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Riflessioni sugli aspetti clinico-giuridici dei soggetti con disturbo psicopatico, tra cambiamenti gestionali e prospettive trattamentali

Imputabilità dei soggetti psicopatici

Stabilita la stretta relazione tra criminalità, violenza e psicopatia, e le modalità con cui evidenziare le sue caratteristiche nucleari, vediamo ora quali sono i possibili scenari per i percorsi dei soggetti psicopatici autori di reato.
In Italia il sistema giuridico penale persegue sostanzialmente due obiettivi: evitare che un reato venga compiuto, mediante la minaccia della pena, e rieducare quanti l'abbiano commesso. Il primo scopo si estrinseca nella prevenzione generale; a questa si affianca la prevenzione speciale, ossia quell'insieme di meccanismi e strumenti che lo Stato propone al singolo cittadino per riabilitarlo alla società. A tal proposito, il nostro ordinamento distingue due categorie di sanzioni: le pene, ancorate alla colpevolezza per il fatto di reato e commisurate alla gravità di quest'ultimo, e le misure di sicurezza, incentrate sulla pericolosità sociale dell'autore del reato. Un sistema così congegnato si esprime nella logica del cosiddetto “doppio binario” che si fonda sul concetto di imputabilità del reo.

Le norme sull'imputabilità degli autori di reato, e sui concetti correlati di “capacità di intendere e di volere” e di “vizio parziale o totale di mente”, sono regolate, in particolare, dagli articoli 85, 88, 89 e 90 del Codice Penale (CP). L'articolo 85 del CP stabilisce che «è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere»; se, pertanto, il soggetto reo o presunto tale presenta un'infermità tale da comportare l'abolizione completa della capacità di intendere o di quella di volere, allora si realizza il “vizio totale di mente” ed il soggetto non è imputabile (art. 88 del CP). Se l'infermità è invece tale da far sì che la capacità di intendere o quella di volere del presunto reo nel momento in cui è stato commesso il fatto-reato siano “grandemente” scemate, ma non completamente assenti, si realizza il cosiddetto “vizio parziale di mente” (art. 89 del CP): in questa situazione il soggetto è imputabile, ma in caso di condanna la pena può essere ridotta in varia misura (normalmente di un terzo). Se il grado di interferenza dell'eventuale infermità sulla capacità di intendere o di quella di volere è minimo, per cui né l'una né l'altra risultano compromesse in modo significativo, allora l'imputabilità del presunto reo rimane piena.

L'articolo 90 del CP, infine, afferma che «gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità».
Storicamente, sulla base di queste disposizioni legislative si è attribuita nel nostro sistema penale una rilevanza giuridica essenzialmente alle sole patologie di tipo psicotico, a cui veniva univocamente ricondotto il concetto di “infermità mentale”.
Inoltre si tendeva a stabilire la piena imputabilità del reo in presenza di disturbi ricompresi nell'ambito delle cosiddette “psicopatie” o personalità antisociali. Varie sentenze della Corte di Cassazione, emesse soprattutto tra gli anni 1977 e 1979, affermavano che gli “psicopatici” andrebbero ritenuti pienamente imputabili dal momento che si parla, per costoro, di personalità “deviata” e non “malata”; essi sarebbero stati semplicemente degli “anormali del carattere” e secondo queste sentenze tale “anormalità” non implicherebbe automaticamente la perdita, nemmeno parziale, della capacità di intendere e di volere [57].
affermavano che gli “psicopatici” andrebbero ritenuti pienamente imputabili dal momento che si parla, per costoro, di personalità “deviata” e non “malata”; essi sarebbero stati semplicemente degli “anormali del carattere” e secondo queste sentenze tale “anormalità” non implicherebbe automaticamente la perdita, nemmeno parziale, della capacità di intendere e di volere [57].
Negli anni, le indagini scientifiche hanno però messo in discussione l'unitarietà della classica categoria nosologica delle psicopatie. Ad esempio, in uno studio del 1974 [40] Bergeret ha sottolineato come una parte delle psicopatie sia riconducibile alla categoria delle personalità paranoiche (e quindi psicotiche); ha poi raggruppato le organizzazioni di personalità non nevrotiche né psicotiche nel gruppo dei cosiddetti “stati limite”, denominate da altri autori, soprattutto di matrice anglosassone, anche come sindromi “borderline”, in termini di struttura psichica e non di criteri diagnostici descrittivi.

Quest'ultimo termine non deve essere confuso con il disturbo borderline di personalità specificatamente descritto nei manuali diagnostici, come il DSM-5, ma va inteso come uno dei livelli di organizzazione della personalità. A tale proposito, risulta utile ricordare come Kernberg [47,48,58,59] abbia introdotto un approccio bidimensionale alla comprensione sistematica del carattere e dell'organizzazione di personalità, individuando tre livelli di cui quello “borderline” risulta intermedio. Su una prima dimensione ci sono i diversi aspetti caratterologici (dipendenza, isteria, narcisismo, masochismo, infantilismo, ossessività). Sulla seconda sono presenti i tre livelli di organizzazione della personalità: nevrotico, borderline e psicotico. Il costrutto ipotetico di Kernberg prevede che ogni tratto caratterologico possa articolarsi su uno specifico livello organizzativo e costituirsi con un certo tipo di integrazione d'identità, di organizzazione difensiva e di esame di realtà. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Riflessioni sugli aspetti clinico-giuridici dei soggetti con disturbo psicopatico, tra cambiamenti gestionali e prospettive trattamentali

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Informazioni tesi

  Autore: Donato Morena
  Tipo: Tesi di Master
Master in Master Universitario di II livello in Criminologia Clinica e Scienze Forensi A.A. 2018/2019,
Anno: 2019
Docente/Relatore: Vincenzo Caretti
Istituito da: Libera Univ. degli Studi Maria SS.Assunta-(LUMSA) di Roma
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 30

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Parole chiave

psicologia
giurisprudenza
psicopatia
carcere
riabilitazione
medicina
pericolosità sociale
disturbo antisociale
trattanento
disturbo psiicopatico

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