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Identità e sorellanza. Lettura di ''Una Donna'' di Sibilla Aleramo

La madre: una sorellanza recuperata

Dopo l'analisi dell’alias materno affronterò adesso quella della madre biologica cercando di ripercorrere nel tessuto narrativo, l'evoluzione del conflitto fra lei e la figlia e di dimostrare come esso abbia potuto ricomporsi, a partire da un cambio di prospettiva in senso solidale. UD infatti non è solo la storia di una conquista morale individuale, ma anche quella del riavvicinamento simbolico con la propria madre.
Nel sistema di assegnazione di ruoli e funzioni orchestrato dalla società patriarcale, la madre dell'eroina, ricopre in parte la funzione di angelo del focolare, fulcro di quella «mistica della maternità» (cfr. Bravo 2001: 81) avviata con l’Émile di Rousseau nella seconda metà del '700, da cui risale il prototipo di quella che sarà, in epoca contemporanea, la dòmina ('padrona') del regno domestico: addetta alla cura della casa, fedele, oblativa, dispensatrice di amore incondizionato, votata al martirio, all'apice di tutte le rappresentanti del suo stesso genere e pertanto oggetto di incontrastata devozione maschile. Il suo personaggio, benché non di finzione, ricorda vagamente, anche una delle accezioni di «femminile fantasmatico» che Brogi (cfr. 2016: 21-22) riconduce alla femme fragile letteraria (ma non solo): identità femminile come potenza evocatrice di malattia e morte, in cui fascino e repulsione si mescolano alimentando un immaginario impregnato delle teorie diffuse, dalla fine del XIX secolo, sull'inferiorità biologica delle donne, – Sesso e carattere di Weininger, L'inferiorità mentale della donna di Möbius – tanto per citarne qualcuno. Tuttavia, in UD, la debolezza della figura materna che è dovuta ad una malattia dell'anima, – la depressione – non vale come dispositivo di attrazione maschile, nella fattispecie del marito e, al contrario, provoca semmai il suo biasimo, compatimento, ostilità quando non pura indifferenza. Interessante invece, è notare come essa si offra allo sguardo della protagonista e come divenga progressivamente l'asse d'indagine e di confronto da cui si svilupperanno le riflessioni che la porteranno a concepire una diversa esperienza di essere donna e madre. All'inizio la protagonista è talmente inebriata dalla persona paterna («L'amore per mio padre mi dominava unico» Aleramo 1906: 1) – l'essere totale dal passato e dal presente così mirabile – che non si cura minimamente di indagare il perché la madre non le susciti sentimenti di pari intensità, diciamo, che ai suoi occhi di bambina, è come una presenza confusa nell'ombra, un fantasma appunto:

Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un'adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osare cercarne le cause. Era lui il luminoso esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la bellezza della vita […] Nessuno gli somigliava […] Egli mi parlava […] delle sue imprese fanciullesche meravigliose […] Un tale passato aveva del fantastico (Aleramo 1906: 1-2).

L'io narrato evita di cercare in profondità le reali cause di questa “asimmetria affettiva” e si limita a constatare il carattere di remissività, indolenza e rassegnazione della madre (« come una malata cupa che non vuole essere curata, che non vuole dire neppure il suo male» Aleramo 1906: 13) nonché le insanabili differenze tra i due, ma sempre da un'ottica più vicina a quella del padre; e in effetti, come osserva Brogi (cfr. 2020: 135), all'interno del sistema di separazione dei comportamenti concernenti il genere, sembra appartenere più al mondo paterno – e alla sua visuale – che a quello dei personaggi femminili della sua famiglia:

«E sempre io ero disposta a credere che mio padre avesse ragione più di lei. Ciò anche quando egli prorompeva in una di quelle crisi di collera [...]. La mamma reprimeva le lagrime […]. Sovente, dinanzi al babbo, ella aveva un'espressione umiliata, leggermente sbigottita: e non solo per me […] tutta l'idea di autorità si concentrava nella persona paterna» (Aleramo 1906: 3).

Sebbene l'eroina sia sempre pronta a giustificare come naturale qualsiasi eccesso di ira paterna, i momenti bui della mamma, in cambio, le appaiono assolutamente fuori luogo e le trasmettono una sensazione di spiacevole inquietudine ma non come conseguenza del vederla soffrire, quanto per l'incapacità o il disinteresse di esserle veramente complice, di offrirle un minimo supporto, chissà forse concependo una loro possibile alleanza come un tradimento verso quella, “più solenne”, stretta col padre :

«Quante volte ho visto brillare per una lagrima trattenuta i begli occhi profondi e bruni di mia madre!Saliva in me un disagio indicibile, che non era pietà, non era dolore neppure, e neppure reale umiliazione, ma piuttosto un oscuro rancore contro l'impossibilità di reagire, di far che non avvenisse ciò che avveniva. Che cosa? Non sapevo bene» (Aleramo 1906: 4).

Salvo ricordare successivamente, e con una punta d'amarezza, la labile presenza materna già nell'infanzia («Verso gli otto anni avevo come lo strano timore di non possedere una mamma “vera”, una di quelle mamme, dicevano i miei libri di lettura, che versano sulle figliuolette, col loro amore, una gioia ineffabile, la certezza della protezione costante» Aleramo 1906: 4), per poi tornare, come in un un moto altalenante di sentimenti contrapposti (e che sarà a lungo la cifra distintiva della loro relazione) ad esternare, alternativamente, la distanza inevitabile da lei («Due, tre anni dopo, a questo timore succedeva in me la coscienza di non riuscire ad amar mia madre come il mio cuore avrebbe desiderato» Aleramo 1906: 4) e subito dopo, invece, lo struggente anelito di una mutua complicità:

Oh, poter gettarmi una volta al suo collo con abbandono assoluto, sentirmi capita da lei, anche prometterle il mio appoggio per quando sarei grande; stringere un patto di tenerezza, come avevo fatto tacitamente con il babbo da tempo immemorabile! (Aleramo 1906: 4).

Il cupo dubbio della coscienza narrata viene dissipato soltanto dopo che la madre ha tentato di togliersi la vita («Ero certa ora d'amarli entrambi, ma con una nuova inquietudine […] di esser ormai sola [...] ignorando due anime che amavo, che compiangevo e temevo di giudicare» Aleramo 1906: 18) ma è solo in seguito alla scoperta del tradimento del padre, quando la sua immagine idilliaca va irreversibilmente in frantumi, che la protagonista mette a fuoco, finalmente, l'esistenza materna, cominciando a interrogarsi sui temuti e presagiti perché che le hanno negato una vita altrettanto appagante e straordinaria e che, alla fine, ne hanno determinato la diaspora interiore. Che in fondo, sono i medesimi perché di tutte coloro, che sono state incastonate nei luoghi allestiti dal potere maschile: a partire dalla famiglia, sotto la schiavitù paterna, per passare a quella coniugale, domestica e della maternità forzata, secondo un ciclo di perenne assoggettamento. Proprio la “metamorfosi” del padre da «esemplare raggiante» (Aleramo 1906: 24) a oggetto di repulsione, fa scaturire la rivalutazione della madre, in difesa della quale, la protagonista quindicenne, non esita a opporre una coraggiosa presa di posizione: alla subdola manovra paterna di screditare, davanti agli ospiti, la moglie che lo accusa sarcasticamente per la sua relazione extraconiugale, non può esimersi dal reagire con un'inattesa, ma implacabile, condanna:

A voce lenta, quasi mormorando, egli dichiarò: “Quella donna impazzisce!”. In un impeto proruppi: “Anch'io impazzirei papà!”. E gli piantai gli occhi in viso, con disperata ribellione, sentendo montarmi al capo uno spasimo terribile. “Taci tu!” urlò l'uomo colpito a sangue […] “Esci!” (Aleramo 1906: 25).

Sentire la sofferenza dell'altra, combattere al suo posto a prescindere dalle conseguenze: anche su questi valori si fonda la sorellanza ed è per questo che spaventa. Di fronte a ciò, l'assetto di dominio maschile inizia a vacillare e immediato è allora il ricorso a strategie di divisione o a rappresaglie: non a caso in risposta all'atto di rivolta della figlia – la ratifica di un accordo simbolico con la madre – segue, subitanea, una duplice “vendetta patriarcale” ovvero l'alienazione dall'amore paterno e la sospensione dall'amato impiego.
Tuttavia, il riavvicinamento tra le due donne non sarà esente da momenti di crisi. Per buona parte della sua vita l'eroina è dilaniata da emozioni ambivalenti, come quelle dettate dalla rabbia verso l'inerzia materna, l'arrendevolezza ( «La sua debolezza, la sua rinuncia alla lotta mi esacerbavano tanto più in quanto ero costretta a riconoscermi nei punti di contatto con lei nella mia rassegnazione al destino» Aleramo 1906: 39), la perdita di orgoglio – così come del raziocinio – per l'abbandono del marito e che arrivano a sopraffarla ad esempio quando, una notte, le riconducono la madre, in stato confusionale, dopo che ha vagato da sola, per le vie del paese («Dinanzi a quella miseria umana che mi ricercava nel mezzo della notte, ebbi una rivolta selvaggia di tutto l'essere […]. E lanciai alla sventurata parole acerbe, folli quasi come le sue...» (Aleramo 1906: 40). Emozioni brutali a cui si accompagna però l'amarezza del rimordimento («Sentivo di non aver mai contribuito a far felice mia madre, fuorché forse al mio primo apparire tra i due sposi innamorati» Aleramo 1906: 41) di aver lasciato che l'incomunicabilità e l'incomprensione le impedissero di riconoscerne il valore come persona, di incoraggiarla e di offrirle la sua riconoscenza. L'angosciante crescendo dei sensi di colpa raggiunge l'acme dopo che la madre viene internata in una casa di cura:

«Ed io, avrei mai potuto chiederle perdono, dirle la mia pena senza nome per il ricordo di essere stata così disumana, farle sentire come la comprendessi finalmente? No, mai più la mia voce le sarebbe scesa al cuore: io non avrei più potuto parlare alla mia mamma […] ; tutto era finito! Di lei, di quel ch'ella era stata non sarebbe rimasto a noi che la memoria, come un oscuro ammonimento...» (Aleramo 1906: 42).

Ma in realtà, non tutto è perduto come crede l'eroina e infatti sarà proprio dall'esempio del disfacimento materno (« Ero persuasa che se la sventurata avesse incontrato in gioventù un motivo d'azione fuori della cerchia famigliare, ella non sarebbe stata annientata dalla sventura» Aleramo 1906: 88) e dal timore di replicarne la fine («Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne?» Aleramo 1906: 41) che attingerà la forza per «lottare in quei luoghi dove la madre ha rinunciato» (Zancan 1995:120) e per avviare la propria rigenerazione, trovando una ragion d'essere al di fuori dell'ambiente domestico, non reprimendo, anzi coltivando le proprie passioni letterarie, (al contrario invece della madre spinta quasi a vergognarsene), costruendo l'indipendenza
– anche se non ancora totale – grazie al lavoro ma, soprattutto, obbedendo a un obbligo verso se stessa, il medesimo a cui invece la madre aveva rinunciato in nome della maternità, e lo fa imboccando una strada diversa, senza ritorno, quella strada che avrebbe tanto voluto per lei:

“Va' mamma, va'!”. Sì, questo le avrei risposto […] rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. Conservati lontano a noi; sapremo valutare il tuo strazio d'oggi: risparmiaci lo spettacolo della tua lenta disfatta qui, di questa agonia che senti inevitabile!” (Aleramo 1906:144).

Scegliendo di salvare se stessa, si preserverà per il figlio e al contempo scioglierà il proprio “debito” con la madre, vincendo la sua battaglia.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Identità e sorellanza. Lettura di ''Una Donna'' di Sibilla Aleramo

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Informazioni tesi

  Autore: Alessandra Viti
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2020-21
  Università: Università per stranieri di Siena
  Facoltà: Lingua e Cultura Italiana
  Corso: Lettere
  Relatore: Daniela Brogi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 44

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Parole chiave

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femminismo
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