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Revocazione delle pronunce della Cassazione: questioni applicative e prospettive evolutive

La sentenza n. 17 del 1986 della Corte Costituzionale: la caduta di un antico divieto e l’inizio di una rivoluzione giuridica

La dottrina favorevole alla revocazione delle decisioni della Cour de Cassation, l’influenza che gli sviluppi normativi tedeschi hanno esercitato nonché la dubbia legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui, tramite una formulazione a contrario, prevede l’insindacabilità delle decisioni della Corte di Cassazione, hanno condotto anche il nostro ordinamento a giungere a una rilettura del principio dell’intangibilità in ambito processualcivilistico.
L’occasione per introdurre un rimedio analogo a quelli stranieri si presentò con un caso del 1981 che rappresentò il pretesto per operare una vera e propria rivoluzione copernicana interna e avviare un iter riformistico di grande interesse in tema di revocazione.
Il suddetto caso riguardò una controversia giudiziale che prese avvio dalla richiesta attorea di dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. In sede di prime cure fu fissata un’udienza per il tentativo di conciliazione tra le parti, atto ritenuto essenziale a pena di nullità del procedimento di merito. A seguito di un legittimo impedimento attestato da un certificato medico tempestivamente trasmesso, la parte convenuta risultò assente e il tribunale tuttavia non fissò nuova udienza e dichiarò la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Avverso tale determinazione venne proposto ricorso in Corte di appello la quale giudicò non essenziale il tentativo di conciliazione e dunque legittima la prosecuzione del processo di primo grado culminato in sentenza dichiarativa di scioglimento del matrimonio.
Venne allora proposto ricorso per Cassazione ai sensi dell’articolo 360 n.4 c.p.c. adducendo il fatto che fosse stato commesso un error in procedendo nella parte in cui la Corte di appello giudicò non essenziale il tentativo di conciliazione e non avesse pertanto disposto la rinnovazione dell’udienza. La prima sezione civile si determinò quindi sulla questione e statuì che effettivamente il tentativo di conciliazione rappresenta una condizione essenziale del procedimento e che pertanto il giudice del gravame avesse erroneamente affermato il contrario. In più la Corte rilevò che tale tentativo di conciliazione si configura come un diritto di ciascun coniuge che, se non esercitato a causa di un impedimento della parte giustificatamente motivato, non può condurre alla prosecuzione del processo.
Dando erroneamente per presupposta la tardività della trasmissione del documento attestante il legittimo impedimento che però agli atti della causa risultava tempestivamente trasmesso, la sezione della Cassazione finì tuttavia per ritenere insussistente il motivo di doglianza della ricorrente.
La Corte, per una banale svista, diede pertanto per assodata l’inesistenza di un fatto la cui verità risultava dagli atti o documenti della causa e, di conseguenza, commise un vero e proprio errore ai sensi dell’art. 395 n.4 c.p.c.
Stante l’intangibilità delle decisioni della Corte di Cassazione nonché delle disposizioni di legge allora vigenti, non vi sarebbe stato alcun rimedio in favore della soccombente che quindi avrebbe concluso l’iter impugnatorio senza possibilità di dedurre il vizio commesso dal giudice di legittimità.
Nei riguardi di tale sentenza tuttavia - presumibilmente anche per merito di un’iniziativa creativa e audace del difensore della parte - la soccombente presentò istanza di revocazione ai termini dell’articolo suddetto e prospettò la necessità di interpellare la Corte costituzionale al fine di estendere l’applicazione del rimedio revocatorio altresì in riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione.
Quest’ultima, nella sua composizione più autorevole, ravvisando (finalmente) la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale prospettata, sospese il giudizio e, per presunto contrasto dell’art. 395 c.p.c. con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, rimise la decisione alla Consulta con ordinanza n. 101 del 1983.
A tale istanza di rimessione la parte resistente manifestava le sue obiezioni. Precisamente, essa sosteneva che le sentenze della Cassazione fossero per la loro stessa natura sottratte a qualsiasi mezzo di impugnazione e che, specificamente con riguardo alla revocazione, tale rimedio impugnatorio non potesse trovare applicazione poiché esso implica un riesame nel merito della lite.
La Corte, come sottolineato nella stessa ordinanza di rimessione alla Consulta, evidenziava tuttavia che nel caso in cui l’anomalia dedotta in revocazione afferisca a profili meramente processuali, nella sentenza da revocare un esame nel merito ben potrebbe non esservi stato; ciò è proprio quanto accaduto nella fattispecie concreta. Proprio per tale motivo, la Cassazione ha ritenuto che non vi fosse una sostanziale diversità tra la sentenza del giudice di merito e quella del giudice di legittimità se entrambe, per la sussistenza di un sintomo di ingiustizia, giungano a una statuizione conclusiva della lite per ragioni processuali.
Le Sezioni Unite della Cassazione dunque, concludendo che non possa essere escluso a priori il mezzo revocatorio avverso le sentenze del giudice di legittimità affette da errore di fatto, rimisero la questione alla Corte costituzionale.
Quest'ultima si determinò con sentenza n.17 del 1986 e rilevò come la questione non potesse che dirsi fondata.
Sulla scorta delle motivazioni addotte dalla Cassazione nell’ordinanza di rimessione, la Consulta rimarcò infatti la natura dell’impugnazione di cui all’art. 395 c.p.c. quale istituto permeato da un comandamento di giustizia. Essendo pertanto questa la ragion d’essere della norma sottoposta al suo esame, la Corte rilevò come la disposizione perderebbe sostanzialmente di rilevanza se la revocazione della decisione errata fosse esclusa unicamente sulla base della peculiare natura della Cassazione quale organo supremo.
Nel caso in cui infatti la Suprema Corte sia chiamata a valutare le condizioni processuali ai fini dell’accoglimento del ricorso, questa indagine cognitiva in nulla differirebbe da quella generalmente posta in essere dal giudice di merito e dunque il diritto di difesa risulterebbe gravemente offeso se l’errore di fatto commesso dal giudice non potesse essere ”suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal Giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia”.
Per tali ragioni, la Consulta dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non preveda la revocazione delle decisioni della Cassazione.
In ragione dell’originario principio dell’intangibilità nonché dell’iter riformistico non indifferente inaugurato con tale determinazione, la decisione additiva della Corte costituzionale così adottata rappresenta un risultato di notevole importanza.
Sebbene infatti la Consulta ebbe cura di rilevare come il tema considerato nel giudizio a quo, nonché dunque la questione sottoposta al suo esame, riguardasse esclusivamente il problema della revocabilità di sentenze rese su ricorso basato sul n. 4 dell'art. 360 c.p.c. e affette da errore di fatto, con tale pronuncia venne compiuta una rivoluzione giuridica che giurisprudenza e interventi legislativi successivi non hanno mancato di correggere e perfezionare.

Già quattro anni dopo la menzionata pronuncia della Consulta infatti, la limitata portata della revocazione della decisione della Cassazione così inaugurata venne sottoposta a nuova valutazione.
Nello svolgimento del giudizio di ultima istanza, avviato con ricorso di cui all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., il Supremo Collegio aveva infatti dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione proposta poiché sviato da un errore nella percezione della data di notificazione del ricorso medesimo.
Ravvisando in ciò un errore di fatto, la soccombente proponeva allora revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c. e, contestualmente, domandava rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità della norma in esame nella parte in cui non prevedesse la revocabilità per errore di fatto delle decisioni della Cassazione rese all’esito di ricorso di cui ai numeri 1, 2, 3 e 5 dell’art. 360 c.p.c.
Il Supremo Collegio, constatando la non manifesta infondatezza della istanza presentata, sollevò allora questione di legittimità costituzionale dell’art. 395 n. 4 c.p.c. per presunto contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
La Consulta si determinò con sentenza n. 36 del 1991 e dichiarò l’incostituzionalità della norma sia nella parte in cui non prevedeva la revocabilità per errore di fatto di sentenze del Supremo Collegio pronunciatesi all’esito di qualsivoglia motivo di ricorso in Cassazione proposto e sia nella parte in cui la deducibilità della falsa percezione della realtà risultava limitata unicamente al caso in cui tale errore ricadesse sull’esame degli atti del processo a quo e non altresì su quelli dello stesso giudizio di ultima istanza.

Esito di tale pronuncia fu allora l’abbandono dell’ambito decisamente ristretto dettato dalla sentenza n. 17 del 1986 e la possibilità di chiedere la revocazione per errore di fatto delle decisioni della Cassazione comunque rese. Ciò rappresentò un passo ulteriore all’aspirazione di completezza dell’impugnazione in esame.
La menzionata pronuncia del 1991, unitamente a quella di quattro anni più risalente, aveva dunque tracciato le prime linee di disciplina della revocazione delle decisioni della Cassazione e il quadro giuridico così inaugurato necessitava ora di un intervento legislativo finalizzato a un riordino generale della materia. Questo, come accennato, non è tardato ad arrivare. Il legislatore in fase di riforma aveva infatti già recepito il monito velato dettato dalla determinazione della Consulta del 1986 ed era intervenuto con la promulgazione della legge n. 353 del 1990 denominata “Provvedimenti urgenti per il processo civile” la cui entrata in vigore era differita a gennaio 1993.
Per il tramite dell’art. 67 di tale legge, si giunse finalmente alla codificazione del rimedio revocatorio avverso le sentenze della Cassazione introducendo una nuova disposizione nel codice di rito civile, l’articolo 391 bis. La novella codicistica così introdotta confermò l’estensione oggettiva della revocazione per errore di fatto operata dalla intervenuta sentenza della Corte costituzionale del 1991 e rappresentò un provvedimento indubbiamente fondamentale al fine di rendere la disciplina più chiara.
Se da un lato tuttavia tale riforma ha rappresentato un intervento apprezzabile giungendo in primis alla positivizzazione della sindacabilità delle sentenze della Cassazione e in secundis alla previsione legislativa del rimedio revocatorio nei confronti di tali decisioni pronunciatesi su qualunque dei cinque motivi di ricorso previsti dall’art. 360 c.p.c., dall’altro ha irragionevolmente conservato un limite di applicazione di non trascurabile importanza nella parte in cui l’art. 391 bis circoscriva la revocazione delle sentenze della Cassazione al solo motivo revocatorio di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c. ossia l’errore di fatto.
Preso atto della sussistenza di una lacuna normativa, il legislatore si è invero limitato a introdurre l’impugnazione revocatoria delle sentenze della Cassazione per il solo sintomo di ingiustizia preso in considerazione dalle sentenze della Corte costituzionale e dunque l’unico motivo impugnatorio le cui circostanze concrete ne avevano evidenziato la mancanza, lasciando di conseguenza sprovvisti di rimedio gli ulteriori motivi previsti dall’art. 395 c.p.c. Tale scelta non può che ritenersi discutibile e di dubbia legittimità costituzionale.
Non si coglieva la ragione per la quale la sindacabilità delle sentenze della Cassazione dovesse essere limitata all’errore di fatto e non essere estesa, per esempio, al caso di accertamento di prove false o di dolo della parte come previsto per le sentenze del giudice di merito.
La scelta risulta tanto più irragionevole se si prende in considerazione il fatto che l’art.66 della medesima legge del 1990 aveva nel frattempo introdotto, modificando l’art. 384 del codice di rito, la possibilità che anche la Cassazione possa decidere la causa nel merito.
Avendo pertanto previsto ex art. 66 che la Cassazione divenga giudice del merito nel caso in cui non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, non poteva che suscitare ampi dubbi di legittimità costituzionale la previsione dettata dall’articolo 67 che limita la revocabilità della decisione della Cassazione al solo errore di cui al n. 4 dell’art.395.
Come si era giustamente sottolineato all’indomani di tale riforma, la decisione di merito destinata a produrre autorità di giudicato sostanziale, qualunque sia il giudice che l’abbia resa, ”deve andare sempre soggetta alla stessa latitudine di rimedi impugnatori allorché contenga gli stessi vizi o comunque gli stessi sintomi di ingiustizia” e pertanto la censura di incostituzionalità non poteva che interessare il principio di uguaglianza dato che non vi sarebbe una sostanziale diversità tra la sentenza del giudice di prime cure o di gravame e quella del giudice di ultimo grado se entrambe decidano la questione nel merito.
Se pertanto il legislatore del 1990 era finalmente intervenuto in materia di revocazione delle decisioni della Cassazione, questo suo primo provvedimento è risultato fin da subito insoddisfacente agli occhi della dottrina maggioritaria.

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Revocazione delle pronunce della Cassazione: questioni applicative e prospettive evolutive

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Informazioni tesi

  Autore: Marco Scarpitta
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Padova
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Marcella Negri
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 179

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