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Il licenziamento del dirigente (storia ed evoluzione di una professione controversa)

Il licenziamento del dirigente secondo la legge

Il licenziamento individuale del lavoratore subordinato era originariamente disciplinato dagli artt. 2118 (recesso ad nutum dal contratto a tempo indeterminato, con preavviso) e 2119 (recesso in tronco per giusta causa a prescindere dalla durata del rapporto di lavoro) del codice civile; nel 1966 l’art. 2118 fu neutralizzato dalla l. n. 604 del 15 luglio, con la quale si richiede la sussistenza di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo) per poter legittimamente licenziare un lavoratore. Oggi giorno sono poche e numericamente limitate le fattispecie in cui è ancora ammesso il licenziamento ad nutum e che sfuggono dal regime della l. n. 604/66: il licenziamento del dirigente rappresenta una di quelle.

L’art. 10 della legge in commento infatti, riferendosi ai prestatori di lavoro con qualifica di impiegato e di operaio (ai quali poi viene equiparato il quadro), esclude implicitamente dall’area di applicazione della legge i dirigenti d’azienda. Secondo un principio ormai pacifico in giurisprudenza, tale esclusione è dovuta alla speciale natura del rapporto di lavoro, fondato sull’elemento personale e fiduciario e fa del dirigente un prestatore di lavoro soggetto al regime della libera recedibilità ai sensi dell’art. 2118.

Sebbene non sia richiesta giustificazione alcuna, il datore di lavoro è tenuto ad osservare un periodo di preavviso. La durata del preavviso è fissata dai contratti collettivi ed ê differenziata in base all’anzianità e alla qualifica del lavoratore. In caso di violazione di tale obbligo o in caso di preavviso non lavorato il lavoratore ha diritto a percepire l’indennità di mancato preavviso, equivalente alla retribuzione che gli sarebbe spettata durante il periodo stesso (art. 2118, c. 2).

Per quanto concerne il licenziamento per giusta causa, al dirigente si applicano le disposizioni previste dall’art. 2119 anche per le altre categorie legali: si tratta di un licenziamento intimato come conseguenza di un gravissimo inadempimento contrattuale che non consenta neanche la temporanea e provvisoria prosecuzione del rapporto di lavoro.
La giusta causa è quindi quella in grado di provocare una lesione irrimediabile del “vincolo di fiducia” e può essere originata anche da comportamenti extra-lavorativi tenuti dal prestatore di lavoro ma che incidano comunque sul rapporto. Nella fattispecie in cui il recesso per giusta causa da un contratto di lavoro a tempo indeterminato sia esercitato dal dirigente, egli ha diritto a percepire l’indennità di mancato preavviso.

E’ doveroso sottolineare che il dirigente, in mancanza di un’espressa esclusione, ha comunque diritto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale in particolari evenienze quali, per esempio, la malattia e l’infortunio, prevista per il lavoratore subordinato in generale. Esistono infatti determinate situazioni durante le quali la prestazione lavorativa del dipendente diventa temporaneamente impossibile, quindi sospesa; l’art. 2110 del codice civile prevede che, in tal caso, il rapporto di lavoro non si estingua e che il lavoratore abbia diritto a percepire una particolare indennità o, in mancanza, la retribuzione stessa. Pertanto, il licenziamento intimato al dirigente durante la malattia o l’infortunio senza una giusta causa è nullo; se intimato con preavviso per valide ragioni è temporaneamente inefficace.

I contratti collettivi prevedono che il lavoratore (anche dirigente) malato o infortunato possa essere legittimamente licenziato in caso di superamento del periodo di comporto (calcolato a secco o per sommatoria), ossia il periodo massimo in cui il dipendente può assentarsi per malattia conservando il proprio posto di lavoro.
La sentenza della Cass. S.U. del 1995 n. 6041 escludeva il dirigente dal raggio d’azione del licenziamento disciplinare, il cui procedimento si trova all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori; la ragione di questa estromissione risiedeva nella inconfigurabilità di un potere disciplinare del datore di lavoro nei confronti di un lavoratore subordinato con il quale intrattiene un rapporto di tipo fiduciario. Tuttavia, una più recente sentenza (Cass. S.U. del 2007, n. 7880) ha affermato che, in mancanza di una esplicita esclusione legislativa, la disciplina prevista dall’art. 7. della l. 300/70 possa essere estesa anche al dirigente. L’art. 2106 c.c. prevede infatti che, in caso di violazione degli obblighi del lavoratore (obbligo di diligenza, di obbedienza, di fedeltà), il datore di lavoro possa legittimamente applicare determinate sanzioni disciplinari a seconda della gravità dell’infrazione: il rimprovero (verbale o scritto), la multa (fino ad un massimo di quattro ore lavorative), o la sospensione disciplinare (fino ad un massimo di dieci giorni lavorativi).

Tuttavia, prima dell’irrogazione delle sanzioni, il datore di lavoro è tenuto al rispetto di una rigida disciplina (quella, appunto, prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori), secondo la quale egli deve innanzitutto contestare tempestivamente l’addebito in forma scritta; la contestazione è seguita poi da un periodo, in genere di cinque giorni, durante il quale il lavoratore in oggetto ha diritto alla difesa. Al termine di tale periodo, il datore di lavoro può procedere all’irrogazione della sanzione.
Il lavoratore che ritenga illegittima e ingiusta l’irrogazione può impugnare la sanzione in sede giurisdizionale, oppure in sede arbitrale, di fronte ad un Collegio di conciliazione e di arbitrato; l’attivazione di questa seconda via sospende l’irrogazione fino alla pronuncia del Collegio, ma può essere rifiutata dal datore di lavoro.

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Il licenziamento del dirigente (storia ed evoluzione di una professione controversa)

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Informazioni tesi

  Autore: Michele Avila
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2012-13
  Università: Università degli Studi di Palermo
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Scienze dell'amministrazione
  Relatore: Alessandro Bellavista
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 71

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