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Il fenomeno del doping tra esigenza di legalità e diritti dell'individuo

La portata dei poteri di indagine della giustizia sportiva: eccessiva invasività delle tecniche di controllo antidoping?

Valutare dal punto di vista normativo le tecniche di cui si avvalgono gli organismi sportivi per effettuare i controlli antidoping significa partire dal presupposto di base che l'ordinamento sportivo ribadisce con forza il principio di autonomia di tale ordinamento rispetto a quello statale.
Con lo scopo di arrivare ad una definizione chiara e sistematica del rapporto tra ordinamento statale ed ordinamento sportivo e di disciplinare gli aspetti riguardanti la ripartizione della competenza, il legislatore italiano è intervenuto con una legge ad hoc, la legge n.280 del 17 ottobre 2003.

Questa legge codifica i principi generali derivanti dalla dottrina e dalla giurisprudenza in materia, operando un riconoscimento dell'autonomia dell'ordinamento sportivo rispetto a quello statale e al contempo delimitando i limiti di tale autonomia.
L'esigenza a cui rispondere imponendo dei limiti all'autonomia sportiva è quella di creare un bilanciamento tra, da una parte, la volontà dell'ordinamento sportivo di rivendicare il potere di dettare le regole che devono essere rispettate da tutti i soggetti che agiscono nell'ambiente sportivo e di poter agire in modo che l'inosservanza di queste regole venga punita dagli organi sportivi e, dall'altra, i poteri dello Stato che agisce come garante dei diritti e degli interessi legittimi degli individui che denunciano una violazione di tali diritti in ambito sportivo.
In altre parole, riconoscere l'autonomia dell'ordinamento sportivo non significa che la giustizia sportiva può essere applicata senza tener conto dei diritti processuali fondamentali garantiti a tutti gli individui.
Il riconoscimento del principio di autonomia è quindi ribadito dall'art.1 della legge n.280/2003 che prevede comunque la possibilità dell'intervento dello Stato in tutte quelle situazioni giuridiche che possono assumere rilevanza anche per l'ordinamento statale. In base a tale articolo perciò, allo Stato viene riconosciuto il potere di valutare l'operato dell'ordinamento sportivo.
Lo stesso statuto del CONI stabilisce, all'art.2, che "il CONI garantisce giusti procedimenti per la soluzione delle controversie nell'ordinamento sportivo" per cui viene confermato che ogni atto posto in essere dalla giustizia sportiva deve essere considerato valido solo se rispetta i principi connessi al diritto ad un "equo processo".
Indipendentemente dal riconoscimento del principio di autonomia quindi l'ordinamento statale è sempre competente a decidere qualora venga messa in discussione la tutela di diritti soggettivi costituzionalmente garantiti.
Per quanto riguarda le diverse tipologie di controversie sportive giudicate dall'ordinamento sportivo, la legge distingue tra controversie di natura tecnica, concernenti il corretto svolgimento delle competizioni e il rispetto delle regole riguardanti la disciplina sportiva praticata; e controversie di natura disciplinare.
La giustizia disciplinare tende ad accertare e punire violazioni delle norme federali, per cui riguarda controversie che hanno origine dall'applicazione di sanzioni a carico di chi viola le regole imposte a tutti coloro che aderiscono alle Federazioni sportive.
In questo contesto si inseriscono tutti gli atti diretti a modificare il risultato o lo svolgimento di una gara sportiva oppure il tentativo di assicurare ad altri un vantaggio in classifica (frode sportiva).
La legge n.280/2003 costituisce uno dei rari casi in cui lo Stato è intervenuto per regolarizzare aspetti relativi allo sport e rappresenta un
passo fondamentale nella definizione dei rapporti tra ordinamento statale ed ordinamento sportivo.
In questo quadro legislativo generale, si inseriscono le norme e le procedure relative alle indagini antidoping.
Con la legge 376/2000, lo Stato ha chiaramente dimostrato come intendesse assumere un ruolo primario nella lotta al doping, rendendolo una fattispecie di reato penalmente perseguibile e attribuendo così alla procura antidoping tutti i poteri a disposizione normalmente della magistratura inquirente.
Tuttavia, a proposito dei controlli antidoping, non possiamo non riconoscere la difficoltà e la spinosità che questa materia di indagini comporta: se si considera che l'accertamento del reato di assunzione di sostanze dopanti da parte degli atleti richiede quasi esclusivamente il prelievo di campioni di sangue e di urine e analisi chimico-biologiche su questi campioni, è evidente come i soggetti incaricati di eseguire i test e di analizzarne i risultati compiano un'intromissione nella sfera più personale degli sportivi.
Non mancano infatti nelle cronache numerosi episodi riguardanti atleti che rifiutano di sottoporsi ai test, in particolare alle analisi del sangue, invocando a giustificazione di ciò il diritto alla privacy.
L'art.6 comma 1 della legge 376/2000 non punisce penalmente il rifiuto di sottoporsi al prelievo dei campioni ma rimanda al CONI, alle Federazioni e alle associazioni sportive il compito di prevedere nei propri regolamenti interni le procedure disciplinari e le sanzioni nei confronti dei propri tesserati che rifiutano di sottoporsi ai controlli.
La decisione di rimettere la questione del rifiuto del controllo al piano disciplinare interno alle Federazioni dimostra quanto venga percepita come difficoltosa la materia in questione: il contenuto della legge 376/2000 nella sua interezza può essere considerato specifico ed incisivo mentre la previsione dell'art.6 comma 1 difetta di queste caratteristiche.
Il legislatore, nel prevedere una sanzione penale anche per il rifiuto di sottoporsi ad un test antidoping, sarebbe andato probabilmente incontro ad una serie di contestazioni relative alla tutela della privacy e alla sacralità della sfera corporale degli individui, preferendo demandare la gestione dei casi di rifiuto ai controlli agli organismi sportivi.

Spostando l'attenzione sul documento fondamentale su cui si basa il Programma mondiale antidoping, il nuovo Codice WADA entrato in vigore il 1°gennaio 2009, che armonizza le regole e le procedure che in precedenza variavano a seconda del Paese e della disciplina sportiva, alcune delle previsioni ivi contenute sono state oggetto di critiche provenienti da quella parte del mondo sportivo, e non solo, che considera i controlli antidoping oggi eccessivamente invasivi.
Tra le previsioni più discusse, oltre a quelle concernenti il prelievo di campioni biologici, spicca l'art.14 comma 3 riguardante le informazioni sulla reperibilità dell'atleta, che prevede l'obbligo a carico degli atleti di fornire dati precisi e continuamente aggiornati riguardanti la loro reperibilità per poter permettere eventuali controlli "a sorpresa".

La mancata comunicazione di informazioni sulla reperibilità può avere conseguenze disciplinari notevoli: tra gli esempi più estremi, il regolamento della Federazione internazionale di Tennis prevede che un giocatore che risulta irreperibile ai controlli per tre volte in 18 mesi potrà essere sottoposto a sanzioni disciplinari, inoltre per i primi 50 giocatori del mondo viene previsto l'obbligo di indicare ogni giorno un'ora precisa in cui sarebbero disponibili per effettuare un test antidoping.

Senza voler mettere in dubbio l'efficacia dei controlli "a sorpresa" il cui elemento deterrente è ampiamente comprovato, ci si potrebbe chiedere se è giusto che un atleta sia tenuto ad essere costantemente a disposizione degli organismi antidoping e se, proseguendo su questa strada, non si arrivi un giorno a servirsi di metodi estremi per effettuare tali controlli.
Idee come il controllo degli spostamenti degli atleti grazie a rilevatori gps da collocare nelle borse degli allenamenti o applicati a braccialetti elettronici o, in modo drasticamente più invasivo, tramite l'inserimento di un chip sotto la pelle, circolano tra le frange più estreme della lotta al doping che invocano la necessità di controlli serrati per debellare questa piaga.
A sostegno delle loro tesi, gli "estremisti" del controllo affermano che gli atleti vengono comunque già controllati in modo abbastanza continuo ed indiscreto, perciò l'utilizzo di questi sistemi elettronici semplicemente rappresenterebbe una diversa forma di controllo che anzi garantirebbe, ad un atleta consapevole di un comportamento morigerato e regolare, di non subire nessuna diffamazione e di essere tutelato nel suo diritto di svolgere una vita normale senza il rischio di venire attaccato da sospetti infondati, aumentando la trasparenza generale del sistema della lotta contro l'uso di sostanze dopanti.
Anche il semplice fatto che sistemi simili possano essere presi in considerazione, mette in luce quale sia la difficoltà di trovare un bilanciamento tra l'esigenza di controlli sempre più efficaci ed il rispetto dei valori della persona coinvolta; quanto sia alto il rischio di cedere alla tentazione di combattere contro una fattispecie illegale con strumenti che ledono i diritti fondamentali della persona.
Ci si deve comunque chiedere il perché si arrivi a pensare all'impiego di certi metodi estremi per portare avanti la lotta contro il doping: probabilmente dopo anni di scandali è così tanta la voglia di recuperare un'immagine pulita,e forse anche un romantica, dello sport che si tende a perdere di vista i limiti invalicabili rappresentati dai diritti inviolabili degli individui.
Sebbene sondaggi ed indagini dimostrino che il ricorso al doping è in costante aumento, non si può arrivare a chiedere a ciascun atleta di accettare di essere costantemente a disposizione della magistratura sportiva inquirente.
Se non è oggi purtroppo possibile pensare ad uno sport, almeno a partire da un certo livello, che non ponga tra i suoi obblighi primari la prassi dei controlli antidoping, non è altrettanto possibile lasciare che tali controlli diventino un imperativo che condiziona ininterrottamente la vita di una persona che sceglie di dedicarsi alla pratica sportiva.
Le indagini antidoping non possono prescindere dall'esigenza di effettuare controlli riguardanti la sfera corporale dell'individuo ma questo non significa che i controlli debbano avvenire in violazione dei diritti fondamentali della persona che devono anzi rappresentare il perimetro entro cui l'azione condotta può considerarsi valida.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il fenomeno del doping tra esigenza di legalità e diritti dell'individuo

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Informazioni tesi

  Autore: Giorgia Pasello
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Padova
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Jacopo Tognon
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 132

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