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L'autonomia finanziaria degli Enti Locali alla luce della riforma del titolo V della Costituzione

Decentramento e Federalismo Fiscale

Il tema del decentramento e del conferimento di maggiori poteri fiscali agli enti locali è ormai da qualche anno al centro del dibattito politico-istituzionale e sta assumendo, col tempo, una crescente importanza, come evidenzia anche l’ampia attenzione che ad esso presta l’opinione pubblica. L’esigenza di maggiore partecipazione delle autonomie nelle determinazioni inerenti alle proprie politiche è ormai un dato incontrovertibile.

Le ragioni possono essere molteplici:

a) fallimento dell’attuale assetto fortemente centralizzato del nostro sistema politico-amministrativo;
b) consapevolezza di una accentuata imperfezione del sistema tributario, sia erariale che locale, caratterizzato da sperequazioni verso i soggetti incisi;
c) necessità di responsabilizzare gli amministratori locali attraverso la gestione diretta dei servizi pubblici aventi più stretta relazione con il proprio territorio;
d) volontà di realizzare principi quali quello sulla sussidiarietà;
e) esigenza di costruire un sistema finanziario autonomo, capace di reggere l’ampliamento delle funzioni degli enti locali in seguito all’emanazione della riforma legislativa introdotta con la legge n. 59/97.

Tale riforma, infatti, disegna una radicale revisione delle relazioni tra i livelli di governo, al punto tale da essere stata presentata come la realizzazione del “federalismo a Costituzione invariata”, cioè la realizzazione di tutto quello che poteva essere fatto nella direzione dell’ordinamento in senso federale dello Stato, senza toccare la Costituzione.
A partire dagli anni ’90 il nostro ordinamento è rimasto coinvolto da un susseguirsi di fondamentali e intensi interventi riformatori che hanno lasciato segni profondi nello svolgimento dell’attività politico–amministrativa e che hanno apportato un incisivo riordino nella distribuzione delle competenze fra Stato, Regione ed enti locali. Si è trattato di un processo di riforma che ha assunto un’importante significato che è stato avvertito dal cittadino come un intervento sensibile in riferimento alla concreta praticabilità di una serie di diritti che parevano fino ad ora riconosciuti solo da un punto di vista formale, ma di fatto inibiti o quantomeno ostacolati nel loro quotidiano esercizio.
E’ di rilevante importanza evidenziare, come leggi sull’autonomia degli enti locali e sul procedimento amministrativo (nn. 142/90 e 241/90), le riforme sul pubblico impiego (d.lgs n. 29/93, poi notevolmente modificate ed integrate dal d.lgs. n.80/98), le riforme per la ristrutturazione della finanza locale (d.lgs. 77/95), il cosiddetto complesso normativo “Bassanini” (ad oggi costituito da ben 5 leggi quali le ll. nn. 59/97, 94/97, 127/97, 118/98, e 50/99 e da una serie considerevole di decreti e regolamenti attuativi), il recente Testo Unico sull’ordinamento delle autonomie locali (d.lgs. n. 267/2000), fino ad arrivare alla legge costituzionale n. 3/2001 che riforma il titolo V della Costituzione, abbiano profondamente intaccato la visione autoritativa (amministrazione senza accordi) dell’azione statuale, che da sempre costituiva la base della tradizionale dialettica autorità–libertà fondante il diritto amministrativo, attuando così il passaggio dalle posizioni tradizionali di supremazia assoluta dell’amministrazione pubblica nei confronti del cittadino ad un modello capace di intendere la pubblica amministrazione come punto di incontro tra “Stato – comunità” e “Stato – apparato”.

Tali fonti normative costituirono, quindi, un significativo intervento di modifica dei rapporti fra centro e periferia, in quanto contengono l’espressa formulazione (per la prima volta attraverso fonti di diritto interno) di principi quali: efficienza, economicità e differenziazione nell’allocazione di funzioni, tipicamente poste alla base del cosiddetto “federalismo”, che hanno come obbiettivo prioritario, quello di riconoscere ai soggetti istituzionali minori, quali espressione delle comunità locali, di una sfera di autonomia più ampia, per qualità e quantità di poteri attribuiti.
Per “federalismo”, si è inteso comunemente in Italia e in Europa occidentale nella seconda metà del XX secolo, soprattutto il volontario trasferimento della sovranità e, in concreto, di determinati poteri da parte di più stati a uno Stato nuovo, appunto sovrano e non più nazionale e costituito dagli stati membri. Il “federalismo”, anzitutto è un metodo: metodo prima che risultato connesso all’applicazione di quello usato storicamente per dar luogo ad un risultato specifico che è lo Stato federale, ma che è valido di per sé, ad ogni altro livello territoriale-istituzionale.

Ultimamente, il tema del federalismo/regionalismo, ha assunto carattere prioritario tra quelli in discussione in Parlamento a proposito delle riforme strutturali; riforme da definire per adeguare l’assetto normativo del nostro Paese all’evoluzione del sistema economico-sociale, soprattutto all’interno dell’attuale contesto europeo.
“La crescente domanda di federalismo” all’interno del nostro ordinamento, può essere attribuito, fra le altre ragioni, anche allo sviluppo economico e produttivo che si è registrato in alcune aree del nostro Paese; sviluppo che ha fatto emergere in termini molto espliciti i limiti e le disfunzioni causate dall’eccesso di centralismo che ha finora caratterizzato l’ordinamento italiano e che non è venuto meno, nonostante le diverse norme approvate, neanche a distanza di un trentennio dall’avvio dell’esperienza regionale.
Il decentramento (e cioè lo spostamento di funzioni e competenze dal vertice verso istituzioni periferiche), viene sempre più considerato come una risposta ad un profondo bisogno di cambiamento nelle procedure istituzionali e come lo strumento che porta con se una caratteristica essenziale, cioè la capacità di migliorare l’efficienza dell’amministrazione pubblica nel soddisfacimento dei bisogni collettivi, senza cui “sarà impossibile non solo competere sul mercato globale, ma anche governare politicamente i problemi sociali che la globalizzazione va necessariamente producendo”.

Il modello federalista dell’attività amministrativa, inoltre, presenta il pregio di unire il concetto di autonomia con quello di solidarietà, termine quest’ultimo che significa offrire alle aree più svantaggiate del Paese tutti i mezzi necessari affinché queste forze possano esprimersi e svilupparsi.
Un efficace strumento al fine di conseguire miglioramenti nella gestione delle risorse pubbliche e nella qualità dei servizi erogati è rappresentato dall’adozione di un sistema capace di amplificare la capacità finanziaria degli enti locali e che sottragga alla discrezione del potere centrale l’utilizzo di quote consistenti del gettito tributario sulla base del sistema federalista.
Non va poi trascurato il fatto che molto spesso il federalismo, soprattutto quello fiscale è sostenuto anche sulla base di una presunzione generalizzata, secondo cui quest’ultimo porti con se una maggiore funzionalità dei poteri pubblici, oltre che una maggiore democratizzazione del sistema politico. Una maggiore efficienza, nella prospettiva di un “federalismo fiscale”, verrebbe offerta proprio attraverso una riduzione del carico tributario complessivo, in conseguenza degli effetti positivi che uno spostamento della potestà fiscale verso un livello di governo locale determinerebbe in termini di maggiore riduzione di spese inutili.

Inoltre, non bisogna credere che il “federalismo” possa diffondersi in maniera concreta nelle varie aree del Paese in modo uniforme e nello stesso momento. Per alcune aree, infatti, le responsabilità l’ottenimento della piena autonomia è ottenibile in tempi abbastanza rapidi; per altre, invece, solo gradualmente e solo nell’ambito di quelle forme di solidarietà a cui si faceva riferimento in precedenza.
La riforma in senso federale dello Stato, dovrebbe perciò svolgersi in base alle effettive capacità e risorse di ciascuna identità locale e quindi siamo ancora ben lungi dalla realizzazione di uno Stato in cui non esistano disparità economiche fra le aree più “ricche” e quelle più “povere”.
L’esigenza che s’impone quindi è quella di sostenere le aree più deboli del Paese, nella prospettiva di un sistema: decentrato, solidaristico e cooperativo, che garantisca l’erogazione di servizi ad un livello omogeneo, o quanto meno tendenzialmente standardizzato, in tutte le aree locali, attraverso un meccanismo di perequazione.
L’importanza di un sistema inteso in senso federale, inoltre, è data dalla considerazione che l’esistenza di più livelli di governo (ciascuno in qualche modo dotato di un livello di sovranità nello svolgimento delle proprie competenze), dovrebbe permettere un maggior controllo da parte del popolo sui rappresentanti eletti. Un “federalismo” ragionato potrebbe essere quindi un’opportunità, ma anche un patto di fiducia tra cittadini e istituzioni, per un sistema di Stato più competente, più flessibile e più autorevole, in poche parole, più vicino ai soggetti destinatari delle sue funzioni.
Il sistema federale della Repubblica, insieme al decentramento dei poteri e delle competenze rappresentano, quindi, due aspetti complementari del nuovo quadro istituzionale per il necessario accoglimento delle istanze poste dagli enti locali. Si tratta di un sistema di complessi equilibri politici, cui corrispondono esigenze di coordinamento a livello amministrativo e finanziario ai vari livelli, indotto dalla necessità di adattamenti al mondo che cambia sempre più rapidamente e in relazione agli obblighi assunti col Trattato di Maastricht.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'autonomia finanziaria degli Enti Locali alla luce della riforma del titolo V della Costituzione

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Ferragina
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2001-02
  Università: Università degli Studi della Calabria
  Facoltà: Economia
  Corso: Economia Aziendale
  Relatore: Fernando Puzzo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 158

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