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Il Libano nel Levante: crocevia di interessi internazionali

Il preludio alla guerra: fattori interni ed esterni

Le relazioni siro-libanesi nel periodo post-mandatario sono osservabili sotto differenti scale di analisi.
Su scale internazionale, l’acquisizione dell’indipendenza dei due paesi precede solo di qualche anno la fase d’avvio della Guerra Fredda. Così come l’Europa e gli altri continenti, anche il Medio Oriente è soggetto allo schieramento in blocchi egemonici di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Seppur prossimi in termini geografici, Siria e Libano adottarono modelli economici e ideologici opposti: il Libano, grazie alla sua affermazione nella regione come centro finanziario e commerciale, sposò il blocco occidentale proseguendo il progetto liberista instaurato sotto il mandato francese; la Siria al contrario, si allineò con il modello sovietico statalista e socialista impersonato dal partito del Baath.
A livello regionale, l’assetto bipolare ebbe come prima conseguenza la perdita di influenza di Francia e Gran Bretagna sui terrori dei mandati. In parte, l’assenza di un controllo diretto lasciò spazio all’affermazione della leadership di Gamal Abd al-Nasser che tra il 1952 e il 1967 rappresentò una “Terza Via” al bipolarismo. Il “nasserismo” fu la spinta propulsiva che diede il via a tentativi di riforma in termini di formazione di un nuovo ordine arabo indipendente e antimperialista. Gli ideali di cui si fece garante influenzarono il posizionamento e le politiche di diversi paesi della regione; prima tra questi la Siria. Nel 1958, dall’evoluzione dei rapporti con l’Egitto di Nasser nacque la Repubblica Araba Unita (RAU). Malgrado questa si concluse con esito negativo, fu il primo tentativo “istituzionale” di ispirazione panaraba.
Vi sono stati altri avvenimenti di rilievo internazionale che hanno inciso negli sviluppi dell’intera regione e sulle relazioni dei paesi arabi con le grandi potenze; tra questi la crisi di Suez (1956) e le quattro guerre arabo-israeliane.

Pur non potendosi addentrare nei dettagli di tali eventi, ciò che risulta fondamentale osservare al fine di comprendere le strategie politiche della Siria in Libano, è il ruolo giocato da Israele.
Occorre prima riconsiderare le premesse geografiche in cui si sviluppano le dinamiche qui trattate: la geografia, disciplina che nello studio della regione e specificamente del Libano, torna spesso utile come strumento di analisi, mostra come fin dalla sua creazione il territorio del Paese dei Cedri sia stato incastonato tra le rivalità di Israele da un alto e le aspirazioni siriane dall’altro. Si può ritenere che sia proprio la posizione il tallone d’Achille del Libano; il rischio però è quello di cadere nella “tesi dell’artificialità”. In riferimento alle parole di Lorenzo Kamel, la tesi delle “frontiere artificiose” del Medio Oriente, porta con sé una serie di limiti analitici che rischiano di semplificarne la storia o essere strumentalizzata per fini geopolitici.
Prima di addentrarsi nell’analisi interna del Libano, è opportuno presentare la figura di Hafez Al-Assad (1930-2000), presidente del regime siriano dal 1970 alla sua morte.
Gli esiti delle politiche coloniali francesi furono particolarmente incisivi in Siria. La stagione di tensioni che visse nella fase post-coloniale si caratterizzò per una situazione di forte instabilità istituzionale, con l’alternarsi di colpi di stato orchestrati generalmente da dirigenti militari. Fu il golpe del 1966 di Al-Assad a ristabilire un ordine interno. Posto per qualche anno al Ministero della Difesa, nel 1970 espugnò i membri del suo governo e si impose come Presidente della Repubblica siriana. Il Presidente alawita si distinse da subito per il suo pragmatismo in politica interna, così come in politica estera. Senza voler entrare nei dettagli della politica interna siriana, è significativo sottolineare la funzione conferita al partito del Baath: se nei primi tempi fu strumento di consolidazione del potere, presto Al- Assad spostò il centro gravitazionale dal partito alla sua persona, includendo negli organi di potere membri del nucleo familiare appartenenti alla minoranza alawita. Il regime prese dunque la forma di un potere neo-patrimoniale.

Trovata la stabilità politica interna, Assad passò ad occuparsi della Siria come attore regionale e internazionale. In seguito alla disfatta araba del 1967, l’Egitto di Nasser entrò in una fase di inesorabile declino che spinse la Siria a ricercare il ruolo di potenza egemone nella regione. A partire dagli anni Settanta, e ancor di più negli anni Ottanta, si presentò tra i paesi arabi come guida della lotta a Israele e promotrice dell’unità araba.
Da annoverare tra i principali obiettivi perseguiti da Assad, fu la riappropriazione delle Alture del Golan occupate da Israele nel 1967. Per ottenere lo status quo ante coordinò differenti strategie tra gli attori regionali: creò una coalizione di stati arabi accumunati dalle rivalità per un nemico comune; iniziò una politica di sostegno attivo alla resistenza palestinese; e infine, cercò l’appoggio del nuovo presidente egiziano Anwar Al-Sadat (1918-1981). In un primo momento sembrò rappresentare l’alleato ideale per condurre un’operazione militare finalizzata al ripristino territoriale dei confini. Malgrado l’azione intrapresa contro Israele nel 1973 non ebbe l’esito sperato per gli alleati arabi, fu utile alla Siria per valutare la propria preparazione rispetto all’avversario. A discapito delle aspirazioni siriane, Sadat si dimostrò non all’altezza delle aspettative panarabiste e nel 1979 optò per una pacificazione dei rapporti con Israele. Vedendo messi a rischio gli sforzi sostenuti in politica estera e credendo di poter eguagliare la dotazione militare di Israele, Assad decise di incrementare notevolmente il budget dedicato al settore militare e di avviare un’ingente corsa agli armamenti di produzione sovietica.
L’egemonia regionale poi, non poté che passare per il Libano; asset strategico cruciale per espandere la sfera d’influenza siriana. Nel caso dell’ex regione della Grande Siria, Assad non ebbe grandi difficoltà nel trovare i mezzi per riportare la presenza siriana nella mutasarrifiyya. Oltre al sostegno all’Olp, che dopo gli avvenimenti del Settembre Nero rafforzò la sua presenza nel sud del Libano e a Beirut Ovest, sfruttò l’interdipendenza economica dei due paesi minacciando di arrecare gravi danni al mercato del lavoro libanese (composto da circa 500 mila lavoratori siriani) e al settore commerciale attraverso la limitazione della circolazione alle frontiere. Infine, enfatizzò la retorica dei legami storici e le conseguenze del divide et impera imposto dalla potenza francese. Tali legami, rivendicati da Assad come inscindibili e uniti da un passato comune, furono incorniciati dall’ideologia baathista e panaraba.
Dopo aver inquadrato a grandi linee il contesto internazionale e regionale, è ora possibile osservare i riverberi di tali dinamiche all’interno del sistema libanese. In larga misura le vicende pocanzi riassunte avvennero sotto la presidenza di Camille Chamoun (1952-1958).
Il posizionamento del Libano nel versante del blocco occidentale non fu una decisione così scontata. La difficoltà non riguardò tanto lo schieramento nell’arena internazionale, quanto le conseguenze che ne sarebbero derivate rispetto alla diffusione del nasserismo nel mondo arabo. L’adesione alla Dottrina Eisenhower nel 1957 come unico paese arabo non impedì all’egemonia egiziana di influenzare le idee della popolazione libanese. Le divergenze interne furono particolarmente sentite dalle comunità musulmane, ma anche delle alee cristiane anticolonialiste che dal periodo del mandato rivendicavano una rottura dei rapporti con le potenze occidentali. I contrasti domestici si inasprirono fino a sfociare in una lotta intestina nel 1958, sedata dall’intervento degli Stati Uniti nello stesso anno.
Il successore, Fouad Chehab (1958-1964), riuscì a gestire le tensioni interne lasciate da Chamoun. La sua politica si caratterizzò per l’introduzione di riforme sociali ed economiche con le quali mitigò gli antagonismi interni. A livello istituzionale cercò di riequilibrare la distribuzione del potere pubblico e limitare la marginalizzazione della comunità musulmana; mentre a livello regionale dimostrò maggiore tolleranza nei confronti delle influenze nasseriste in Libano pur restando fedele alla dottrina statunitense.
Talvolta, la guida di Nasser sembrò poter risolvere uno dei nodi che più misero in difficoltà lo stato libanese: la presenza dei profughi palestinesi e dell’Olp.

L’affluenza di profughi palestinesi nel sud del Libano fu considerevole già dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, e con il trasferimento delle roccaforti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina in Libano si ebbe una seconda ondata di circa 300.000 rifugiati. La mediazione del leader egiziano portò alla stipulazione dell’accordo del Cairo nel 1969 con il quale il governo libanese acconsentì alle autorità palestinesi di condurre operazioni di guerriglia contro Israele dai confini meridionali. I termini dell’accordo prevedevano la previa autorizzazione del governo centrale per operazioni armate, ma lasciava ampia libertà d’azione e di circolazione dei palestinesi, inoltre deponeva la gestione dei campi profughi alla resistenza palestinese.
Emblematica è la questione della presenza palestinese per la storia del Libano: non solo con tale accordo la classe politica libanese cedeva di fatto parte della sovranità nazionale ad un attore esterno, ma si ritrovò al centro dello scacchiere mediorientale e delle dinamiche regionali; tra influenza egemonica dell’Egitto e conflitto arabo- israeliano.
Un aspetto significativo dell’accordo riguardò la pacificazione dei rapporti tra la resistenza e l’esercito libanese. Nel periodo appena antecedente la presenza di due forze armate distinte sullo stesso territorio portò a violenti combattimenti tra le due fazioni.
La questione dell’esercito fu un fattore di destabilizzazione endogeno al sistema libanese; infatti, aver concesso libertà di azione militare ad un’organizzazione terza, accentuò le debolezze dello Stato centrale. La natura di tale precarietà è da ricercare nella struttura confessionale delle istituzioni; per tutto il periodo mandatario fino agli anni Sessanta, l’esercito rimase supervisionato dai maroniti, in altre parole agiva come forza armata a servizio della comunità al potere. Fu solo con l’arrivo di Chebab come comandante prima, e Presidente della Repubblica dopo, che si iniziò a considerare l’esercito organismo autonomo rispetto al potere centrale. Nei fatti il modello confessionale dello stato continuò ad esercitare un certo grado di influenza sulle forze armate, il cui operato rimase principalmente orientato alla gestione dei dissidi interni e comunitari. Nel caso del Libano, la questione risulta particolarmente paradossale: evidente è la necessità di presenziare lungo i confini esterni e salvaguardare l’integrità territoriale dagli appetiti israeliani, palestinesi e siriani.
A questa criticità si lega un secondo fenomeno fonte, e causa, di debolezza istituzionale: la formazione di milizie armate. La progressiva militarizzazione della società secondo schieramenti partitici e confessionali tentò di sopperire al vuoto lasciato dell’esercito nella difesa dei confini esterni che di fatto divenne l’obiettivo primario delle milizie. È bene chiarire che la formazione di tali gruppi armati più che essere sorretta da una reale volontà di protezione della sovranità nazionale libanese, volle tutelare un sistema clientelare impostato per la soddisfazione degli interessi personali dei leader politici, delle comunità di riferimento e degli alleati regionali.
La situazione fin qui esposta mostra i fattori che presagiscono lo scoppio del conflitto interno.
La guerra civile che infiammò il Libano per quindici anni (1975-1990) non può essere osservata nella sua complessità; pertanto, l’attenzione sarà posta sul ruolo degli attori regionali, e in particolare della Siria. Per farlo è auspicabile inquadrare brevemente la disposizione sul campo delle milizie, così da avere una migliore comprensione delle loro interazioni con l’esterno.
Rosita Di Peri distingue due macro-blocchi: i gruppi interni al sistema e quelli esterni, ergo finanziati da attori non libanesi. Tra i primi sono presenti divisioni interne anche tra medesime confessioni; la destra cristiana, ad esempio, compose il Fronte Libanese composto da tre gruppi separati: le Falangi facenti capo a Pierre Gemayel, leader del partito del Kataib ed ispirate al fascismo europeo, le Tigri di Chamoun e le Brigate Marada di Frangié. Nel versante opposto nacque il Movimento nazionale di stampo progressista e guidato dal leader druso Kamal Jumblatt. Oltre ad essere sostenuto dalla sinistra musulmana, rappresentò parti di popolazione pro-siriana vicine al baathismo e in parte minore cristiani. Infine, per quanto riguarda la comunità sciita, tra le più vessate sul territorio libanese, si formò il movimento di Amal la cui leadership è ancora oggi rappresentata da Nabih Berri.
Il movimento di Hizballah, costola della repubblica iraniana, a differenze delle altre milizie che si formarono in tempi precedenti al conflitto, nacque ufficialmente nel 1985 in seguito all’invasione israeliana. Protagonista indiscusso della vita pubblica libanese, il Partito di Dio, si colloca talvolta a cavallo con il secondo macro-blocco. In quest’ultimo rientra la milizia affiliata a Israele e guidata dal cristiano Saad Haddad sotto il nome di “Esercito del Sud del Libano” (ESL) e le cinque milizie rappresentative dei gruppi di resistenza palestinese.
Riepilogando i fattori di destabilizzazione del Libano, il preludio alla guerra sembra configurarsi come un mosaico di variabili endogene quanto esogene.
Le fragilità del governo centrale nel controllo del territorio e la militarizzazione della società in milizie esacerbarono le divisioni confessionali; la presenza palestinese creò una spirale di interessi da parte di Israele e della Siria, facendo del Libano il teatro degli antagonismi arabo-israeliani. In aggiunta, la crisi economica non fece che allargare la forbice delle disuguaglianze nella popolazione libanese e contribuire all’escalation di tensioni domestiche.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il Libano nel Levante: crocevia di interessi internazionali

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Informazioni tesi

  Autore: Debora Mosso
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione
  Corso: Scienze politiche e delle relazioni internazionali
  Relatore: Filippo Maria Giordano
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 66

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