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Il valore della memoria nelle opere di Edith Bruck e Helena Janeczek

Il significato evocativo del cibo

Leggendo le opere di Helena Janeczek, Edith Bruck e delle vittime del nazismo è possibile rendersi conto che il cibo abbia agito come la petite madaleine presente in uno tre tomi dell’opera proustiana intitolata “Alla ricerca del tempo perduto”. Spesso gli autori analizzati in precedenza parlano di un tempo che hanno perduto, non potuto vivere a pieno o di cui non sanno molto. Ad esempio, Helena Janeczek cerca risposte sul passato della madre ed Edith Bruck in ogni sua opera sembra rincorrere la piccola Dikte che s’aggirava per le vie di Tiszakaràd.
In questo paragrafo verrà messo in rilievo il risvolto che il pane ha avuto nelle vite delle due autrici. Come si evince nell’opera proustiana il ricordo può giungere all’improvviso, portandosi dietro la nostalgia di un mondo che sembra ormai costituire una realtà parallela a quella vissuta quotidianamente. Dunque il ricordo, cristallizzato in qualche meandro dell’anima sofferente delle due autrici, apparentemente inaccessibile, si svela in tutta la sua potenza attraverso un soffice profumo o una briciola di pane.
Nell’opera di Edith Bruck, intitolata “Transit”, il pane compare due volte:

A occhi chiusi, svuotata dal piacere, avvicinai le labbra al pane caldo, umido che profumava di pane e mughetto. Inghiottii un boccone dietro l’altro, senza aprire gli occhi, e mi lasciai prendere da una sonnolenza serena. Riaprendo gli occhi, non capivo né dove ero né il perché […] Allungando una mano verso un pezzo di pane avvolto in un asciugamano da bidè riaffiorò il sogno che aveva fatto la notte precedente: un mare azzurro, sconfinato, con la superficie mossa dove dondolavano delle pagnotte, quelle che informava mia madre, grandi e tonde come la luna. In balia del vento che soffiava a imbuto, e delle onde, le pagnotte si muovevano si scontravano sbattevano l’una con l’altra sempre più forte, sempre più confuse, fino a crepare, a spezzarsi, a disfarsi nell’acqua. In una delle pagnotte, quelle che infornava mia madre che già perdeva i lineamenti e si disfaceva con le altre… Il ricordo del sogno mi chiuse la gola in una morsa; lasciai perdere il pane e mangiai un po’ di yogurt con miele e sonniferi.

Edith Bruck scrivendo “Transit” cerca di osservare il suo vissuto con uno sguardo estraniato, come se volesse allontanare da sé l’enorme peso di essere una delle vittime della Shoah.
Il pane è un elemento che in questo romanzo costituisce l’epifania dei ricordi che non smetteranno mai di riemergere sulla sponda dei traumi vissuti. La rievocazione proustiana del pane non solo riapre vecchie ferite ma riporta l’autrice ungherese ad un periodo doloroso ma da lei considerato aureo: l’infanzia. Nonostante quest’ultima sia stata costellata da povertà, stenti, umiliazioni e privazioni la scrittrice ricorda quegli anni come un tesoro che le è stato portato via a forza. Nelle sue interviste Edith Bruck tende a precisare che i suoi primi carnefici sono stati i gendarmi ungheresi, in seguito i gerarchi nazisti ed infine i Kapò ormai disumanizzati.
La protagonista dell’opera “Transit” rivive il passato come un momento intimo che arriva senza alcun controllo e senza freno. Per rendere ancora più esplicito il valore evocativo del cibo per la scrittrice Edith Bruck, importante è soffermarsi sull’opera intitolata “Il pane perduto”. Poiché in quest’opera si scorge, oltre il meccanismo proustiano simboleggiato dalla petite madeleine, un’evoluzione che rende la madre una figura divina.
Adesso bisogna fare capolino nell’infanzia dell’autrice ungherese:

Mia madre faceva il pane una volta alla settimana, il giovedì, ed era la giornata più allegra della mia infanzia. Lei sospirava soddisfatta vedendo i cinque enormi pani e diceva che ci sarebbe stata un’altra settimana senza pensiero perché quando c’era il pane c’era tutto. Il primo giorno potevamo mangiarne quanto ne volevamo ma poi dovevamo ridurre la razione per arrivare al giovedì successivo. Era difficile mettere insieme tutta quella farina, e non sempre ci riuscivamo.

Dunque dall’infanzia in poi il pane diventa il simbolo di un ricordo cristallizzato inerente ad un momento particolare della vita familiare di Edith Bruck.
Infatti ogni qualvolta una forma di pane si palesa davanti ai suoi occhi la mente della scrittrice ungherese tornerà a quel periodo difficile ma allo stesso tempo etereo.
Continuando a leggere l’opera intitolata “Il pane perduto”, si riscontra un altro episodio che ha reso il pane indimenticabile per la memoria di Edith Bruck:

La buona vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla fine della festa […] Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbe ben lievitate per essere infornate all’alba. La madre era già semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte alla fragile porta […] Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di uscire entro cinque minuti […] ‘Il pane, il pane!’ gridava la madre […] La madre parlava delle pagnotte da infornare mentre buttava alla rinfusa dei vestiti nell’unica valigia e nei sacchi […] La madre ripeteva “il pane, il pane”, come se volesse salutare le pagnotte e difenderle, e persino controllarne la lievitazione […] ‘Dio, Dio, pane, pane!’ invocava ancora la mamma sul treno nel caos più totale dai gendarmi e da giovani croce frecciate […] La mamma continuava a invocare i figli lontani e pensava alle cinque pagnotte già troppo cresciute e crollate su stessa.

Rileggendo questo passo è inevitabile notare l’uso della terza persona da parte di Edith Bruck. L’avvenimento della cattura e il successivo allontanamento della madre ha così scosso la piccole Dikte che l’ormai adulta Edith Bruck non può fare a meno di prendere le distanze da quei ricordi sanguinosi. Dunque ho compreso che il passato della scrittrice ungherese diventa presente grazie ad un semplice profumo. Quest’ultimo come la petite madaleine libera il ricordo dal suo nascondiglio, spezzando la dicotomia tra il passato e il presente, coinvolgendo tutti gli eventi in unico lasso temporale.
Il distacco dalla madre sarà soltanto fisico, perché si tramuterà in una presenza spirituale molto forte durante tutta la vita della scrittrice ungherese. Infatti la madre, per Edith Bruck, da donna devota si eleva ad una trasfigurazione umana di quel Dio a cui tanto è stata fedele. Leggendo tutte le opere della scrittrice ungherese è possibile rendersi conto come più volte confonda la madre con Dio.
Questa particolare associazione è presente in moltissime opere scritte da Edith Bruck, ma vorrei soffermarmi soltanto sui riferimenti presenti nelle opere intitolate “Privato” e “Il pane perduto”.

Proprio in quest’ultima opera la scrittrice ungherese dedica un intero capitolo a questa tematica:

Mi chiedo da sempre, e non ho ancora risposta, a che servono le preghiere se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non vedi o se sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile, o sei Tu che inventato Te stesso? Io, che ho sempre scritto d’un fiato giorno dopo giorno, ora improvvisamente mi fermo con la mano sospesa e lo sguardo fisso nel vuoto, è nel vuoto che Ti cerco […] Ogni sera penso: Dio esiste? Dio mi ama? In fondo in qualche maniera mi sono sempre salvata… o forse è mia madre che mi salva?

Le preghiere a cui fa riferimento Edith Bruck sono quelle pronunciate dalla madre durante l’arco dell’infanzia ungherese. La devota madre si rivolgeva a Dio per ogni singolo bisogno della famiglia, invocava protezione per le persone a cui teneva di più e non ha perso mai la fede nonostante le avverse circostanze. Dopo aver perso quasi tutti i componenti della famiglia, dopo aver vissuto dei mesi infernali nei campi di concentramento in cui Dio non ha mai risposto alle richieste degli internati, Edith Bruck si interroga sul valore di queste preghiere.
Nonostante questo scetticismo nei confronti di colui che non deve essere rappresentato ma che prende forma nelle pergamene della Torah, rimane un interlocutore privilegiato ed una presenza intangibile che avvicina Edith Bruck alla sua madre bruciata. Quest’ultima per la scrittrice ungherese è l’unica ragione della sua sopravvivenza. Come se la madre, ascendendo al cielo dopo essere fuoriuscita dalle canne fumarie delle camere a gas, avesse acquisito un poter salvifico ben più potente di quello convenzionalmente attribuito a Dio.
Nel romanzo intitolato “Privato” la madre viene identificata con la fede e la scrittrice Edith Bruck le dedica queste parole:

Io stessa sono la mia Mengele! Non so mamma, perché vivo proprio io e non tu che avresti pregato per tutti? Per me tu eri la fede, tu non ci sei, io mi difendo da ogni immagine che mi ricorda la fede, quindi da te. A Pasqua non volevo vedere nemmeno il pane azzimo, perché eri tu quel sottile foglio croccante. Adesso devo avere il pane azzimo a Pasqua ma lo mangio mischiato al pane lievitato, al prosciutti, mamma! Andrò all’inferno, vero? ‘Si?’ rispondi calma convinta che devo pagare per i propri peccati!

La scrittrice Edith Bruck ha fatto emergere con queste parole la pregnanza della fede presente nella sua vita.
Attraverso la citazione appena fatta si evince che la fede per Edith Bruck è qualcosa di così intrinseco che non può avere le caratteristiche di un credo religioso in particolare. Da molte interviste in cui la scrittrice è protagonista, si comprende che il suo credo religioso ha una maggior componente spirituale. La madre si eleva al grado d’una divinità che durante l’infanzia, seppur non assecondando la sete d’affetto della piccola Dikte, ha corrisposto ad ogni sua domanda. Non è stata sorda alle sue invocazioni come Dio per tanti internati nei campi nazisti. Dopo essere stata strappata al mondo terreno la madre di Edith Bruck sboccia e fa percepire la sua essenza in ogni simbolo religioso. Ma allo stesso tempo diventa la più severa detentrice della morale che redarguisce la figlia per ogni suo sbaglio.
Nell’opera intitolata “Privato”, nella parte finale, quando Edith Bruck si rivolge direttamente a Dio la presenza della madre è inevitabile quanto necessaria:

Ho la testa che mi gira. Ho la sensazione di essere su un’altalena sbilanciata, da sola. Sto per cadere, siedi mamma, dall’altra parte. Per una volta tu obbedisci a me. Giochiamo un po’. Per una volta. Per la prima volta […] Il Qaddish è tuo, su, dammi una spinta. Su e giù, su e giù, più forte, più in alto, forte forte, più vicino a Dio mamma! Più vicino! Voglio che senta anche Lui il mio Qaddish […] Sia magnificato e santificato il Suo grande nome, nel mondo che Egli ha creato conforme alla sua volontà, venga il Suo Regno durante la nostra vita, la vostra esistenza e quella di tutto il popolo d’Israele, presto e nel più breve tempo, amen…’

Invece per Helena Janeczek il valore evocativo del cibo non ascende a qualcosa di divino ma piuttosto si avvicina pagina dopo pagina, opera dopo opera, svelare i quesiti che la scrittrice monacense si è posta ininterrottamente.
Per capire il valore del cibo per Helena Janeczek, bisogna tornare indietro, sino al periodo natale che ha condizionato il corso di tutta la sua esistenza. La mia riflessione partirà con le prime pagine dell’opera intitolata “Lezioni di tenebra”:

Io, già da un pezzo, vorrei sapere un’altra cosa. Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze o esperienze non con il latte materno, ma ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre non l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame di morti di fame, che lei non ha più. Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica si scatena davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo, buono, cattivo, fresco, gommoso secco. Arrivo persino ad azzannare tozzi di pane duro, non ne butto nemmeno un po’ raccatto le briciole dalla tovaglia per mangiarle.

Questi versi rappresentano un’apripista all’esegesi delle opere scritte da Helena Janeczek. La scrittrice è frutto d’amore ma anche sofferenza dei genitori, in particolare per la madre sopravvissuta ad atroci sevizie operate dai nazisti. Quest’ultima è stata consumata da molti problemi di salute tra cui l’anoressia e la difficoltà a portare a termine le gravidanze.
Procedendo nella lettura dell’opera intitolata “Lezioni di tenebra” si evince come la madre, dopo anni dalla deportazione e internamento nei campi di concentramento, abbia iniziato a mangiare con la testa a differenza della scrittrice monacense. Quest’ultima ha con il cibo un rapporto ossessivo che sfocia in una bulimia nervosa. All’inizio del romanzo sopracitato Helena Janeczek si chiede se quest’ossessione abbia avuto origine proprio dalla mancanza di quel cibo che gran parte delle mamme danno ai loro bambini ancora in fasce, ovvero il latte.
Dunque gli interrogativi posti dalla scrittrice monacense vertono su tali temi: la fame da morta di fame sofferta dalla madre la guerra è giunta fino a lei? Questo fantomatico transfert è il mezzo attraverso cui sua madre ha potuto riacquistare se stessa ai tempi antecedenti alla guerra? Le risposte a tali domande rimangono sospese nelle sue pagine ed implicitamente rivolte ad ogni singolo lettore.
Una delle lezioni che la madre ha impartito ad Helena Janeczek è la sacralità del pane:

Me l’ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo di pane, lo raccoglie e lo mette da qualche altra parte più in alto, non per lasciarlo lì, per terra. Ho imparato fin troppo bene la lezione forse sta tutto qui. Mia mamma da piccola non era un mangiona, non le piaceva mai niente […] Diche che quella sua inappetenza gliel’ha curata soltanto la guerra e riscuote gli sguardi complici di chi appartiene alla sua generazione e ricorda l’eroismo della fame. Non dice di quale fame ha sofferto e che molti sono i significati della frase ‘non c’era niente da mangiare’. Non dice che per puro caso o miracolo non è morta di fame o, più probabilmente, morta ammazzata per astenia da denutrimento, ammazzata col gas.

Leggendo l’opera intitolata “Lezioni di tenebra” si nota la difficoltà della scrittrice monacense nel conciliare nell’immagine della madre che crede alla santità del pane e allo stesso tempo la sua capacità di criticarla ogni qualvolta si avvicina al cibo. Sembra che quest’ultimo svolga due azioni opposte: quella negativa che porta la scrittrice monacense alla bulimia nervosa; quella positiva nel tentare di ricompensare, attraverso l’eccesso del cibo, la fame che ha attanagliato la madre durante il secondo conflitto mondiale.
Dunque madre e figlia sono distanziate da un divario anagrafico, dall’appartenenza ad una diversa generazione di testimoni della memoria e di conseguenza da un profondo disequilibrio delle esperienze traumatiche vissute durante il corso della propria vita. Si farà luce sulle differenze che allontanano coloro che militano nelle file della prima e seconda generazioni di testimoni nel paragrafo successivo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il valore della memoria nelle opere di Edith Bruck e Helena Janeczek

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Informazioni tesi

  Autore: Carmen Maria Cirami
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filologia moderna
  Relatore: Franca Sinopoli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 167

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