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La Via Europea - percorsi di integrazione e costruzione di un'identità europea e globale

Cittadinanza Europea, Cittadinanza Globale. Dalla Crisi Finanziaria alla Brexit

Nei capitoli precedenti abbiamo potuto constatare come l’idea d’Europa e i significati legati ad essa si siano costruiti e decostruiti nel corso della storia, influenzando la consapevolezza degli europei riguardo al loro ruolo esistenziale. Dopo secoli di dominio sul mondo – nel quale seppur in modo unilaterale e per certi versi dispotico le potenze europee hanno esportato i loro modelli sociali, politici, giuridici, economici e culturali – l’Europa ha visto i propri imperi crollare sotto il loro stesso peso, trovandosi costretta a cedere lo scettro di potenza egemone ad altre superpotenze e ad attendere la fine della Seconda guerra mondiale per potersi ricostruire e riconquistare lentamente un ruolo rilevante sullo scacchiere internazionale. Grazie alla riconversione della propria visione della realtà in un senso opposto a quello del passato, gli europei hanno sostituito i vecchi modelli basati su competizione e conflitto, con nuovi paradigmi d’interlocuzione orientati alla cooperazione e al compromesso, e nonostante le frequenti battute d’arresto, dai Trattati di Roma al Trattato di Lisbona i leader europei hanno concretizzato il progetto di integrazione nelle istituzioni dell’Unione Europea. Considerando, tuttavia, la situazione attuale dell’Ue, che dalla crisi finanziaria del 2007-08 è stata risucchiata in una spirale recessiva non indifferente, ulteriormente aggravata dalla pandemia da Covid-19 del 2020, c’è da chiedersi se il progetto d’integrazione per come si presenta oggi abbia funzionato e se si sia effettivamente concretizzato anche nel tessuto sociale degli Stati europei. Bisogna osservare infatti, che il progetto europeo è stato perseguito da entità statali che – pur avendo raggiunto dall’avvento dello Stato democratico il principio della rappresentanza politica, e pur avendo interiorizzato a livello sociale i valori di libertà, uguaglianza e fraternità tipici dell’Europa contemporanea – hanno comunque costruito l’Unione Europea dall’alto, senza un adeguato confronto con le rispettive popolazioni. La cessione della sovranità statale in favore di un’integrazione economica, monetaria, e sempre più politica, senza l’appoggio necessario della base sociale ha creato due correnti di pensiero opposte tra loro: l’europeismo e l’euroscetticismo.

La crisi dei mutui «subprime» scoppiata alla fine del 2006 negli Usa si è evoluta nel giro di pochi mesi in crisi finanziaria globale, e i suoi effetti – che iniziarono a manifestarsi tra il 2007 e il 2008 – furono più dannosi nell’Unione Europea che in ogni altro luogo, mostrando da una parte i limiti strutturali dell’assetto europeo e incrementando dall’altra la spaccatura ideologica tra europeisti ed euroscettici. La recessione che ne seguì ebbe effetti negativi sia sulle economie dei singoli Stati che sull’efficacia nelle risposte delle istituzioni europee. A tal proposito, le regole adottate dell’Ue per contrastare la crisi erano caratterizzate da vincoli sempre più stringenti alla spesa pubblica, rendendo la strada verso la ripresa via via più ripida. A ciò si affiancò l’incapacità dei paesi che avevano aderito all’euro di adottare i tradizionali strumenti di politica monetaria – come la svalutazione o l’emissione di nuova moneta – ora di competenza della Bce. Tale incapacità mise alla luce i limiti dell’integrazione monetaria, che era stata attuata mediante la centralizzazione della politica monetaria ad un’istituzione sovranazionale quale la Bce e la decentralizzazione delle politiche fiscali e di bilancio ai singoli Stati, causando così un conflitto di operatività tra le istituzioni e i governi nazionali. La «Grande crisi», influenzò negativamente la già pessima condizione dei bilanci di molti Stati europei, i cui debiti pubblici – soprattutto in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia – erano ormai insostenibili. Alla crisi finanziaria globale, quindi, si aggiunse la «crisi del debito pubblico europeo» che disincentivò le banche e le società finanziarie ad acquistare i titoli di Stato di questi paesi temendo l’inadempienza degli stessi. Questi ultimi, per finanziarie il proprio debito si videro costretti a pagare tassi d’interesse più alti sull’emissione dei propri titoli di Stato, peggiorando ulteriormente i propri squilibri di bilancio. Il divario («spread») tra il costo degli interessi sui titoli di Stato della Germania – paese europeo finanziariamente più forte – e quello sui titoli dei paesi finanziariamente più deboli, aumentò rapidamente e divenne un indicatore indispensabile per misurare la portata della crisi economica.
Il primo paese a soffrire le conseguenze della sfiducia degli investitori fu la Grecia, che su stretta osservanza di una struttura creata «ad hoc» priva di fondamento giuridico come la «troika», si vide costretta ad attuare misure drastiche per il contenimento della spesa pubblica – quali licenziamenti di dipendenti statali, tagli degli stipendi, riduzione dei servizi pubblici, ecc. – provocando energiche manifestazioni in tutto il paese. La Grecia, tuttavia, non riuscì a risistemare i suoi conti e la prospettiva di un suo possibile fallimento («default») produsse reazioni a catena su tutta l’Eurozona. Nel 2011, un’ondata di vendite sui mercati valutari prese di mira anche gli altri paesi finanziariamente più a rischio, rispettivamente Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. Con lo scopo di proteggere questi paesi dalla loro forte esposizione finanziaria, l’Ue indusse questi ultimi ad attuare politiche di austerity, consistenti in forti tagli alla spesa pubblica e in un drastico aumento delle tasse. Tali misure, seppur fortemente contestate, riuscirono a contenere la crisi, ma il passo più importante in tal senso fu l’adozione nel 2015 di una nuova strategia della Bce, definita «quantitative easing» (facilitazione quantitativa). Tramite essa, la Bce si impegnò ad acquistare grandi quantità di titoli statali dei paesi più indebitati, così da immettere liquidità nel sistema produttivo e stimolare una ricrescita economica. Ciò scongiurò la minaccia del default di questi paesi e di un collasso di tutta l’Unione monetaria, aprendo la strada ad una lenta e graduale uscita dalla recessione.

Oltre alla crisi economico-finanziaria, tuttavia, un’altra questione che ha minato (e mina tutt’ora) le fondamenta dell’Unione Europea è la crisi migratoria. Tra il 2015 e il 2016 l’acuirsi delle migrazioni incontrollate in arrivo dall’Africa e dal Medio Oriente, soprattutto sul fronte mediterraneo e su quello orientale hanno rafforzato le ideologie xenofobe di coloro che ritenevano che l’accoglienza dei rifugiati costituisse una minaccia ai valori e agli stili di vita degli europei, e che dunque rappresentavano dei rischi per la sicurezza pubblica. L’arrivo in massa di profughi in cerca di un’occupazione, inoltre, spaventava chi erroneamente vedeva la propria posizione lavorativa in pericolo, sebbene nella realtà dei fatti i nuovi arrivati andassero spesso a colmare una reale domanda di lavoro. La paura dei migranti si è successivamente intensificata con l’entrata in scena dello «Stato Islamico» (Isis), che servendosi di alcuni rifugiati radicalizzati, tra il 2016 e il 2019 ha scosso l’Europa con attentati terroristici nelle principali città. La crisi migratoria ha prodotto tra gli Stati membri scontri accesi in merito alla ripartizione delle «quote» dei rifugiati e al principio stesso dell’apertura delle frontiere. Tali scontri hanno portato al trionfo della «politica del rifiuto», ovvero, una politica basata sulla negazione del diritto d’asilo la cui attuazione ha intaccato la stessa legittimità democratica dell’Ue, poiché contraria agli stessi princìpi e valori del diritto comunitario. L’esempio peggiore di questa contraddizione fu l’accordo sul rimpatrio dei rifugiati negoziato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nel marzo-aprile del 2016. Per salvaguardare Schengen e scongiurare la chiusura delle frontiere da parte dei paesi più avversi all’accoglienza, l’accordo prevedeva un impegno da parte della Turchia nel fermare il flusso di migranti diretti in Europa, in cambio di alcuni incentivi tra cui l’abolizione dei visti per i cittadini turchi. Tale accordo tuttavia, sebbene avesse effettivamente rallentato i flussi migratori provenienti da est, ha legittimato allo stesso tempo l’azione repressiva e antidemocratica di Ankara, che con la minaccia di liberare i migranti verso l’Europa qualora quest’ultima avesse imposto sanzioni alla Turchia, ha potuto tranquillamente condurre la sua campagna anti-curda nel nord dell’Iraq.
La crescita delle disuguaglianze di reddito, di consumo e di accesso a servizi essenziali provocata dalla crisi finanziaria ha alimentato proteste sociali intense e diffuse in tutto il Vecchio continente. Un decennio di crisi, infatti, aveva lasciato tracce profonde sia nelle generazioni più anziane – cresciute nella società dei consumi e del benessere – sia in quelle più giovani, colpite più di tutte dalla precarietà del lavoro oltre che ad essere deluse nelle aspettative di ascesa sociale. Tali proteste erano rivolte soprattutto al cosmopolitismo dell’Unione Europea – a discapito della sovranità nazionale – e alle sue scelte macroeconomiche in ambito di politica monetaria, considerate da molti troppo restrittive e opprimenti, e dunque identificata come causa primaria delle difficoltà economiche e del conseguente incremento delle disuguaglianze all’interno del Vecchio continente. Nonostante sia comprensibile ritenere tali critiche eccessive, specialmente se si considera la retorica antieuropeista come una strategia politica volta a nascondere i fallimenti e l’inadeguatezza di alcune classi politiche nazionali, è essenziale non trascurare l’effettiva incapacità delle istituzioni europee nell’offrire soluzioni efficaci dal punto di vista sociale, capaci di diffondere una maggiore fiducia nei confronti del progetto europeo.
Le proteste contro l’Europa e contro i partiti nazionali europeisti, sono state favorite dalla rivoluzione tecnologica del nuovo millennio, il cui avvento del web 2.0 e dei social network ha permesso alle stesse di diffondersi in modo nettamente più veloce rispetto al passato, incrementando le divisioni tra i favorevoli all’Europa e gli antieuropeisti. La crisi migratoria e la «paura del diverso» hanno gravato ulteriormente su questa divisione ideologica, e la propaganda mediatica dei partiti sovranisti si è servita degli stessi strumenti mediali per aumentare un consenso fondato sulla xenofobia e sulla pretesa di difendere i confini nazionali dall’“invasione” dei migranti. I social network hanno agevolato, inoltre, l’aumento di notizie false o non verificate («fake news») che con lo scopo di disinformare e creare scandalo riguardo a questioni rilevanti per l’opinione pubblica hanno attivamente alimentato la propaganda antieuropeista e anti-migratoria.

La risposta sovranista dei partiti alla crisi economica e alla crisi migratoria ha trasformato completamente il panorama politico dei governi e parlamenti nazionali. Per definire quest’insieme di forze, tra l’altro in alcuni casi molto diverse tra loro, si è fatto spesso ricorso all’etichetta “populismo”, ovvero un termine che richiama la contrapposizione fra un popolo “ragionevole” depositario di ogni virtù e una politica considerata oligarchica e corrotta – la cosiddetta politica dei “poteri forti”. La retorica populista – che nella storia della democrazia rappresentativa è sempre esistita – nel secondo decennio del nuovo millennio nel Vecchio continente ha assunto nuove forme, indirizzando il proprio dissenso nei confronti soprattutto dell’Europa e della moneta unica. Allo stesso tempo, tale retorica si è spesso ispirata agli esempi dei regimi semi-autoritari che si sono affermati in diversi paesi, tra cui la Russia di Vladimir Putin e la stessa Turchia di Erdoğan. Le tendenze sovraniste e populiste europee sono riuscite a divenire forze di governo in alcuni Stati dell’est che da poco erano usciti dall’esperienza comunista. Tra questi paesi è tipico il caso dell’Ungheria di Victor Orbán, che con il suo partito di estrema destra “Fidesz” si affermò nel 2010 con un programma ultra-nazionalista incentrato su riforme costituzionali e limitazioni della libertà di stampa; un caso analogo è la Polonia, dove nelle elezioni del 2015 i gruppi cattolico- tradizionalisti che facevano capo al partito “Diritto e giustizia” vinsero sulle forze liberali precedentemente insediatesi. Tale scia neo-nazionalista fu seguita anche da altri due paesi vicini, rispettivamente Slovacchia e Repubblica Ceca, che insieme proprio a Polonia ed Ungheria avrebbero in breve tempo formato il gruppo di “Visegràd”, un insieme di forze politiche fortemente contrarie all’immigrazione che spesso negli ultimi anni hanno disatteso le disposizioni dell’Ue in materia di Stato di diritto e rispetto delle libertà umane. L’ondata populista e neo-nazionalista, tuttavia è riuscita a far confluire il proprio consenso anche nell’Europa occidentale, non sempre tuttavia riuscendo ad insediare i propri partiti nei rispettivi governi: ne sono un esempio i partiti di estrema destra “Front National” in Francia, “Alternative für Deutschland” in Germania, e altri partiti affini in Austria, Belgio, nei Paesi Bassi e nei paesi del nord Europa. Altri movimenti considerati populisti che hanno ottenuto un ampio consenso basato sulla retorica antieuropeista ed anti-sistema, ma che a differenza dei partiti citati precedentemente si collocavano a sinistra della linea politico-ideologica sono “Podemos” in Spagna e “Syriza” in Grecia. In Italia, invece, l’onda populista e nazionalista è stata cavalcata rispettivamente dal “Movimento 5 Stelle” – che ideologicamente si collocava in maniera “trasversale” rispetto agli schieramenti tradizionali – e dalla “Lega” (precedentemente “Lega Nord”) – partito di destra che dal 2018 ha abbandonato la sua vocazione secessionista per indirizzare la propria politica verso un populismo nazionalista anti-immigrazione.
Tuttavia, il caso più esemplare della spaccatura ideologica creatasi negli ultimi anni tra filo-europei ed anti-europei è quello relativo alla Gran Bretagna. La componente euroscettica in Regno Unito – che ha tradizionalmente avuto un peso rilevante nell’opinione pubblica britannica – è stata incorporata dal partito indipendentista “United Kingdom Indipendent Party” (Ukip) di Nigel Farange. Quest’ultimo, tra il 2015 e il 2016, riuscì insieme ad altre forze sovraniste ed euroscettiche del partito conservatore a convincere l’allora Primo ministro inglese David Cameron ad indire un referendum riguardo alla permanenza del Regno Unito nell’Ue. Cameron, benché conservatore, non era affatto favorevole all’uscita dall’Unione, e si impegnò attivamente in una campagna pro- europea per convincere i britannici a non votare in modo sfavorevole sulla loro permanenza nell’Ue. Nonostante ciò, l’esito del referendum del 23 giugno 2016 fu a favore dell’uscita (con il 51,9% dei voti), seppur il risultato avesse manifestato un’evidente frammentazione tra le nazioni del Regno Unito: Inghilterra e Galles votarono in maggioranza per l’uscita; Scozia e Irlanda del Nord votarono per restare nell’Ue. Cameron, dopo aver accettato la sconfitta politica si dimise in favore di Theresa May, anch’essa conservatrice. La nuova leader britannica avrebbe dovuto a quel punto traghettare la Gran Bretagna fuori dall’Unione, accordandosi in due anni sui termini della separazione con Bruxelles (Art. 50 del Tue). La Brexit – nata dall’unione delle parole «Britain» ed «exit» – si è rivelata un passaggio fondamentale per la storia dell’Unione Europea e per le ripercussioni che l’uscita di un membro così importante avrebbe potuto avere. Con l’intento di perseguire un «divorzio» pacifico, le due parti avviarono una lunga trattativa orientata alla soft Brexit, ovvero un’uscita “leggera” ottenibile mediante compromessi sulle relazioni economiche e commerciali, sulla questione delle frontiere irlandesi e nord-irlandesi che avrebbero determinato un nuovo confine tra Regno Unito e Ue, su ciò che sarebbe accaduto ai cittadini britannici sparsi per il Vecchio continente e viceversa, nonché sulle future relazioni in termini di difesa e sicurezza. Sebbene i vantaggi di un’uscita «soft» sarebbero stati di gran lunga maggiori rispetto agli svantaggi, Londra e Bruxelles non sono riusciti ad accordarsi entro i tempi previsti. A fine maggio 2019 la situazione si complicò ulteriormente con le dimissioni annunciate dalla May e con le elezioni del Parlamento europeo, a cui furono chiamati a partecipare anche gli elettori britannici: il successo ottenuto da Farange e dal suo nuovo partito “Brexit Party” – con 29 seggi al Parlamento europeo – evidenziò ancora una volta la forte determinazione dei britannici nel volersi distaccare dal Vecchio Continente. Le redini del gioco così passarono al nuovo Primo ministro inglese Boris Johnson – anch’egli conservatore – che dopo diverse difficoltà che sembravano portare alla tanto temuta hard Brexit finalmente è riuscito ad accordarsi con Bruxelles nel dicembre del 2020. Il 24 dicembre – in piena pandemia – Johnson ha finalmente annunciato il perfezionamento dell’accordo con l’Ue, definito per l’appunto “Accordo di commercio e cooperazione tra Unione Europea e Regno Unito”. Esso prevede il libero scambio di merci, un accesso limitato al mercato dei servizi, cooperazione in alcuni settori politici, e altre disposizioni specifiche come la regolamentazione dell’attività ittica nelle acque britanniche. Rispetto al precedente status, l’accordo pone fine alla libera circolazione delle persone tra Ue e Regno Unito, all’adesione di quest’ultimo al Mec, all’unione doganale e alla partecipazione di programmi europei di cooperazione e sviluppo. Ad oggi l’accordo, prima di entrare in vigore attende ancora la ratifica da parte del Parlamento britannico, del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea.

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Valerio Candita
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università per stranieri di Perugia
  Facoltà: Scienze umane e sociali
  Corso: Scienze per la cooperazione allo sviluppo
  Relatore: Carlo Simon Belli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 186

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