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Clandestine, innocenti e silenziose. Rappresentazioni vecchie e nuove della prostituzione e dei suoi agenti

Il mito culturale

Tale uso strategico del discorso e della retorica in realtà ha radici ben più antiche ed è erede in particolare dei primissimi movimenti femministi della storia occidentale, i quali hanno dato vita ad un “mito culturale” (Doezema, 2000: 24) che, nonostante le differenze di luoghi, tempi e protagonisti, ha trovato un rinnovato vigore a partire dagli anni Settanta del Novecento. Per capire quindi la risonanza di quegli elementi narrativi che ritroviamo ancora oggi nel contesto delle campagne anti-tratta è necessario tornare indietro ad altre due campagne: quella contro la “white slavery” alla fine del XIX secolo e quella portata avanti dalle femministe inglesi di epoca vittoriana in soccorso alle “sorelle” indiane.

Con il termine “white slavery fu indicato per la prima volta un nuovo tipo di traffico di esseri umani (dopo quello della tratta degli schiavi) che consisteva nel reclutamento e l’avviamento di donne bianche - attraverso la coercizione o la minaccia – alla prostituzione, che solitamente avveniva oltreoceano, in Sudamerica. Anche in questo caso emersero varie correnti in risposta al preoccupante fenomeno: la prima, “regolazionista” proponeva l’istituzione di luoghi particolari in cui la prostituzione potesse essere tenuta sotto controllo, così come le lavoratrici, che dovevano essere sottoposte ad esami medici obbligatori. Alla base di questa scelta era la visione della prostituzione come “necessary evil” (Doezema, 2000: 25), della prostituta come “donna caduta”, peccatrice, necessaria di riscatto, e come soggetto “deviato”. Il secondo approccio, quello “abolizionista”, introdusse invece l’idea che la prostituzione esistesse unicamente a causa dello sfrenato desiderio maschile e che le donne in tale circostanza fossero vittime di quello stesso desiderio e che dovessero essere salvate. Questa campagna - insieme a quella per la “purezza sociale” - iniziò ad avere un’espansione ampia ed un forte riscontro, che poi si tradusse in panico morale, a livello di opinione pubblica; ciò che provocava lo sdegno generale era l’immagine proposta delle donne coinvolte nella tratta che, a questo punto, dovrebbe ricordarci una retorica ben nota: delle donne venivano esasperate la giovane età, la verginità (dunque la purezza), l’essere senza colpe e senza peccato in quanto non autrici di una scelta volontaria ma forzata, in poche parole l’essere vittime, bianche, inconsapevoli e impotenti. Della prostituzione venivano enfatizzate caratteristiche legate alla pericolosità, alla malattia e alla morte, mentre i trafficanti erano sempre non-bianchi, dipinti nella loro totale crudeltà: veniva proposta l’immagine di un universo in bianco e nero, dove da una parte c’era un solo “tipo” di donna, dall’altra un solo “tipo” di trafficante. Infatti in quel periodo
Neither the pre-Victorian 'fallen women' nor the Victorian 'sexual deviant' was an ideal construct to elicit public sympathy. Only by removing all responsibility for her own condition from the prostitute could she be constructed as a victim to appeal to the sympathies of the middle-class reformers, and public support for the end goal of abolition be achieved. The 'white slave' image as used by abolitionists broke down the old separation between 'voluntary' sinful and/or deviant prostitutes and 'involuntary' prostitutes, construing all prostitutes as victims, and removing the justification for regulation. (Doezema, 2000: 26)

Le campagne femministe necessitavano quindi di una ri-costruzione dei soggetti femminili come vittime per poter avere un seguito e generare l’interessamento e il coinvolgimento emotivo degli attori sociali.
Non stupisce che, in tempi più o meno coincidenti, gli stessi meccanismi fossero adottati dalle attiviste inglesi nella loro campagna in difesa e per la salvezza delle donne del continente indiano, in particolare delle prostitute. In questo caso alla vittimizzazione si aggiunse una retorica orientalista e colonialista di stampo implicitamente razzista, nascosta dall’intento salvifico della protezione: le prostitute indiane appartenevano alla casta più bassa, erano i soggetti più marginali e tutte le donne indiane erano schiave del sistema castale e maschilista che le rendeva individui sottomessi in una nazione arretrata, dalle usanze quasi barbariche. Nonostante il progetto filantropico che promuoveva l’uguaglianza di tutte le donne, ad un livello più profondo emergeva un discorso diverso, che aveva in sé tutti i connotati di un imperialismo ideologico, per cui la donna indiana era sofferente, sottomessa, schiava, incapace di sollevarsi. Automaticamente le attiviste inglesi di fine Ottocento apparivano quanto di più lontano ci potesse essere dalle donne indiane, ma ciò non rappresentava un problema, in quanto
British women’s claims for inclusion necessitated the inequality of British and Indian women: Indian women served as the perfect 'foil' to indicate the 'advanced' situation of middle-class Victorian feminists. The international, imperial nature of the feminist campaign […] homogenized the condition of British women as advanced, strong and civilized at the same time as it homogenized Indian women as backward, helpless and inferior. (Burton, 1994 citato in Doezema, 2001: 24-25)

Ciò per cui le femministe si stavano battendo era il riconoscimento di un’autodeterminazione che loro stesse già si attribuivano, ma che non vedevano accettata dal sistema politico, economico e sociale, ancora prevalentemente gestito dagli uomini. Le donne indiane servivano da “cartina al tornasole” per dimostrare il livello di progresso, indipendenza e libertà raggiunto dalle donne occidentali, tale che potesse esser preso in considerazione un loro ingresso nella sfera politica e decisionale. E' un’invisibile operazione di potere quella che si basa sul presupposto diritto di prendere parola in vece di qualcun altro cui non è attribuita la capacità di parlare, ma ha dei risultati ben più visibili: dalla donna caduta alla vergine innocente, dalla sottomessa donna indiana alla “prostituta del terzo mondo”, ripercorrendo le immagini riproposte in varie epoche, si è cercato il raggiungimento di obiettivi precisi sotto lo scudo della moralità, della purezza sociale e della “sorellanza”, contribuendo invece alla privazione per le donne in causa di una qualunque forma di potere: verbale e non verbale, di azione e di rivendicazione. Quando l’intento di proteggere si trasforma in manipolazione dell’identità dell’altro (in questo caso la donna “altra” per eccellenza, la prostituta), attuando un processo trasformativo che lo rende apparentemente indifeso, impotente, “silenzioso”, non si agisce in favore dell’altro, ma si attiva un meccanismo basato sul pietismo e sul soccorso che poco ha a che fare con la difesa dei diritti dell’uomo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Clandestine, innocenti e silenziose. Rappresentazioni vecchie e nuove della prostituzione e dei suoi agenti

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Informazioni tesi

  Autore: Giulia Gosi
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze antropologiche
  Relatore: Luca Jourdan
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 55

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Parole chiave

donne
prostituzione
protezione sociale
tratta
sex worker
traffico di esseri umani
programmi di protezione
comitato per i diritti civili delle prostitute

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