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«Senza capire, ci avete condannati». Ritratto dei nativi americani nella serialità western contemporanea

Il neo-western: accuratezza storica o falso mito?

We are living in a golden age of coarse generalizations. […] It turns out that stereotypes are not only offensive, they are also comforting. They wrap life in the archetypal toastiness of fairy tale and myth. They make complicated understandings unnecessary. They permit people to identify the appearances with the realities, and so exempt them from any further mental or emotional effort. They keep familiar things familiar. They are not completely false, but they are completely shallow.57

Questa lettura di Maureen Dowd, editorialista del New York Times, presenta lo stereotipo in chiave confortante. Nell’individuare un modus operandi che coinvolge le rappresentazioni dei nativi, distogliendo l’attenzione dai meccanismi narrativi e visivi che operano in direzione di una consapevole degradazione di un’etnia, si vuole mettere in luce il tentativo – da parte del gruppo dominante – di realizzare un proprio desiderio, ovvero fornire agli stessi spettatori euro- americani (da sempre i più numerosi fruitori del genere)58 una rassicurazione. A partire da questo assunto Michael Ray Fitzgerald arriva a sostenere come le fantasie razziste vengano recepite dagli spettatori del gruppo dominante sottoforma di una “gratificazione ideologica”, cercando supporto ne La Distinzione di Pierre Bourdieu. Se il piacere dello spettatore si verifica nell’esatto momento in cui esso si trova in accordo con l’ideologia propostagli dalla narrazione, come spiega il sociologo francese, ciò avviene solamente perché rassicurato di aver assunto la corretta posizione. Nell’affermare che “nessun giudizio di gusto è innocente”, citando Kant, Bourdieu ci suggerisce come lo spettatore sia coinvolto attivamente nel processo di ricerca del risultato desiderato, finendo così per escludere automaticamente tutti gli altri.59
È giusto quindi chiedersi se gli spettatori, nel momento in cui traggono soddisfazione dallo stereotipo presentato loro, possano diventare in qualche modo colpevoli a loro volta della propagazione di quest’ultimo. Secondo lo studioso di media John Fiske la risposta è affermativa: abbandonandoci a una pratica ideologica, noi spettatori confermiamo la legittimità della pratica dominante, ottenendo come ricompensa il facile piacere del riconoscimento familiare.60

Viene così a delinearsi una prospettiva di rappresentazione e fruizione poco rassicurante, in cui la cultura popolare – permeata per decenni dalla costante riproposizione di luoghi comuni da parte dell’industria dei media – ha posto gli spettatori davanti a una prospettiva completamente distorta della realtà, e dalla quale si devono prendere le giuste distanze per poter discernere le varie problematicità. Il passato mitico alla base delle narrazioni western, emanazione di quel destino manifesto che vedeva la popolazione bianca euro-americana come la prescelta da Dio per portare a termine una missione di salvataggio nei confronti dell’Altro, il selvaggio indiano, è servito a legittimare, a rendere “normale” le pratiche coloniali. “Amerindians were called ‘beasts’ and ‘cannibals’ because white Europeans were slaughtering them and expropriating their land”61 sottolinea il teorico del cinema americano Robert Stam, evidenziando come il razzismo sia stato spesso utilizzato nei termini di una giustificazione retroattiva, e come, di conseguenza, le rappresentazioni mediali funzionino come ulteriore riprova della legittimità delle azioni compiute contro i nativi. Ma se oggi non ci sono più dubbi nel considerare il trattamento del governo statunitense rivolto alle tribù native nei termini di un tentativo di genocidio e nell’addossare alla cultura di massa la colpa di aver ignorato la verità in favore della diffusione di una narrazione storico-mitica che, come si è visto, ha negato la verità storica,62 si rende necessario evidenziare come recentemente i mass media americani abbiano fatto passi avanti nella giusta direzione, impegnandosi per una maggiore accuratezza,63 operando su due linee parallele: l’impiego di attori realmente nativi e l’uso delle lingue originali.

Questi due elementi, di valore indubbiamente positivo, si riscontrano nelle narrazioni neo-western contemporanee, a partire dal già citato Balla coi lupi. Sviluppato attorno alle vicende dell’ex ufficiale dell’esercito unionista John Dunbar (Kevin Costner), che sceglie come suo incarico il presidio del remoto Fort Sedgwick per vedere la frontiera prima che sparisca, il film esamina il tema della giustizia nei confronti degli indiani e l’apprezzamento della loro cultura – tracciato emblematicamente dalla riflessione in voice-over di Dunbar:

Nothing I have been told about these people is correct. They are not thieves or beggars. They are not the bogeymen they are made out to be. On the contrary, they are polite guests and I enjoy their humor.64

I Lakota Sioux della pellicola, interpretati da attori di origini native, e l’uso della stessa lingua Lakota, operano nella direzione di una maggiore attenzione riservata ai nativi, come giustamente nota la scrittrice Elizabeth Cook-Lynn in un articolo del 1991:

that movie … genuinely touched me, that movie which so effectively used with subtitles the language of my real life […] It is a movie about Indians which, in the year before the Columbus quincentennial, has made all America remember that this country once belonged to the Indians and, perhaps, still does.65

Se l’impiego di attori (e società di produzione che coinvolgono consulenti nativi americani) e l’utilizzo degli idiomi dei nativi producono come risultato finale percezioni più autentiche e veritiere, non mancano però diverse voci che hanno dimostrato come nascano sentimenti contrastanti nei confronti di questa “nuova” produzione mediatica, a cominciare proprio con la pellicola di Kevin Costner, letta più come evidenziazione di un problema che come reale tentativo di trovare una soluzione ad esso.
Il film, infatti, chiede allo spettatore di dimenticare, se non annullare, tutti i crimini commessi dagli euro-americani, compensando la barbarie delle azioni commesse dal desiderio di John Dunbar di essere un indiano, instillando nella mente dello spettatore l’idea – fuorviante – di una possibile unione pacifica tra assassino e assassinato, tra ladro e vittima.66 Unione, che nelle stesse parole di Cook-Lynn, è irrealizzabile, quando afferma

The position that the oppressed and the oppressors are all Americans together is indefensible, especially when the resultant effects of the oppressors, i.e., the paternalism and poverty of modern American Indian life, is rarely addressed and never transcended.67

Terzo aspetto chiave, di segno però negativo, nello studio delle rappresentazioni degli indiani d’America è la (quasi) costante collocazione delle narrazioni nel passato.
Questa tendenza, che sembra voler cancellare ogni possibile impatto dei nativi americani nel mondo contemporaneo, come se la loro stessa esistenza e i loro problemi non c’entrassero al giorno d’oggi, viene inquadrata nella strategia psicologica del temporal dis-placement, meccanismo di difesa che risponde al bisogno di collocare in un tempo diverso dal presente ogni questione che agli occhi e alla mente dello spettatore potrebbe causare disagio. Ammettendo che la cultura dominante statunitense sta lottando contro il senso di colpa per le politiche genocide attuate più di un secolo e mezzo fa, collocando i crimini commessi in un tempo passato, lontano, è possibile attenuare il senso di disagio dello spettatore. Come ben evidenzia Stephanie Greco Larson

Revisionist [i.e. post – World War II] westerns relegate racism to history by admitting that something bad happened long ago. These stories acknowledge some of what was done against Indians during Western expansion and provide sympathetic representations of Native Americans. By acknowledging this, the white audience gets to feel absolved of guilt for what [its] predecessors did.68

Il senso di colpa – seppur attenuato dalla collocazione in un tempo passato, per cui ormai nulla è più possibile fare per modificare azioni già compiute – è il quarto elemento chiave che contraddistingue le narrazioni neo-western, rappresentazione di quel trauma collettivo che ha investito la società americana insieme ai suoi prodotti culturali.
Il cinema e la televisione hanno affrontato questo conflitto interiore intraprendendo un percorso di stereotipizzazione negativa e di giustificazione. Se la prima funziona nei termini di un addossamento della colpa alle vittime, rientrando perfettamente nel meccanismo di trasposizione sul grande e piccolo schermo della teoria del “blaming the victim” affrontata nel primo capitolo, la seconda, nel tentativo di mascheramento del movimento espansionistico responsabile dell’annichilimento dell’altro diverso da sé, vede – secondo lo psicologo John Sabini – la proposizione dei crimini commessi nell’ottica di una giusta e lecita reazione: se gli indiani sono stati i primi ad attaccare, rispondere con la violenza non poteva che essere ragionevole in termini di autodifesa.69 Ed è nel contesto delle strategie di negazione che si inserisce l’intervento di Greco Larson, nel denunciare come

Since the reality of United States’ history of genocide against indigenous people is difficult to accept in a modern context, films and entertainment television that include [depictions of] Native Americans serve to deny, justify, or forgive the atrocities committed against them.70

Nella ricerca delle ragioni che hanno spinto la cultura statunitense, espressa attraverso la televisione, a investire una grande quantità di energia nella creazione di immagini che, come si è visto, negano, giustificano o in qualche modo perdonano i crimini commessi dagli euro-americani, non va tralasciato il peso delle decisioni degli inserzionisti, il cui timore è quello che i loro prodotti vengano associati – nella mente degli spettatori – a figure che creano in qualche modo un senso di fastidio. A supporto di questa teoria, chiarificatrici risultano essere le parole di Annette M. Taylor, che spiega

Popular culture generally avoids contemporary, real-life Native Americans and Native America issues because of national collective guilt about government policies of genocide. Guilt makes people feel bad, and people who feel bad do not feel like spending money. And the purpose of [commercial] television, after all, is to sell products.71

Elemento che si riscontra, ancora una volta, in Balla coi lupi, dove, seppur riconoscendo le atrocità commesse da alcuni conquistatori euro-americani bianchi, il messaggio che la pellicola veicola sembra essere quello che il vero cuore “puro” del popolo americano sia composto da personaggi impersonificati nel nobile e giusto John Dunbar, che si schiera a fianco dei nativi contro i bianchi malvagi, in un completo rovesciamento di uno dei canoni del western classico.72

Riassumendo quanto trattato fin qui dal capitolo, impiego di attori nativi, uso della lingua originale, collocazione delle narrazioni nel passato e senso di colpa sono le quattro direttive, di segno opposto, assunte dal western cinematografico degli ultimi decenni, in quello che può essere definito un tentativo di allontanamento dai vecchi cliché che, sedimentati nel corso del tempo, avevano plasmato la semantica del genere. Resta ora da compiere il passo successivo, ovvero addentrarsi in alcuni dei prodotti seriali contemporanei, per tentare di verificare la validità di tali percorsi nel momento in cui si sposta la lente dal cinema alla televisione.
Aldo Grasso interrogandosi nel 2016 sull’eventualità di una possibile morte delle serie tv, dopo le già preannunciate morti – nel passato – di teatro, cinema, radio e tv generalista, risponde di come “nel mondo della scrittura, le morti annunciate sono sempre state rimandate, anzi smentite.73 Questa affermazione, come già si è visto, può benissimo essere ridimensionata di scala, in un movimento che dal più vasto mondo della serialità televisiva, punta al più circoscritto, seppur non piccolo, universo del genere western, rappresentazione di quello struggimento interiore di uomini che nel sfogare o nel tentare di arginare la loro natura violenta, hanno da sempre segnato le grandi narrazioni americane. Genere che non deve stupire lo spettatore se si ritrova ad essere al centro, come giustamente fa notare Martin Brett, della cosiddetta terza età dell’oro della televisione statunitense, le cui fondamenta si poggiano proprio sulla rivisitazione dei generi fondativi della storia culturale della nazione, alla stregua di quanto fatto dal cinema agli albori degli anni Settanta nella rilettura delle grandi tematiche della conquista della frontiera (Easy Rider, Dennis Hopper, 1969) e del western (Il mucchio selvaggio, The Wild Bunch, Sam Peckinpah, 1969).74




57 Dowd Maureen, “Liberties; Cuomos vs. Sopranos”, The New York Times, 22/04/2001, URL https://www.nytimes.com/2001/04/22/opinion/liberties-cuomos-vs-sopranos.html (consultato il 27/03/2023)
58 Il pubblico dei western (cinematografici e televisivi) è composto per lo più da uomini (63% rispetto a un 37% di pubblico femminile) bianchi (79%), ultra-quarantacinquenni (71%), cittadini degli stati del Sud degli Stati Uniti, secondo i calcoli della studiosa Yardena Rand. Cfr. Rand Yardena, Wild Open Spaces. Why We Love Westerns, Manville, RI, Maverick Spirit Press, 2005, pp. 11-14
59 Cfr. Fitzgerald M. R., op. cit., pp. 184-185; vedi Bourdieu Pierre, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 2001 (I ed. orig. 1979)
60 “[We viewers] are indulging in an ideological practice ourselves: we are maintaining and legitimating the dominant ideology, and our reward for this is the easy pleasure of the recognition of the familiar” - Fiske John, Television Culture, London, Taylor & Francis Group, 2010, p. 12
61 Stam Robert in Stam Robert, Spence Louise, “Colonialism, Racism and Representation: An Introduction”,
Screen, Vol. XXIV, No.2 , Marzo/Aprile 1983
62 Cfr. Whitington Paul, “How Hollywood failed America’s Indigenous People”, Irish Independent, Dublin, Independent News & Media, 24/09/2022, p. 12
63 “The American mass media have made new strides in the right direction by striving for more accuracy”, Carstarphen Meta G., Sanchez John P., “The Binary of Meaning: Native/American Indian Media in the 21th Century”, The Howard Journal of Communications, University Park, PA, Vol. 21, No. 4, 2010, p.325
64 John Dunbar, Balla coi lupi (Dances With Wolves, Kevin Costner, 1990)
65 Cook-Lynn Elizabeth, “The Radical Conscience in Native American Studies”, Wicazo Sa Review, University of Minnesota Press, Vol. 7, No. 2, Autunno 1991, p. 9
66 Scrive Elizabeth Cook-Lynn: “The popular imagination as an instrument for social change will work against us not only because it trivializes our common histories but because there is not one item on any Indian political or cultural or intellectual agenda which can be addressed through the misleading notion perpetuated by this movie that some kind of social cohesion is possible between the murderer and murdered, the thief and the victim, the rapist and the raped.”, op. cit., p. 10
67 Ibidem
68 Greco Larson Stephanie, Media & Minorities. The Politics of Race in News and Entertainment, Lanham, MD, Roman & Littlefield, 2006, p. 52
69 Sabini John, Social Psychology, New York, W.W. Norton, 1992, pp. 626-627; cfr. Fitzgerald M. R., op. cit., p. 191
70 Greco Larson S., op. cit., pp. 50-51
71 Taylor Annette M., Cultural Heritage in Northern Exposure, in Bird Elizabeth S. (edited by), Dressing in Feathers: The Construction of the American Indian in American Popular Culture, Boulder CO, Westview Press, 1996, p. 240
72 Cfr. Fitzgerald M. R., op. cit., p.
73 Grasso A., Binge watching, in Grasso A., Penati C., op. cit., ed. Kindle
74 Cfr. Brett Martin, Difficult Men. Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv, trad. it. M. Maraschi, Roma, Minimum Fax, 2018, pp. 119-120

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«Senza capire, ci avete condannati». Ritratto dei nativi americani nella serialità western contemporanea

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Informazioni tesi

  Autore: Francesca Verri
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2022-23
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Cinema, Televisione e Produzione Multimediale
  Corso: Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale
  Relatore: Luca Barra
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 110

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