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La competenza semantica negli esseri umani e nelle macchine. Teorie a confronto

Critiche alla contrapposizione tra semantica e sintassi

Searle pone una netta contrapposizione tra la competenza semantica di un sistema e la sua capacità sintattica di manipolare simboli. Questa contrapposizione sembra mostrare che Searle ritenga la parte semantica e la parte sintattica due componenti separate, anche se costitutive della comprensione, cioè due processi paralleli, diversi e indipendenti l’uno dall’altro. Ciò che afferma Searle è che la componente semantica non è riducibile a operazioni formali di tipo sintattico: essa rimane una facoltà prettamente umana non riproducibile da macchine e programmi formali.
È bene notare che Searle non nega che la manipolazione dei simboli formali costituisca, in parte, il processo di comprensione: questa è costitutiva della comprensione, ma le carenze che sono proprie del processo di manipolazione vengono colmate dal contributo dato dalla semantica. Quel che nega Searle è che le manipolazioni sintattiche siano una condizione sufficiente della comprensione e l’esperimento della stanza cinese serve proprio a far emergere questa contrapposizione: se la manipolazione dei simboli fosse sufficiente affinché avvenga la comprensione, non ci sarebbe nessuna difficoltà a riconoscere che l’uomo nella stanza capisce il cinese.

L’argomentazione searliana serve quindi per arrivare alla conclusione che la comprensione non può essere manipolazione di simboli formali perché la competenza semantica, che sta alla base di tale processo cognitivo, è una capacità diversa da quella sintattica. La semplice elaborazione di simboli non potrà mai conferire proprietà semantiche e perciò, dato che le nostre rappresentazioni hanno tali proprietà semantiche, nel nostro cervello avviene evidentemente qualcosa di diverso dall’elaborazione di simboli, anche se ancora non sappiamo cosa. Tuttavia, non tutti sono così d’accordo nel sostenere questa indipendenza e separazione tra competenza semantica e capacità sintattica. Autori come Abelson, Dennett, Schank, Smythe, accusano l’autore di non considerare a sufficienza il ruolo fondamentale dell’operazione sintattica dell’applicazione di regole nei processi cognitivi.

Per esempio, Abelson, sostenendo come la comprensione non sia altro che una connessione di contenuti tramite regole che si apprendono, afferma che nell’argomentazione di Searle la principale regola che viene imposta è che «se vedi il simbolo cinese che sta per “operazioni computazionali formali” allora emetterai il simbolo cinese che sta per “non comprendo affatto”». Il programma ha bisogno di regole affinché possa avvenire una comprensione è questo non è sicuramente un problema da tralasciare. Le operazioni sintattiche e le regole che le governano non possono essere declassate a semplice banalità, perché regole mediocri producono output “mentalmente stupidi” che dovranno essere riscritti e questa è una caratteristica molto importante della comprensione. Schank è del suo stesso avviso: le regole incarnano la comprensione e dal momento che non sappiamo definire con precisione cosa essa sia, gli studiosi dell’IA possono trarre qualche vantaggio cercando di comprendere come funziona il linguaggio, le sue regole e le operazioni sintattiche. «Le persone scrivono le regole per Searle per usarle per emettere simboli cinesi nel tempo appropriato. [...] quali regole sono state scritte? Il linguista che scrive le regole “comprese” in un senso profondo come il linguaggio cinese funziona».
Un'altra questione è sollevata da Fodor, secondo il quale non è così scontato che la continua manipolazione formale di simboli non porti il sistema che la attua ad una forma di comprensione di essi, o che addirittura non costituisca già una forma di comprensione. Secondo Fodor, se si avessero le giuste relazioni causali tra i simboli formali e le cose nel mondo, questa potrebbe essere una condizione sufficiente per l’intenzionalità. In questo caso
le operazioni sintattiche avrebbero un ruolo fondamentale nella formazione della competenza semantica: la manipolazione dei simboli potrebbe essere determinante per l’attivazione dei processi di formazione e attribuzione di significati.
Altri autori come Block, Minsky, Marshall e Menzell mettono in dubbio questa rigida distinzione tra semantica e sintassi, sottolineando invece come esse abbiano ruoli complementari per la comprensione e queste critiche mettono in luce il problema principale che si presenta nell’esperimento mentale di Searle. Per esempio, secondo Block, anche se prendessimo per buona la risposta di Searle alla “replica del robot”, secondo la quale nonostante il robot abbia atteggiamenti simili ai nostri non possiede comunque stati mentali, «la dottrina secondo cui la cognizione è una manipolazione di simboli formali rimane illesa». Dalla sua argomentazione si evince che ci sono presumibilmente dei dati empirici che mostrano che pensare è una manipolazione di simboli formali e non è possibile rifiutare questa tesi per mezzo di intuizioni.

Ciò che Searle afferma è che i contenuti cognitivi e le costruzioni mentali della mente umana sono preclusi all’attività di qualsiasi macchina diversa da una copia perfetta del cervello umano, al di là di ogni processo tecnologico possibile: una macchina, anche la più tecnologicamente evoluta, non può essere nient’altro che un manipolatore di simboli dei quali ignora il significato.

[…] è nell’essenza di computazioni come il ragionamento o la comprensione del linguaggio di essere eseguibili solo da un supporto materiale che abbia le stesse proprietà materiali del cervello (i poteri causali del cervello). (Marconi, 2008, p.11)

L’autore considera le attività intenzionali degli stati cognitivi come imprescindibilmente legati all’“hardware” del cervello umano, cioè alla specifica macchina-uomo. Sembra, quindi, che egli consideri la comprensione non tanto come un’attività solamente mentale, ma come un’attività mentale-cerebrale umana. Per questo, per esempio, Hofstadter e Rorty rigettano questa concezione come religiosa, perché assume aprioristicamente che le macchine diverse dal cervello umano non possano avere una comprensione di un certo tipo.
Quello che viene evidenziato dai critici della posizione searliana è che una rigida contrapposizione tra semantica e sintassi, dove la semantica viene delegata a misteriose capacità intenzionali, non meglio specificate, è una posizione inadeguata allo studio della comprensione. Studiare i meccanismi sintattici che entrano in gioco nei processi cognitivi e nel processo di comprensione del linguaggio è fondamentale: entrambe gli aspetti sono estremamente importanti. Minsky, per esempio, facendo riferimento all’esperimento della stanza cinese, afferma che quella che sarebbe la sua esperienza consisterebbe, almeno inizialmente, nella comprensione della sintassi delle frasi cinesi, nella possibilità di una loro analisi a cui seguirebbero deduzioni. Ciò che rimarrebbe oscuro sarebbero i termini stessi, cioè come le parole “intendere” e “significare” si potrebbero intendere e significare.

Ritenendo le procedure semantiche come le sole adatte a creare e ad attribuire i significati, separandole e contrapponendole a qualsiasi tipo di manipolazione sintattica, si rischierebbe di relegare la semantica dei processi cognitivi all’ambito dell’inconoscibile: si dovrebbe pensare alla semantica come alla messa in atto di una qualche capacità magica tipicamente umana e irriproducibile artificialmente. Lo stesso Searle non riesce a fornire delle spiegazioni soddisfacenti riguardo a cosa siano e quale sia l’origine dell’intenzionalità e dei poteri causali, date anche le scarse conoscenze attuali sul funzionamento del cervello umano: esemplare è l’espressione che utilizza alla fine del suo saggio “qualunque cosa sia l’intenzionalità”, indicativa del fatto che Searle non sa cosa essa sia nonostante la ritenga, con assoluta certezza, una sostanza prodotta dal cervello; e nella parte relativa alle risposte che l’autore fornisce alle critiche e ai commenti, Searle risponde alla critica di Dennett ammettendo che non ha idea di come il cervello produca il fenomeno dell’intenzionalità, ma è certo che sia un fenomeno mentale e che le operazioni del cervello siano causalmente sufficienti per tale fenomeno è evidente. Il fatto di non avere a disposizione una definizione chiara di questi concetti non gli sembra una ragione sufficiente per screditarne l’importanza: essi sono sufficientemente ricchi ed evidenti per spiegare la comprensione e muovere critiche alla posizione dell’IA forte. Tutto ciò che è essenziale sapere è che l’intenzionalità e i poteri causali sono peculiarità degli atti mentali degli umani e che la prima è un prodotto dovuto all’azione dei secondi.
Ciò che però crea problemi, in mancanza di una definizione e una specificazione del concetto di intenzionalità, è che esso rimane un concetto discutibile, la cui stessa applicabilità risulta critica, indefinita e quindi modificabile all’occorrenza. Abelson dice infatti che Searle non è riuscito a rendere affatto convincente la sua tesi secondo cui fondamentale per la comprensione è l’intenzionalità. L’imprecisione con cui viene trattata l’intenzionalità rischia di andare ad inficiare il concetto stesso poiché risulta estremamente versatile: non sapendo cosa essa sia, la si potrebbe applicare, per esempio, a qualsiasi capacità in grado di rendere efficienti i programmi dei computer che simulano la comprensione umana. Bridgeman parla dell’intenzionalità come “illusione cognitiva”, Pylyshyn come di un concetto attribuibile arbitrariamente ad un tipo di materia o a un altro, rendendo così irrilevante la natura stessa della materia, Ringle parla di misticismo. Quello che viene sottolineato nei commenti è quindi l’impossibilità di trattare scientificamente un concetto che non ha nessuna rilevanza scientifica; questo invalida totalmente l’argomentazione searliana, rendendo il discorso religioso e aprioristico.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La competenza semantica negli esseri umani e nelle macchine. Teorie a confronto

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Informazioni tesi

  Autore: Eleonora Anna Degasperi
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filosofia
  Relatore: Diego  Marconi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 111

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