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Usi e abusi del crocifisso come simbolo etnoidentitario. Analisi semiotica del discorso giuridico, politico e giornalistico sul ''caso Lautsi''

Dare forma al Noi attraverso un’affiliazione unica di tipo religioso: rischi e funzione strategica

Nel suo Identità e violenza (2006), il premio Nobel per l’economia Amartya Sen ha affermato che la suddivisione della popolazione mondiale in base a criteri strettamente religiosi ha oggi assunto un’importanza tale da non avere precedenti nella storia contemporanea. Sostituendo la rilevanza che in passato è stata accordata alla nazionalità e alla classe sociale (Cfr. Sen 2006, trad. it, p. VIII e pp. 13-15).

Chiaramente, un approccio che considera gli esseri umani in quanto membri soltanto di un gruppo ben preciso non può non risentire di una concezione solitarista all’identità umana. Come ricorda Sen in un passaggio semplice ma efficace di goffmaniana memoria:


«Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare a più presto (preferibilmente in inglese). Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona. L’inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull’importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico». (ivi, pp. VIII-IX)


In base a questo quadro, la selezione di una sola delle identità possibili per classificare una persona (come nell’esempio appena fatto) o un gruppo di persone (come negli esempi che faremo) è inevitabilmente figlia di un che «miniaturizza gli esseri umani» (ivi, p. X). Si tratta di quella distorsione che Sen definisce «affiliazione unica» (ivi, p. 15). Ma a quali problemi può condurre questa concezione stilizzata del mondo sociale? Considerando anche il nostro caso possiamo individuarne due. (1) La lettura del mondo come una federazione di religioni produce, innanzitutto, una visione fuorviante degli abitanti del pianeta (Cfr. Sen, op. cit., p. 77).

Sen ci porta l’esempio dell’India. Non potremmo comprendere la società indiana se ci ostinassimo a leggerla come una società induista, in virtù del fatto che lo è la maggioranza della sua popolazione (più dell’80%). Non potremmo farlo, perché, ad esempio, dimenticheremmo che con i suoi 145 milioni di musulmani l’India è il terzo paese del mondo per numero di fedeli islamici (Cfr., ivi, pp. 48-50). E con essi dimenticheremmo cristiani, sikh e buddhisti, solo per fare alcuni esempi. Eppure questa varietà culturale non sembra essere tematizzata dalla pigrizia delle tradizionali classificazioni politiche, che continuano a “voler vedere” l’India come una società appartenente a una non meglio definita “area induista”.

All’esempio che Sen fa dell’India potremmo affiancare – con le dovute differenze – quello dell’Italia. Anche l’Italia è uno stato laico. Per la precisione è uno concordatario, che mantiene rapporti politici privilegiati con la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, e dunque con lo Stato Vaticano. Tuttavia, l’attributo “laico” ci spiega che nel nostro paese non c’è una religione di Stato; come stabilito dalla revisione del Concordato avvenuta nel 1984 e ratificata dal Parlamento nel 1985. La religione, dunque, non è uno degli elementi su cui si fonda l’identità politica dello Stato italiano.

Quanto alla società italiana, la religione di maggioranza è il cristianesimo, in particolare nella sua confessione cattolica. Tuttavia, per ricostruire il “grafico a torta” dei cittadini italiani, a questa maggioranza bisogna aggiungere varie altre “porzioni”. Le minoranze cristiane come i valdesi, i metodisti, i cristiani greco-ortodossi, i testimoni di Geova, eccetera. Gli appartenenti ad altre religioni come l’islamismo, il giudaismo, l’induismo, il buddhismo, che tra l’altro si fanno sempre più numerosi. E a questi gruppi bisogna poi affiancare anche i non credenti; atei e agnostici che siano.

Concludendo, l’appartenenza religiosa, di fatto, non è uno degli elementi comuni su cui si fonda l’identità degli italiani. Nonostante le differenze, l’India di Sen e la nostra Italia hanno un’importante caratteristica comune: in ambedue i casi l’identità politica dello Stato e quella dei suoi cittadini non sono fondate sull’identità religiosa. E questo è vero di diritto, trattandosi di Stati laici, ma anche di fatto, trattandosi di Stati in cui non c’è un’unanimità confessionale.

Per fare un esempio pratico: in ambedue i casi quando il Presidente della Repubblica dice “Noi” si riferisce ai suoi connazionali, e non a una comunità di fedeli, né tantomeno – e qui sta la questione più importante – a una precisa comunità confessionale. Perché se parlando al “suo” popolo usasse il “Noi” per riferirsi ai fedeli della Chiesa Cattolica o agli elettori della maggioranza di governo, inevitabilmente escluderebbe da quel “Noi” una percentuale più o meno ampia di cittadini, venendo meno alla sua funzione di capo dello Stato, al suo dovere di rappresentare l’intera cittadinanza.

In termini filosofici potremmo dire che, secondo il diritto, l’identità religiosa è per la definizione di “cittadino italiano” un accidente, e dunque non fa parte della sua essenza. Così, se ci ponessimo la domanda: “quali identità posso recidere di un italiano senza comprometterne l’italianità?”, giuridicamente parlando quella religiosa sarebbe una delle caratteristiche che potremmo asportare senza intaccare l’essenza del termine; senza cioè trovarci tra le mani un altro elemento.

Perché riprendere in mano questi rudimenti di diritto pubblico italiano? Perché, a ben vedere, nel discorso religioso, giornalistico e politico che ha fatto seguito alla sentenza della Cedu è facile rintracciare un’ossessione per la lettura confessionale dell’Italia.
In questi testi, infatti, scompare quasi del tutto (almeno stando al nostro corpus) la retorica apologetica del “rispetto per la confessione religiosa della maggioranza degli italiani”. Un’argomentazione di cui, ad esempio, si fece promotore Gianfranco Fini ai tempi del “crocifisso di Ofena” (2003):


«La decisione di un magistrato in cerca di notorietà offende i sentimenti della stragrande maggioranza degli italiani (...) Sembra fatta apposta per offrire argomenti a chi contesta la possibilità di una convivenza pacifica e di integrazione nella nostra società» (corsivi nostri).


Sebbene una motivazione del genere sia giuridicamente insoddisfacente, in quanto – come espresso dalla Corte Costituzionale, sent. n. 440 del 1995 – darebbe vita a una discriminazione su base quantitativa inaccettabile per il diritto (Cfr. Cap. 2 § 1), quantomeno risulta fondata su una concezione esatta del rapporto tra credenti cattolici e società italiana.

Viceversa, si fa sempre più frequente l’uso di una giustificazione basata su una lettura dell’identità nazionale in quanto completamente intercambiabile con quella cristiana, o addirittura con quella cattolica. Come se lo spostamento dall’una all’altra non comportasse alcuna differenza.

Testi che più che manipolare il significato del crocifisso – o prima di manipolare il significato del crocifisso – manipolano quello della società italiana, fornendone una rappresentazione non veritiera – giuridicamente, politicamente e socialmente parlando – ma che proprio per questo funziona perfettamente da strategia di giustificazione. Se leggo l’Italia come una comunità integralmente cattolica assicuro indirettamente al simbolo cattolico un valore unificante nella società italiana.

Ecco spiegato perché riprendere in mano la definizione giuridica del Noi italiano: non tanto (o almeno non solo) per capire quali dichiarazioni siano legittime e quali no, quanto piuttosto per indagare in quali casi e in che modo la strategia di giustificazione della presenza del crocifisso passa attraverso la (ri)costruzione del Noi collettivo.
Memorabili, la sentenza n. 1110/2005 del Tar del Veneto e l’argomento di difesa del governo italiano presso la Cedu, in cui l’interpretazione dell’attore collettivo “Italia” come “comunità crisitiana” è costruita attraverso la retorica del non si può non essere cristiani.

In entrambi i casi, però – a riprova che per la legge l’identità italiana e l’identità cattolica non sono affatto la stessa cosa – questa assimilazione non è immediata, ma è resa possibile da una complessa costruzione logica. Si parte cioè con due termini ben distinti, Italia e cristianesimo, e solo alla fine del lungo ragionamento si arriva ad averne in mano uno solo: un’Italia inevitabilmente e integralmente cristiana. Invece, sia nel discorso politico che nel discorso giornalistico e in quello della Chiesa Cattolica sono molto comuni i testi in cui la differenza tra le due costruzioni attoriali non è per niente percepita, o comunque non è testualizzata.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Usi e abusi del crocifisso come simbolo etnoidentitario. Analisi semiotica del discorso giuridico, politico e giornalistico sul ''caso Lautsi''

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Informazioni tesi

  Autore: Daniele Dodaro
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze della Comunicazione
  Relatore: Patrizia Violi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 334

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