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L'esterovestizione societaria: confini tra pianificazione ed evasione fiscale

Il difficile inquadramento dogmatico del fenomeno dell’esterovestizione

La tematica dell’esterovestizione è sempre stata di difficile qualificazione normativa ed interpretativa, alimentando un dibattito mai sopito in dottrina e provocando perduranti oscillazioni giurisprudenziali. Il principale punto da dirimere è sempre stato quello relativo all’idoneità del fenomeno ad essere ricollegato ad una condotta evasiva o elusiva, dal momento che - lungi dall’essere una questione meramente “accademica” - l’ordinamento giuridico ne fa conseguire effetti profondamente differenti soprattutto in relazione alla rilevanza penale propria della sola evasione fiscale.
Giova dunque a titolo di premessa introdurre alcune questioni di carattere pregiudiziale, definendo univocamente i concetti appena citati:
- l’evasione fiscale consiste in un comportamento illegittimo ed illecito che contrasta in modo diretto con una specifica previsione normativa, che viene espressamente violata. Trattasi di una condotta volta a sottrarre materia imponibile, occultandola, celando componenti positive di reddito, o rappresentando componenti di costo fittizie. Essa si realizza inoltre attraverso le vicende alterative di fatti economici come l’interposizione fittizia da intendersi come species della simulazione. L’evasione è contrastata dal legislatore tanto con fattispecie sanzionatorie amministrative, quanto con sanzioni penali;
- l’elusione fiscale (o abuso del diritto) consiste in una vicenda dove le condotte sono ex se lecite, ossia non contrastanti alcuna previsione normativa; tuttavia, viene realizzato in tal modo un risultato disapprovato dall’ordinamento, sancendosi una illegittimità della condotta stessa. Si parla a proposito di “aggiramento” della norma tributaria, nonché di un contrasto - non alla disposizione ma – alla ratio sottesa alla stessa. In un’ottica sistematica, l’elusione si colloca tra l’evasione (come supra descritta) e il risparmio lecito d’imposta, che si realizza ove il contribuente attui uno schema negoziale supportato da ragioni economiche extrafiscali che comporti un minore prelievo fiscale.

Si consideri che, con il d.lgs. 5 agosto 2015, n.128, si è introdotto nell’ordinamento l’art 10-bis, l. 27 luglio 2000, n.212, in base al quale - e ciò rileverà nel prosieguo della trattazione in particolar modo – un’operazione si considera abusiva davanti al congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi: i) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; ii) l’assenza di sostanza economica; iii) l’essenzialità del conseguimento di un “vantaggio fiscale”. L’elusione è contrastata dal legislatore esclusivamente con sanzioni amministrative, escludendosi una rilevanza anche in sede penale.
Una volta delineate le due categorie concettuali, si può dare conto dei filoni giurisprudenziali principali in materia:
⁃ un primo che, sostenendo l’idea dell’esterovestizione come abuso del diritto, postula la necessaria dimostrazione in capo all’Amministrazione finanziaria di un quid pluris consistente nella artificiosità della localizzazione estera finalizzata all’ottenimento di un vantaggio fiscale;
⁃ un secondo che, fondando la contestazione sul mero riscontro della sussistenza di uno dei criteri ex art. 73 comma 3 T.U.I.R., si emancipa dalla verifica della sussistenza di ulteriori elementi e riporta il fenomeno in oggetto nell’alveo dell’evasione.

Si segnala, per completezza, anche una interpretazione “intermedia” avanzata in dottrina che scinde descrittivamente l’esterovestizione e per la quale essa «costituisce un fenomeno stricto sensu evasivo e lato sensu elusivo»: dal punto di vista tecnico- giuridico un comportamento prettamente evasivo; dal punto di vista fenomenologico una condotta elusiva.
Al fine di ricostruire il percorso che, nella concomitanza di vari attori, ha portato alla “solidificazione” del dubbio circa la natura del fenomeno, può essere utile prendere le mosse da alcuni “vecchi” spunti dottrinali risalenti a quando ancora non vi erano stati interventi della giurisprudenza di legittimità e l’esterovestizione appariva “neonata” alla cognizione degli operatori. In questa occasione, un intervento di inizio millennio120 sancisce inequivocabilmente la portata evasiva dell’ipotesi in esame: questa viene qualificata come una forma di evasione internazionale, peraltro senza mai citare il concetto di elusione. I “tratti salienti” dell’intervento riportano che:
⁃ «nell’attuale panorama della fiscalità nazionale, uno dei temi che emerge con maggiore frequenza in sede di dibattito sull’individuazione delle più efficaci linee di contrasto all’evasione fiscale è – senz’altro – quello della fittizia residenza estera delle persone fisiche»;
⁃ «le condotte di trasferimento fittizio della residenza non sono prive di idoneità ingannatoria, tutt’altro: per certi versi esse rivestono il massimo della potenzialità falsificatoria in quanto attribuiscono una sembianza di veridicità (proprio perché rappresentano situazioni oggettivamente riscontrabili) ad una situazione (la residenza) che, invece, risulta sostanzialmente falsa»;
⁃ «se si analizza la posizione dei fittizi residenti dichiaranti, non è difficile verificare come non tutto, nella loro condotta, sia perfettamente conforme alla fattispecie legale».

L’Autore si appella chiaramente a categorie concettuali riferibili all’evasione, evidenziando a chiare lettere una non conformità della condotta rispetto alla norma, e denotando che le prime percezioni sull’esterovestizione deponevano nettamente a favore di una sua rilevanza penale.
Proseguendo in prospettiva cronologica, è possibile volgere l’attenzione ai documenti di prassi, esaminando la circolare n. 28/E del 4 agosto 2006, il cui paragrafo 8 relativamente alla presunzione dell’art. 5-bis chiarisce che essa «persegue l’obiettivo di migliorare l’efficacia dell’azione di contrasto nei confronti di pratiche elusive, facilitando il compito del verificatore nell’accertamento degli elementi di fatto per la determinazione della residenza effettiva delle società». E ancora, nella successiva risoluzione n. 312/E del 5 novembre 2007, l’Agenzia esplica le modalità di dimostrazione della prova contraria sottolineandone l’importanza allo scopo di «permettere quella valutazione caso per caso necessaria al fine di garantire la proporzionalità della norma rispetto al fine perseguito, a mitigare la portata generale della disposizione antielusiva in questione e, pertanto, a confermare la compatibilità della stessa con la normativa comunitaria». Si assiste allora ad un cambio di rotta, poiché l’Agenzia delle Entrate parla esplicitamente di elusione, a contrariis rispetto alla già menzionata dottrina.
Sul piano comunitario, funge da colonna portante delle argomentazioni logico-giuridiche che seguiranno negli anni la nota sentenza Cadbury-Schweppes del 2006, dove la Corte di Giustizia UE si è pronunciata sulla compatibilità delle legislazioni nazionali che incidono sul diritto di stabilimento riconosciuto dal Trattato UE (artt. 43 e 48); sebbene non si tratti un caso di esterovestizione, ma il distinto – benché correlato – tema della compatibilità delle normative nazionali con il diritto di stabilimento. Da tale pronuncia, dunque, non sembra direttamente ricavabile la natura “elusiva” dell’esterovestizione, ciò in quanto il punto di vista della Corte è di più ampia portata.
La sentenza in esame sancisce che le legislazioni nazionali possono prevedere ostacoli alla libertà di stabilimento solo qualora contrastino «costruzioni artificiose intese ad eludere la normativa nazionale». A tal proposito, il paragrafo 55 in particolare appare granitico nell’ affermare: «ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose (wholly artificial arrangements), prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale».
Le letture giurisprudenziali domestiche che tendono a ricondurre l’esterovestizione a species del più vasto genus “abuso del diritto” poggiano la loro struttura ermeneutica su principi declinati principalmente dalla suddetta pronuncia unionale: prima fra tutte, la sentenza n. 2869/2013 della Corte di Cassazione, per cui l’esterovestizione sarebbe un «tipico fenomeno di abuso del diritto». Il caso riguardava la contestazione ad una società di partecipazione finanziaria costituita in Lussemburgo ed ivi avente sede legale, di non aver presentato per una serie di anni alcuna dichiarazione dei redditi in Italia: secondo l’Agenzia, nonostante la società avesse la propria sede legale nel Granducato, doveva comunque ritenersi residente ai fini fiscali in Italia ai sensi dell’art. 73, comma 3, del T.U.I.R., e così soggetta agli adempimenti previsti dalla normativa vigente, avendo nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione. Sul punto la Corte, allineandosi alla sentenza Cadbury-Schweppes, precisa che, per potersi giustificare da motivi di lotta a pratiche abusive, la restrizione alla libertà di stabilimento deve contrastare i comportamenti specificamente consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, e che siano dunque finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati dall’attività svolta sul territorio nazionale.
Nonostante un’ampia dottrina di segno contrario, questo orientamento qualificante l’esterovestizione come parte della categoria dell’abuso del diritto sarà prevalente per anni, e troverà accoglimento nel caso destinato a diventare il “leading case” per eccellenza in argomento.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'esterovestizione societaria: confini tra pianificazione ed evasione fiscale

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Informazioni tesi

  Autore: Federico Aluigi
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Andrea Carinci
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 104

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