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La sensibilità organizzativa nella magistratura italiana

Il cambiamento culturale: cambiare l’organizzazione

Abbiamo sino adesso considerato le organizzazioni come strutture adattive e reattive, come un campo strutturato di premesse, come un’arena politica che interagisce continuamente con l’ambiente, il reticolo organizzativo, anch’esso considerato come un’arena politica.
La frase di Schein sopra citata sottolinea un aspetto fondamentale di tutte le organizzazioni, non si può creare una nuova cultura in una organizzazione già esistente, ma si può richiedere agli attori organizzativi di cambiare il modo di lavorare e pensare tanto verso l’interno quanto all’esterno.
È da questa prima considerazione che qui si è scelto di iniziare la discussione di questo nuovo paragrafo, ed è questa, come vedremo, l’unica via per ottenere quello che per adesso, definiamo semplicemente e in via del tutto generale, un cambiamento culturale.
Cambiare la cultura di un individuo, esercitare ciò che nella trattazione sulle relazioni di potere abbiamo definito come attivazione strategica, ovvero manipolare la mappa cognitiva di un individuo, è compito arduo e difficile da realizzare. Si richiedono all’individuo che intende farlo, competenze specifiche sul funzionamento dei processi cognitivi, per dirla in altri termini, bisognerebbe entrare nella mente altrui e far sì che il soggetto da manipolare attivi la realtà che gli si sta costruendo attorno, che assegni significato agli eventi non più in maniera istintiva e preconscia, ma attraverso una costruzione della realtà “fabbricata” su misura, in base alle esigenze del momento.
Nel corso dell’osservazione sulla variabile cultura si è insistito, spero sufficientemente, sull’importanza che il gruppo-attore ha in una qualsiasi organizzazione, nello specifico, come fondatore e detentore della cultura organizzativa.
Pensiamo dunque quanto possa essere complicato realizzare ciò che è stato detto poc’anzi per l’intero gruppo organizzativo: manipolare a proprio piacimento la mappa cognitiva degli individui di un intera organizzazione.
Questa ipotesi, alquanto inverosimile e irrealizzabile, non costituisce dunque l’idea che qui si sostiene di cambiamento culturale. Anche l’organizzazione meno efficiente, l’impresa dove i margini di profitto sono minimi o pari a zero (non me ne vogliano gli economisti), sino a quando “esiste”, nel senso che opera nel suo ambiente, o possiede ancora, seppur in minima parte alcune di quelle risposte valide e vincenti che le hanno permesso di essere costituita, oppure progressivamente si è istituzionalizzata: è stata, come ha scritto Selznick, al di là della sua vera utilità sociale, legittimata in quanto tale; l’esistenza dell’organizzazione in sé e per sé a prescindere dalla sua efficienza ed efficacia.
Nella realtà, “tutte le organizzazioni cambiano, seppur in modo impercettibile e non rilevante, continuamente, esse sono caratterizzate da forte dinamicità” (Ferrante, Zan, 1994: 215), ripeto, sono strutture adattive e reattive, instaurano relazioni di scambio tanto verso l’interno quanto verso l’esterno.
“Discostandoci” dalla visione pessimistica di Selznick, possiamo dire che esse si adattano perché questo processo è un aspetto che le caratterizza: le organizzazioni mutano con il mutare dell’ambiente che hanno attivato, si modificano con il mutare della società. L’alternativa che esse hanno non è tra l’adattamento o il suicidio, ma tra un adattamento coerente e consonante, nel senso di giusto, e un adattamento incoerente e dissonante, tra strategie coerenti (o non), con missione e obbiettivi, tra la continua ricerca di risposte “… valide e quindi degne di essere insegnate ai nuovi membri come modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali problemi …” (Schein, 1991) o risposte “superficiali”, di ripiego, che non rispondono ai reali problemi che quotidianamente le investono.
Pasquale Gagliardi, già negli anni ottanta, aveva ben focalizzato il tema e così scriveva relativamente al rapporto tra cultura organizzativa e cambiamento: “Quando l'organizzazione sperimenta una difficoltà nell'affrontare i problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, nel senso che le modalità di gestione conosciute e tradizionalmente utilizzate si rivelano inefficaci, si avvia all'interno dell'organizzazione una ricerca di alternative d’azione” (P. Gagliardi ne “Le imprese come cultura”, Isedi, 1986).
La questione, è dunque costituita più che altro dal fatto che non è detto che qualora un’organizzazione riesca a rimodellare i tratti culturali che la caratterizzano, questi diano poi, in ogni caso, risultati migliori dei precedenti.
In questo caso non possiamo dunque parlare di “vero” cambiamento culturale, esso, come nel caso della cultura, si realizzerà solo quando le nuove risposte saranno anch’esse valide e vincenti, quando la ricerca di alternative d’azione darà i “giusti frutti”. Solo allora verranno nuovamente assunte e il nuovo modo di fare le cose costituirà forse, inconsciamente, nuovamente l’unico modo di vedere, sentire e pensare; attivando nuovi ambienti di riferimento, soppiantando i vecchi assunti con i nuovi, “dimenticandosi” di buona parte di ciò che era prima, che si, aveva funzionato, ma che “oggi” non è in grado di dare risposte a domande sempre più complesse o, semplicemente, domande differenti.
Il problema delle organizzazioni che cambiano è stato a vari livelli e secondo diverse angolazioni trattato da molti studiosi delle organizzazioni, ognuno dei quali, attraverso analisi differenti, ci ha fornito spunti di riflessione interessanti, essenziali per il prosieguo di questo lavoro.
La domanda che adesso va posta è: perché le organizzazioni cambiano così poco, perché il cambiamento è cosi difficile da realizzare?
Michel Crozier ne “Il fenomeno burocratico”, come già accennato brevemente nel primo capitolo, considera le organizzazioni come un’arena politica, sostiene che le stesse, nello specifico quelle burocratiche, siano incapaci di correggersi in funzione dei propri errori perché le disfunzioni del sistema sono diventate uno degli elementi essenziali del loro equilibrio. Aggiunge che ogni organizzazione, qualunque sia la sua funzione, i suoi scopi e l’ambiente che la circonda, deve far fronte a trasformazioni che le sono imposte tanto dall’esterno quanto dall’interno.
Le organizzazioni vengono dunque viste come un sistema rigido, caratterizzato da forte interdipendenza gerarchica, scarsa autonomia tra le diverse unità, standardizzazione delle prestazioni e routine; esse non possono adattarsi facilmente al mutamento e tendono a resistere ad ogni trasformazione.
“Un’organizzazione ‘cede’ al cambiamento solo quando si verificano disfunzioni veramente gravi cui è diventato impossibile far fronte” (Crozier, 1963: 218).
L’organizzazione non riuscirà a mutare gradualmente e per realizzare un cambiamento bisognerà “aspettare” che una disfunzione sia diventata tanto grave da minacciare la vita stessa dell’organizzazione.
Il cambiamento costituisce una crisi che viene sempre profondamente sofferta da tutti gli attori. La stessa crisi è considerata come uno degli aspetti tipici, caratterizzanti, distintivi di ogni sistema organizzativo burocratico.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La sensibilità organizzativa nella magistratura italiana

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Informazioni tesi

  Autore: Carmelo Saraceno
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze politiche e delle relazioni internazionali
  Relatore: Stefano Zan
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 92

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