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Il lavoro tra Costituzione Italiana e Trattati Europei

L'attività della Corte Costituzionale

Dopo aver esposto le visioni interpretative degli articoli della Costituzione che si sono esaminati in precedenza, si ritiene opportuno mettere sotto controllo anche l’attività della Corte Costituzionale perché si tratta proprio dell’organo principale che è depositario del dovere di controllare se le leggi approvate dal Parlamento sono in contrasto oppure sono in linea con i Principi Costituzionali.
La prima sentenza che si intende portare a discussione in questo lavoro è la sentenza n. 63 del 1966.

La Corte Costituzionale in questa sentenza prende posizione su una questione che le era stata rivolta dal Tribunale di Ancona per quanto riguardavano gli articoli 2948 n.4, 2955 n. 2, e 2956 n.1 del Codice Civile e quindi entrando nella materia delle prescrizioni e più specificatamente delle prescrizioni del diritto alla retribuzione del lavoratore.
La questione di legittimità era stata rimessa alla Corte richiamando l’art.36 della Costituzione e più precisamente indicando che il “diritto alla retribuzione sufficiente” in realtà fosse un diritto della personalità e quindi per sua natura indisponibile, opponibile erga omnes e imprescrittibile e che per questo le norme del Codice Civile richiamate che sottopongono la retribuzione del lavoratore a prescrizione presuntiva o sostanziale, fossero incostituzionali.

La Corte interrogata su questo punto fa due ragionamenti distinti ma collegati: in primo luogo dichiara che il diritto alla prestazione salariale, sebbene irrinunciabile, non può definirsi indisponibile, infatti nell'art. 36 la Corte non ravvisa nessun principio costituzionale che vada in questo senso, e quindi l'irrinunciabilità di tale diritto ha una portata meno ampia dell'indisponibilità. Per questi motivi quindi la Corte sancisce l'irricevibilità di questa ricostruzione anche laddove la si cercava di far risalire ancorandola agli art. 3 e 4 Cost.
In secondo luogo la Corte specifica che il regime della prescrizione, in virtù della copertura costituzionale che ha la tutela del lavoro e del salario, non può essere proprio identico a quanto stabilito dal Codice Civile. Infatti se così fosse e i termini per la prescrizione scattassero in pendenza del rapporto di lavoro, la paura del licenziamento ingenererebbe nel lavoratore quella condizione psicologica che gli impedirebbe di far valere quel diritto e quindi vanificherebbe quello che l'art. 36 vorrebbe tutelare.
In questo senso la Corte dichiara incostituzionali gli articoli del Codice Civile laddove fanno decorrere i termini di prescrizione del diritto alla prestazione salariale in pendenza del rapporto di lavoro.
In questa sentenza appare molto chiara come la posizione del datore di lavoro (parte contraente forte) e del lavoratore (parte contraente debole) non vengono messe sullo stesso piano ma come il massimo organo di garanzia del nostro ordinamento interviene per compensare quella forza contrattuale che nel singolo rapporto di lavoro il lavoratore non può avere.
La seconda sentenza che si vuole portare a discussione per quel che riguarda l'attività di intervento della Corte Costituzionale ai fini di una tutela del lavoratore contro le pretese del datore di lavoro in linea con i precetti costituzionali, è la sentenza n. 248 del 1986.
Nelle ordinanze rimesse alla Corte, si disquisiva del diritto ai datori di lavoro di poter scegliere i lavoratori che più ritenevano confacenti alle proprie esigenze e quindi lamentavano l'incostituzionalità della norma che li obbligava ad accettare lavoratori che venivano selezionati nelle graduatorie degli uffici di collocamento salvo particolari eccezioni che la legge riconosceva; in virtù di queste eccezioni si lamentava il fatto che ci fosse un'indebita discriminazione tra i lavoratori stessi, tra chi ricadeva nella prima ipotesi e chi ricadeva nella seconda; infine si sottolineava l'incompatibilità tra l'obbligo per il lavoratore a iscriversi alle liste di un solo comune e la libertà di soggiorno e di movimento delle persone nel territorio nazionale.
«La Corte rileva, anzitutto, che il collocamento dei lavoratori nei posti di lavoro, istituito con la legge n. 264/49 che si ricollega alle convenzioni internazionali dell'epoca, è funzione pubblica esercitata dallo Stato a mezzo dei suoi appositi organi
Quindi «L'ingerenza dello Stato nella fase di formazione del rapporto di lavoro, anche se importa compressione di alcuni aspetti dell'autonomia privata, si giustifica anche per il rilevante interesse pubblico all'occupazione ed al controllo della domanda e dell'offerta di lavoro, per le scelte di indirizzi di politica economica collegate strettamente al processo produttivo di cui sono elementi essenziali le forze del lavoro
In questo caso la Corte riconosce che le leggi in questione vanno ad intervenire nella libertà di contrattazione dei privati ma giustifica l'intervento con la grande importanza che ha l'occupazione per l'economia del paese e quindi, ricalcando un po' i limiti e i controlli di cui si è parlato sopra, riconosce la legittimità di tali limitazioni ben consapevole del fatto che comunque la disciplina del collocamento è in evoluzione, come poi avverrà, fino ai giorni nostri dove si è approdati a una disciplina completamente diversa da quella che si aveva negli anni in cui tale sentenza è stata emessa.
Al di là dell'attualità dell'impianto normativo di cui si occupa questa pronuncia, ai fini del presente lavoro serve solo sottolineare come la Corte operi sempre e comunque un favor verso i lavoratori (parte contraente debole) e legittimi gli interventi che vengono posti alla limitazione della libertà dei privati, libertà che se lasciata senza minimi controlli significherebbe prevaricazione del più forte contro il più debole.
In questo senso vanno anche altre sentenze, che risultano rilevanti in quanto vanno a incidere sulla questione spinosa del diritto allo sciopero.

Queste sentenze partono dal presupposto che la disciplina che era in vigore in quegli anni era ancora incentrata sulle disposizioni che risultavano dalla legislazione del regime fascista che andava verso una visione nella quale veniva considerato il diritto allo sciopero un reato e quindi condannato da alcune disposizioni del Codice Penale che soltanto parecchi decenni dopo cominciano a finire sotto il sindacato della Corte Costituzionale a riprova della difficoltà e della lentezza che la nostra Carta Costituzionale ha avuto nella sua attuazione.
La prima che si vuole portare all'attenzione ha come oggetto l'ordinanza di rimessione nella quale si lamenta che il reato di Serrata, ex art.502 c.p. sarebbe lesivo dei diritti spettanti al datore di lavoro in aperto contrasto con gli art. 39, 40 e 41 della Costituzione.
La Corte rileva che parlando della Serrata si va verso un campo dove la Costituzione di fatto è silente, mentre prevede espressamente tutela per lo sciopero nell'art.40 che si è esaminato in precedenza. Balza solo in rilievo una sentenza della Corte di Cassazione del 1953 dove la Serrata viene considerata un atto penalmente lecito ma non esercizio di un diritto.
La prima cosa che fa la Corte è quella di ancorare tale questione intorno all'art.40 che parla del diritto di sciopero e di non ricomprenderla negli art.39 e 41, sganciandola quindi dal novero dei diritti di libertà di associazione sindacale e di libertà di iniziativa economica.
La cosa che colpisce dell'art.40 è il silenzio sulla Serrata e tutto quello che ne consegue come si è esaminato in precedenza.
Alla fine di ciò anche qui si può benissimo vedere come la Corte, interpretando in maniera corretta la Costituzione, rileva come diritto lo sciopero (azione di autotutela dei lavoratori – parte contraente debole) e riconosce la Serrata (azione di autotutela dei datori di lavoro – parte contraente forte) una libertà penalmente lecita, cioè esclude che tale comportamento possa configurare un reato, ma ha un'importanza inferiore rispetto allo sciopero.
Nelle altre due sentenze prese in considerazione la Corte va ad intervenire sempre nel codice penale sancendo l'illegittimità costituzionale del reato di sciopero politico, e l'illegittimità costituzionale del reato di sciopero considerato come coazione della pubblica autorità (azione attraverso la quale i lavoratori fanno pressione sugli organi costituzionali per ottenere leggi a loro favore).
Anche in questo caso la Corte mette in rilievo l'importanza del diritto di sciopero e la sua preponderanza nell'ordinamento, sancendo come limiti a tale diritto soltanto quei diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati.
[…]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il lavoro tra Costituzione Italiana e Trattati Europei

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Informazioni tesi

  Autore: Gabriele Marcozzi
  Tipo: Laurea magistrale a ciclo unico
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Macerata
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Giovanni di Cosimo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 123

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