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Tatuaggio e Shoah: Un'identità segnata

L’evoluzione del tatuaggio nei campi di concentramento nazisti

Molti dei sopravvissuti alla Shoah – malgrado siano pochi ormai i custodi della memoria rimasti in vita – detengono ancora vivo il ricordo di tale orrore sulla propria pelle.
Il tatuaggio era infatti una delle pratiche più disumanizzanti e brutali cui erano sottoposti i deportati durante il processo di registrazione al campo di concentramento. Eppure, nonostante fosse certo che i nazisti marchiavano sistematicamente i detenuti, non sono mai stati rinvenuti documenti d’epoca ufficiali concernenti questa pratica, e ciò che si sa attualmente deriva dai pochi registri trovati nei lager o da testimonianze dirette dei pochi superstiti.
Sebbene sia una convinzione collettiva credere che la pratica del tatuaggio venisse impiegata in tutti i campi di concentramento nazisti, in realtà vi era un solo luogo in cui venne istituito un metodo di identificazione tanto spregevole quanto disumano: il complesso del campo di concentramento di Auschwitz, che includeva altri due sottocampi (Auschwitz-Birkenau e Monowitz), era infatti l’unico luogo in cui i nazisti tatuavano sistematicamente i prigionieri, perforando la loro carne con un numero di matricola che li avrebbe spogliati per sempre dalla loro identità, diventando così semplici numeri.
Häftling: ho imparato che io sono un Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro”, così scriveva l’autore torinese Primo Levi.
Il tatuaggio nei campi di concertamento nazisti possedeva diverse funzioni: doveva contrassegnare e disumanizzare i prigionieri, ostacolare la loro evasione, e consentire l’identificazione dei cadaveri una volta spogliati dalle loro uniformi carcerarie.
Inizialmente, i numeri di matricola che venivano assegnati ai detenuti al fine della loro identificazione, non erano impressi sulla loro pelle, ma cuciti sulle uniformi, spesso affiancati da altri simboli o forme che denotavano lo status, la nazionalità, l’orientamento sessuale o la religione del detenuto.

Come ha spiegato il dottor Piotr Setkiewicz, direttore del centro di ricerca presso il Museo statale di Auschwitz-Birkenau, il numero di matricola era l'ultimo tassello nel brutale processo di registrazione. Solo i deportati che avevano il "privilegio" di accedere al campo venivano identificati tramite i numeri di serie, mentre gli altri, non ritenuti abili al lavoro, non venivano registrati poiché destinati subito alla morte, riversati direttamente alle camere a gas.
La sequenza in base alla quale venivano attribuiti i numeri di serie seguiva rigidi standard; tuttavia, subì diversi cambiamenti nel corso del tempo, anche a causa delle nuove categorie di deportati che giungevano ad Auschwitz.
Lo schema di numerazione era suddiviso in serie “normali” e serie dedicate a diverse tipologie di detenuti. La serie iniziale “regolare” era costituita da una serie numerica consecutiva che, dal maggio 1940 fino al gennaio 1945, veniva utilizzata per identificare gli ebrei, i polacchi, e tutti i detenuti di sesso maschile del campo. Con il progressivo arrivo ad Auschwitz di nuove categorie di prigionieri, lo schema di numerazione si fece più complesso e seguirono diverse modifiche, introducendo anche le sigle “AU, Z, EH, A e B”, che venivano poste davanti al numero di serie. In particolare, la sigla “AU” indicava i prigionieri di guerra sovietici; la lettera “Z” identificava i Rom (iniziale della parola “Ziguener”, che in tedesco significa “zingaro”), mentre la serie “EH” apparteneva ai deportati sottoposti al periodo di “rieducazione”. Questi erano prigionieri incolpati di lavorare in maniera insoddisfacente o che non avevano rispettato la dura disciplina imposta nelle zone occupate dai nazisti, e venivano per questo trasferiti nei campi di concentramento o in particolari “campi di educazione al lavoro" per una durata massima di cinquantasei giorni.
Alle donne non vennero attribuiti i numeri della stessa serie degli uomini: l’arrivo al campo delle prime detenute, nel marzo 1942, condusse all’introduzione di una nuova serie “regolare” dedicata esclusivamente alle prigioniere di sesso femminile, una serie analoga a quella dei deportatati uomini, ma che era costituita da una nuova sequenza di numeri.
A partire dal maggio 1944, al fine di evitare un’assegnazione di numeri eccessivamente alti della serie “regolare”, vennero create le serie “A” e “B”.
I numeri di queste serie venivano assegnati a tutti i prigionieri ebrei, a cominciare prima dagli uomini e poi dalle donne; inoltre, ogni nuova serie veniva preceduta dal numero “1”.
Nonostante vi fossero molteplici differenze nell’assegnazione dei numeri di matricola, ognuno di essi denotava caratteristiche specifiche dei prigionieri: “ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca dell’ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità”.

La pratica del tatuaggio venne introdotta ad Auschwitz nell’inverno del 1941, quando iniziarono ad arrivare al campo i prigionieri di guerra sovietici, contro cui si accanirono con particolare brutalità le SS: a causa delle pessime condizioni cui erano sottoposti, su circa 10.000 internati, la maggior parte morì di stenti dopo pochi mesi.
Con l’aumento esponenziale dei deportati che man mano giungevano al campo, vi era un alto tasso di mortalità, e stava diventando ormai difficile per i nazisti identificare tutti i cadaveri; per di più, era usanza rimuovere le uniformi carcerarie dai corpi senza vita, rendendo quindi impossibile il loro riconoscimento una volta spogliati.
Era chiaro che una soluzione andava trovata: i nazisti introdussero così il metodo di identificazione più crudele e disumano della storia contemporanea, una pratica che marchiava esseri umani come bestiame, che privava le persone di una propria identità, “battezzandole” con un nuovo nome che avrebbero dovuto imparare e scandire a memoria ad ogni appello.

Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua testimonianza. [P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1991 [1986], Torino, p. 89.]

Il primo metodo utilizzato per tatuare i prigionieri consisteva nell’utilizzo di un timbro metallico, munito di aghi intercambiabili lunghi pochi millimetri che costituivano cifre specifiche.
Ciò consentiva di fissare l’intero numero di serie in un colpo solo, in quanto la placca veniva impressa nella carne del detenuto sul lato sinistro del petto, mentre l’inchiostro indelebile veniva strofinato sopra la ferita sanguinante per far penetrare il colore, che poteva essere di colore blu o nero.
A partire dal marzo del 1942, i membri delle SS iniziarono a marchiare in modo sistematico tutti gli ebrei che giungevano ad Auschwitz, che in breve tempo divennero il gruppo predominante tra i prigionieri del campo.
Sottoposti a questo brutale processo di registrazione erano anche i prigionieri politici polacchi, molti dei quali erano malati, che dall’infermeria di Auschwitz venivano trasferiti a Birkenau, in attesa di essere giustiziati.
Dalla primavera dello stesso anno, quando i nazisti si resero conto che l’utilizzo del timbro metallico stava diventando un sistema molto impegnativo e poco pratico, il metodo di esecuzione del tatuaggio cambiò e con esso anche la zona tatuata: il marchio indelebile doveva essere ora impresso sull’avambraccio sinistro, mentre la placca metallica venne sostituita da un dispositivo a due aghi di diversa lunghezza, che venivano imbevuti nell’inchiostro e fissati a un’asta di legno.
Ma fu solo all’inizio del 1943, su ordine del comandante del campo di Auschwitz Rudolf Höss, che la pratica del tatuaggio venne estesa sistematicamente alla maggior parte dei deportati, marchiando sia i nuovi arrivati che quelli già registrati. Tuttavia, erano molte le categorie esentate dalla pratica del tatuaggio: non si applicava ai detenuti tedeschi, ai prigionieri inviati per la “rieducazione” e ai prigionieri della polizia (internati di Auschwitz in attesa di un verdetto dal tribunale, che spesso si traduceva nella fucilazione a morte).
Altre eccezioni riguardavano i civili polacchi deportati ad Auschwitz in seguito alla Rivolta di Varsavia del 1944, ma anche alcuni ebrei trattenuti in transito nel campo in attesa di essere trasferiti in altri lager controllati dal Reich.
Sebbene non possa essere confermato con assoluta certezza, si stima che furono circa 400.000 le persone registrate e ridotte ad un numero ad Auschwitz-Birkenau.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Tatuaggio e Shoah: Un'identità segnata

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Informazioni tesi

  Autore: Michael Santini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2021-22
  Università: Università degli Studi di Bergamo
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Media e cultura
  Relatore: Valentina Pisanty
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 55

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