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Diritto penale canonico e abusi sessuali nella Chiesa cattolica

La fase applicativa della pena canonica

Ogni fattispecie normativa di natura penale, affinchè sia autenticamente efficace necessita, a seguito dell’atto logico di sussunzione in essa di un fatto giuridicamente rilevante, di avere «[…] un momento opportuno che permetta alla pena di essere applicata e che, quindi, incida sulla coscienza del reo e sul rapporto di quest’ultimo con la comunità e con la Chiesa […]»: proprio questo momento è il banco di prova per l’effettivo confronto tra le esigenze del reo e della vittima, da un lato, e quelle dell’autorità predisposta per la sanzione, dall’altro.

Questo dinamismo è riscontrabile sia nell’ordinamento canonico che negli ordinamenti secolari, con delle specificazioni: se, come visto, l’utilizzo della pena in ambito canonico è subordinato all’inefficace tentativo di esperire rimedi non penali (la c.d. primazia dell’azione pastorale), nell’ordinamento secolare italiano la sanzione penale deve necessariamente essere umana e mirare alla rieducazione del reo (i.e. risocializzazione) senza violare gli umani diritti ed essere d’ostacolo allo sviluppo della persona umana; quindi anche nel nostro sistema giuridico la pena è contemplata come extrema ratio «[…] che appare ragionevole solo allorché il contenuto complessivo di disvalore del fatto, alla luce di tutte le sue componenti, risulti sufficiente per giustificare l’impiego di una tale, così grave sanzione e non sia possibile ricorrere ad altra tecnica di tutela con risultati appaganti».

Il CIC vigente delinea un iter di due momenti salienti riguardanti la pena, oltre alla sua applicazione:
1) la fase costitutiva, cioè come sorge la pena e
2) la fase estintiva, cioè la sua cessazione.

In merito alla fase applicativa, oggetto del presente paragrafo, è utile richiamare nuovamente, con brevi accenni, le due tipologie di poenae presenti nell’ordinamento penale canonico: quelle latae sententiae, la cui inflizione è dal legislatore stesso prevista al momento e per il solo fatto di aver commesso il delitto, che possono solamente essere dichiarate; quelle ferendae sententiae, la cui inflizione passa necessariamente per un procedimento di natura giudiziale o amministrativa.

Mentre la via giudiziale è esperibile senza alcuna limitazione, l’utilizzo della «via» amministrativa è subordinato sia al sussistere di una generica condizione consistente nella presenza di «quoties iustae causae» non esplicitate nel Codex e, quindi, da ritenersi rientranti «[…] nella discrezionalità in via extra-iudiciale, cioè in maniera amministrativa […]»; sia ad alcuni divieti espressamente stabiliti ex lege riguardanti l’inflizione di pene perpetue e di pene sottoposte al divieto di inflizione o dichiarazione ex via administrativa.

Abbiamo fatto riferimento ai principi di discrezionalità (non arbitrarietà) e pastoralità nell’applicazione della pena: con il primo lemma intendiamo riferirci oltre che alle valutazioni di merito che l’autorità ecclesiastica deve affettuare al fine di stabilire se strumenti non strettamente penali come la correzione fraterna, la riprensione, l’ammonizione od altre vie dettate dalla sollecitudine pastorale siano adottabili in luogo della pena canonica, anche alla discrezionale valutazione sul procedimento da introdurre e quindi anche sulla sussistenza di iustae cause legittimanti l’eventuale avvio di una procedura extragiudiziale la quale, nonostante da più parti se ne auspicasse la cancellazione in favore dell’inflizione o dichiarazione delle pene solo per via giudiziale, è stata conservata nel Codex per evitare che «[…] nelle more del processo giudiziario possano seguire danni alle anime […]».

Per quanto attiene alla pastoralità dell’agire ecclesiale (da non confondere con l’impunità del delinquens), essa deriva direttamente dal fine supremo della salus aeterna animarum la quale semper esse debet suprema lex (cfr. can. 1752 CIC) ed è nell’esercizio «[…] della virtù della giustizia, della carità, della temperanza, dell’umanità e della moderazione […]» che essa si concretizza e contempera il principio di discrezionalità, andandosi ad inserirsi nella più ampia cornice dell’aequitas canonica: questa continua interazione fra pastoralità e discrezionalità impedisce che la ricchezza di quest’ultima possa essere sprecata «[…] travisandola e piegandola a biechi interessi da parte dell’autorità competente […]».

Coloro che assumono posizione attiva nell’applicazione della pena sono: l’Ordinario, il giudice ed il promotore di giustizia. Mentre l’Ordinario (ad esso, successivamente, in relazione ai delicta graviora, verrà affiancata la figura del Gerarca e di coloro che ad essi sono equiparabili) ha il compito di avviare il procedimento penale (giudiziale od extragiudiziale), a seguito di una cauta praevia investigatio, qualora non ricorrano le condizioni di cui al can. 1341 CIC 1983; il giudice «deve svolgere il proprio ufficio in base a quanto stabilito dalle norme relative ai giudizi in genere ed ai giudizi contenziosi ordinari che trovano, in gran parte, applicazione anche per i processi penali […]»; il promotore di giustizia invece, che è titolare dell’azione penale ed attore nel procedimento penale (cfr. 1721 CIC 1983), corrisponde al pubblico ministero nell’ordinamento dello Stato Italiano il quale è obbligato all’esercizio dell’azione penale qualora riceva una notizia di avvenuto delitto. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Diritto penale canonico e abusi sessuali nella Chiesa cattolica

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Petralia
  Tipo: Laurea magistrale a ciclo unico
  Anno: 2020-21
  Università: Università degli Studi di Salerno
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Giuseppe D'Angelo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 123

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Parole chiave

minori
chiesa cattolica
abusi sessuali
codex iuris canonici
delicta graviora
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