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I Principi di legittimazione dell'espropriazione delle terre dei nativi americani negli Stati Uniti d'America dell'Ottocento.

Dalla teoria monogenista alla teoria poligenista: la nascita del razzismo

L’incontro degli europei con le popolazioni del continente americano ha costituito la prima presa di coscienza dei primi nell’”esistenza di varietà umane fino allora inaspettate”; la testimonianza biblica dell’antico Testamento è in quel momento l’unica fonte autorevole della genesi dell’umanità. La Bibbia è considerato un testo storico grazie al quale si ha la testimonianza e la descrizione di una geografia sacra, che pone la genesi dell’umanità in capo ad un unico ceppo, consentendo di “prospettare una condizione di concordia universale che realizza la vocazione cattolica della chiesa”. La teoria monogenista si pone come punto di analisi “lo specifico ruolo assegnato dalla provvidenza a ciascun popolo”, i quali hanno un’origine in comune. Ancora nel corso del Settecento la Bibbia è il riferimento con il quale confrontare le esperienze degli scienziati che mostrano differenze fisiche tra le diverse razze; queste vengono giustificate attraverso l’affermazione che solo Dio “poteva aver prodotto modificazioni somatiche così profonde”, attribuite ad una parte dei discendenti di Adamo, in quanto colpevoli di un peccato inespiabile.
Parallelamente all’affermarsi del monogenismo, sin dal Cinquecento si profila quella che potrebbe essere definita una teoria opposta, quella poligenista. Una delle prime testimonianze, che meglio spiega questo approccio, è di Paracelso, il medico-filoso che sottolineava “la difficoltà di far derivare da un unico progenitore forme umane così distanti dal punto di vista fisico e mentale”. Paracelso risentiva dell’influenza delle notizie provenienti dall’America, che lo spingevano “ad approfittare delle affermazioni dei conquistadores sull’animalità degli indios per trasformarle in una compiuta teoria poligenetica”. La definizione ereditata dal filosofo era intrisa di una profonda contraddizione: “da un lato tendeva ad attribuire agli americani una natura non-umana, ma dall’altro non rinunciava a proclamare la loro derivazione da Adamo”. Paracelso ipotizzava che le popolazioni dell’America fossero state create da un altro Adamo: “un Adamo privo del principio spirituale, onde gli Americani vengono a collocarsi accanto a creature irrazionali come le ninfe, gli gnomi, ecc.”. Se è vero che “l’anima degli uomini è uguale”, “le loro forme sono incontestabilmente diverse” La Genesi dell’umanità viene divisa in due distinti momenti della Creazione. Quella di Adamo, da quale discende il solo popolo ebraico, e la creazione di tutti gli altri uomini comparsi molti millenni prima.

Un altro importante contributo allo sviluppo della teoria poligenista è venuto da Giordano Bruno, il quale era influenzato, invece che dall’esperienza coloniale spagnola, da quella britannica. Il legame sussistente tra la teoria razziale e il processo di conquista inglese è esplicitato in varie testimonianze dei protagonisti delle prime spedizioni, le quali riportavano descrizioni specifiche dei nativi americani: “Gli indiani d’America rispetto a noi sono povera gente e per mancanza di capacità e di giudizio nella conoscenza delle nostre cose apprezzano di più le nostre bagatelle che cose di grande valore”.
Per i coloni inglesi era necessario instaurare un rapporto asimmetrico, all’interno del quale essi avrebbero ricoperto un ruolo di predominio nei confronti delle popolazioni indigene, al fine di mantenere il controllo delle risorse materiali. I coloni osservavano come gli “indiani”, grazie anche alla loro diversa religione, contemplavano la Conquista e i loro protagonisti come l’avvento di qualcosa di nuovo, e di diverso: i nativi attribuivano agli europei una diversa natura e una diversa origine. Gli stessi “indiani”, all’interno del loro pensiero comune, formularono una sorta di teoria poligenista per spiegare l’unicità dell’evento della Conquista di cui erano state vittime. Se quindi essi stessi attribuivano una natura diversa agli europei, risulta ugualmente utile ai fini della Conquista attribuire agli “indiani” una natura, sì, diversa, ma anche inferiore. Di conseguenza “una proposta di modifica della concezione biblica in senso poligenetico è a questo punto quasi naturale in bocca a quegli inglesi che si son fatti sostenitori di quel rapporto con gli indigeni della Virginia”.

Quando la teoria poligenista si tramutò in teoria di superiorità della razza dei conquistatori europei? Un primo contributo è venuto dal medico inglese William Petty, nel tardo Seicento, il quale recuperava da Platone il concetto della scala delle creature: “l’uomo rappresenta il più alto gradino nella catena delle creature animate, e il più basso nella catena delle intelligenze celesti”. All’interno del genere umano coesistono diverse razze, in relazione gerarchica, “distanti tra loro non soltanto per caratteristiche fisiche ma anche per quelle interne o spirituali”. Inizia a prefigurarsi una novità dottrinaria in polemica con il monogenismo delle Sacre Scritture. La teoria poligenista si basa su un’idea razzializzata della specie umana, cioè sull’esistenza originaria di ceppi umani diversi.
È con l’inaugurarsi del XVIII secolo, e soprattutto poi nel corso dell’Ottocento, che si sviluppa il dibattito scientifico sulla differenza delle razze umane. Un dibattito che, in prima battuta, è da considerarsi “una novità laica, in polemica, anzitutto, con il monogenismo fondato sulla Bibbia”. La teoria poligenista trova in Voltaire un forte sostenitore. Da un lato, il filosofo francese riteneva necessario ammettere la diversa origine di così diverse razze umane; dall’altro, egli “sviluppava delle differenze anche mentali delle diverse razze, e proponeva una gerarchia di quest’ultime, con americani e negri agli ultimi gradini nello sviluppo della razionalità”. La considerazione delle differenze tra le razze risentiva senza dubbio della forte influenza dell’idea di progresso e sviluppo in auge nel Settecento; la quale portò Voltaire ad affermare con certezza che la facile conquista dell’America era avvenuta per l’esplicita inferiorità delle popolazioni “indiane”. La sua teoria “interviene a piegare certe relazioni di subordinazione storica, frutto di grandi dislivelli di sviluppo”, le cui radici sarebbero riscontrabili nelle differenze originarie insanabili delle facoltà mentali delle diverse razze umane.

Quella che propone Voltaire non è l’associazione perfezione-origine proveniente dalla Bibbia, ma appunto una formulazione dell’ideologia del progresso. La storia della civiltà, passando per lo stato di natura dei selvaggi d’America, trova il suo apice nello stato di civiltà raggiunto dagli europei. La novità di questo approccio sta nel traslare la sfera dello sviluppo biologico sulla scala dell’evoluzione dell’intera umanità. In questo modo si viene a prefigurare un “movimento non solo unitario e orientato a un suo fine, ma anche spontaneo e perciò qualificabile come naturale”. Il soggetto di questo movimento unitario è la specie umana nel suo insieme, senza tener conto delle infinite peculiarità da cui essa è caratterizzata nell’intero globo. “Il termine finale non è più la personalità del singolo, bensì uno stato storico, come quello raggiunto in Europa con la scienza e la filosofia moderna”. Con Voltaire si ha la prima grande spaccatura del pensiero moderno: si rifiuta di spiegare le differenze razziali con motivazioni di carattere ambientale. Per cui, con il filosofo francese si va oltre la semplice osservazione e constatazione provenienti dalle relazioni di viaggio - “E quella gente è tutta nera” -: ad essere coinvolte sono direttamente le attitudini mentali, attribuite alla razza di appartenenza, in quanto, quindi, capacità innate.

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I Principi di legittimazione dell'espropriazione delle terre dei nativi americani negli Stati Uniti d'America dell'Ottocento.

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Informazioni tesi

  Autore: Cecilia Roselli
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione
  Corso: Relazioni Internazionali
  Relatore: Giovanni Ruocco
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 134

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