo, ed è sia fuori dal mondo, ma allo stesso tempo è nel mondo. In principio Dio era una realtà primaria non manifesta chiamata l’abisso. Con questo termine Böhme sottolinea che, sotto questo punto di vista, Dio è una realtà che manca di tutto, anche del nome. Infatti, nel libro Morgenröte (L’Aurora), il filosofo tedesco cerca di descrivere cosa sia la vera Divinità e il luogo profondo in cui Dio non è ancora chiamato “Dio”. L’immagine che presenta Böhme del Divino è su vari livelli, e tenta di fare una distinzione tra l’immagine del Dio Padre, come prima persona della Trinità, e una visione della Divinità più radicale. Sempre nel libro Morgenröte, il filosofo Tedesco tratta del tema della Trinità e la definisce: «Holy Trinity of God, which he had for a propriety in his body, rose up and generated itself without, distinct from the creature of God». Con questo pensiero, Böhme indica che non solo la Trinità non dà una rappresentazione di Dio, ma non coglie nemmeno l’essenza divina nella sua natura più originaria. Dicendo questo, il filosofo fa spazio a una diversa concezione del Divino e raggiunge un livello più profondo di riflessione, cioè il livello dove Dio si fa abisso (cioè dove Dio è in se stesso).
La visione cha ha invece Buber di Dio è più legata all’essere umano, rispetto alla visione del Divino che ha Böhme. Infatti, nel saggio Jüdischer Künstler, dedicato alla creazione artistica, scriverà che ciò che è dipinge il pittore è la sua vita nel suo Dio, questo perché colui che realizza, lo fa realizzando Dio. Questo tipo di Dio, trovandosi nell’assolutezza della realizzazione del sé che si viene a creare, è in continuo rinnovo, come presenta Buber in alcuni suoi scritti predialogici. La realizzazione, che è capace di creare una realtà unificante, è un’azione del sé, e quest’idea nel pensiero del giovane Buber, è legata alla sua riflessione sul singolo che non è mai solo. Infatti, secondo il filosofo austriaco non esistevano individui, ma solo comunità. Quest’ultima è per Buber la soluzione al problema dell’uomo. Il pensiero buberiano della comunità si fonda sulla concezione della sociabilità caratterizzata da libertà e reciprocità, e quindi su un impegno personale che prende avvio con il rinnovamento e la realizzazione delle relazioni interumane. La comunità è per Buber un sistema di relazioni interpersonali connesse al centro (dove si trova Dio). Affinché si realizzi, due condizioni sono necessarie. La prima condizione riguarda la comunità che consiste nel non essere più semplicemente uno vicino all’altro, ma nell’essere uno presso l’altro di una molteplicità di persone che ovunque fa esperienza di una reciprocità, di un dinamico essere di fronte. Non è da intendersi come un essere comune bensì come un essere in comune, che prevede al suo interno il pluralismo, reso possibile dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti. La comunità nasce dunque da eventi d’incontro che possono accadere solamente nella dimensione pubblica, in cui ciascuno si sente legato all’altro. La seconda condizione per Buber è che si può parlare di comunità se i prolungamenti delle linee degli incontri Io-Tu convergono verso il centro. Sul tema del singolo che non è mai solo, Buber si avvicina al pensiero di Dilthey, dove se la persona si basa sull’Io, dal punto di vista dell’individuo «Tutto è una mia visione e nulla al di fuori di me ha realtà.» La realtà che intende il filosofo austriaco è una visione in cui l’individuo si trova insieme alle altre persone perché la realtà vera è quella che appartiene a tutti. Questa però è una realtà storica che si rinnova ogni volta, nel senso che ogni volta che accade qualcosa nell’ambito della realizzazione, si crea un nuovo tipo di mondo. Quest’ultimo dà la possibilità a molti di realizzarsi in modo unitario, fino al momento in cui quel tipo di mondo non invecchia. A questo punto viene sostituito, attraverso il mutamento storico, da una nuova realtà storica non ancora definita. In questo momento il pensiero sulla realtà dell’atto religioso legato alla realizzazione si collega al concetto che Dilthey ha dell’epoca. La realtà religiosa, nella visione di Buber, è «La nuova parola mondana che fonda una nuova cultura.» La cultura, per Buber, deve essere intesa in senso storico, cioè che è non è mai definitiva, ma è sempre in continuo mutamento. Secondo il filosofo austriaco, ogni cosa nuova ha bisogno di una nascita, e la religiosità è l’origine della cultura ogni volta che si rinnova.
Molte parti del pensiero giovanile di Buber cambieranno dopo la pubblicazione di Worte an die Zeit (1919). Secondo Casper questo cambiamento è dovuto al fatto che il filosofo austriaco, stimolato dal discutere oralmente di questi argomenti, affronta un nuovo tipo di pensiero, tuttavia, non distaccandosi totalmente dal suo pensiero precedente. L’argomento più frequente nelle opere predialogiche di Buber era il tema del sé. Nelle opere dialogiche, in particolar modo in Ich und Du, Buber, svilupperà l’idea che ha sul sé, grazie al fatto che non inizia più a trattare dell’essere e del suo estremo a partire dal concetto del sé, ma dal concetto del tra. All’inizio dell’opera Io e Tu, infatti, scrive che le parole fondamentali Io-Tu e Io-Esso non attestano una realtà al di fuori di esse, ma fondano un’entità, e sono dette insieme all’essere. Io-Tu si dice con l’intero essere, mentre Io-Esso non può mai essere detto con l’intero essere. Questo significa che la realtà non è mai pensabile di per sé, ma sempre e solo come realtà della relazione che l’individuo istituisce con quello che c’è al di fuori di sé. L’essere è dunque ciò che si svolge tra me e l’altro, e la realtà è il tra. Secondo Buber il tra che si trova in Io-Esso significa progetto e ordinamento, mentre in Io- Tu, è la chiarezza illuminata dell’essere, grazie alla quale sia l’Io che il Tu possono essere loro stessi l’uno di fronte all’altro tramite il dialogo. L’incontro è un dialogo perché avviene con un interlocutore. Questo significa che nella parola base Io-Tu, non solo emerge la trascendenza del tra, ma anche la trascendenza dell’Altro. Secondo Casper, Buber in questo modo ha risolto due problemi legati alle sue opere giovanili: il primo riguarda la trascendenza del tra rispetto al sé, attraverso la quale si può realizzare l’alterità dell’Altro; il secondo riguarda invece il comprendere meglio il carattere oblativo dell’essere e il carattere della sua storicità.
Al tema del tra Buber accosta anche il problema del linguaggio. Quest’ultimo per il filosofo austriaco è la parola che l’Io parla, ma non intende il linguaggio che si usa nel dialogo. Il Tu del dialogo invece viene descritto come colui dal quale l’Io riceve il mondo e un raggio dell’eternità. Buber collega il tema del linguaggio alla realtà del tra perché questo tipo di realtà è spirito e l’atto originario di esso è proprio il linguaggio. Essendo però atto originario, il linguaggio è qualcosa di derivato, perché già la realtà stessa si inserisce oltre l’atto ed è pensabile solo come un’unità paradossale di agire e patire. Nel libro La parola che viene detta, il filosofo tratta del linguaggio e della realtà dell’incontro, nella quale inserisce uno strato originario che può essere attraversato senza incontrar parola. Sullo strato originario si basa lo strato della tensione al linguaggio, che sarebbe la realtà del tra che vuole diventare linguaggio. Su questo poi si basa l’autentico strato linguistico. Tutto questo il filosofo lo fa per spiegare la sua idea sul linguaggio che deve essere inteso come un segno distintivo e testimonianza più grande di reciprocità degli esseri umani. Il problema del linguaggio non riguarda quindi la sua articolazione e la sua struttura interna ma la sua traducibilità e convertibilità e quindi la sua universalità. Secondo Buber ogni linguaggio ha un’origine che incontra e non può eludere il problema delle forme e delle modalità entro le quali si manifesta all’altro e esplora altri linguaggi come continenti di senso. In una comunità la lingua non è solo uno strumento della comunicazione, ma è anche la manifestazione di un pensiero e di una cultura. Il problema è quindi per Buber il costruire la comprensione che è una questione molto più ampia e complessa delle traducibilità di una lingua in un’altra.
[…]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Dialogo e comunicazione educativa secondo Martin Buber

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Informazioni tesi

  Autore: Chiara Marinelli
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Scienze dell'Educazione
  Corso: Scienze dell'educazione e della formazione
  Relatore: Amelia Broccoli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 102

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