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La cognitio extra ordinem

Le nuove pene del processo extra ordinem

Nel corso della mia trattazione è stata più volte sottolineata la tendenza, nella politica criminale del principato prima e del dominato poi, di perseguire “ad ogni costo” la repressione dei reati, determinando una maggiore efficienza nella lotta alla criminalità o, per lo meno, a certe sue forme. Le modalità, i tempi ed i settori con cui ed in cui tale risultato fu ottenuto, sono stati in precedenza analizzati, residuando, ora, un esame di ciò che potrei definire il rovescio della medaglia, ovvero il prezzo per tale supposta efficienza: si tratta, nello specifico, dell’inasprimento che caratterizzò il profilarsi delle nuove pene extra ordinem, per le quali ritengo utile un delineamento generale in virtù della decisione di soffermarmi ed approfondire, poi, i caratteri e le conseguenze specifiche di una di queste, la damnatio ad metalla.

In particolare, la vasta discrezionalità che caratterizzò l’attività dei giudici nel principato (ed almeno fino ai primi decenni del III sec. d.C.) comportò che alle pene fisse, molto meno varie e più miti, stabilite dalle leges publicae, si sostituì un sistema graduato di pene maggiormente articolato ed in cui le sanzioni si moltiplicarono, ma, soprattutto, si inasprirono notevolmente.

Sulla base di tale filone, infatti, la pena di morte, non più inflitta ai cittadini romani già nell’ultimo secolo della repubblica, in quanto sostituita con l’esilio accompagnato dalla conseguente aqua et igni interdictio, ricomparve nella repressione extra ordinem come un fatto del tutto naturale, senza che si ebbe, in tal senso, uno specifico atto normativo. Anche sul piano terminologico, infatti, accanto all’espressione poena capitalis, utilizzata per indicare oramai non più che l’esilio, si affiancò, con sempre maggiore diffusione l’espressione poena capitis in cui si faceva espresso riferimento alla pena di morte esercitata mediante decapitazione con la spada (per glaudium).

L’esecuzione del condannato, poi, nei casi di maggiore gravità o qualora riguardasse le classi sociali più umili (schiavi o, a partire da Antonino Pio, i liberi di bassa condizione sociale, definiti humiliores) assunse forme particolarmente truci con l’introduzione della crocifissione (damnatio in crucem), il combattimento con le belve (damnatio ad bestias) ed il rogo (vivi crematio) che, più che forme di esecuzione, rappresentarono vere e proprie pene disumane, distinte da quella ordinaria di morte che, al confronto e per assurdo, poté considerarsi più lieve!

Accanto a queste sanzioni, denominate per la loro inumanità summa supplicia, altre pene, che vennero introdotte nella repressione extra ordinem e la cui creazione conferma quanto detto circa l’aggravamento e allo stesso tempo l’aumento del numero e della varietà delle pene, sono quelle caratterizzate da forme diverse di lavoro coatto: si tratta dell’esecuzione forzata di opere pubbliche (damnatio in opus publicum), della condanna ai lavori forzati nelle miniere (damnatio in metallum) o di quella ad esibirsi nel circo in veste di gladiatori (damnatio in ludum gladiatorium).

L’idea del lavoro può, nel nostro immaginario, essere collegato ad un tipo di sanzione più satisfattiva e meno inflittiva rispetto ad altre, ma così in realtà non fu. Infatti, ad eccezione dell’opus publicum (che non comportò la perdita della libertà e qualora non perpetua scongiurò anche quella della cittadinanza) la pena del ludo gladiatorio e del matallum erano destinate, presto o tardi e salvo provvedimenti di grazia, a condurre il reo, dopo i truci combattimenti nel primo caso, e gli strazianti lavori nell’oscurità di miniere e cave nel secondo, ad una morte dura e certa, ma la cui data non era né determinata né determinabile con sicurezza.

Inoltre, come si vedrà nel proseguo del mio lavoro e più nello specifico, l’irrogazione di tale ultima pena, nonché di tutte quelle più gravi «privative della vita o della libertà» posero il condannato nella condizione di servus poenae: individui che a partire dal momento in cui era pronunciata la condanna e per tutto l’intervallo che li separava dalla morte erano privati di ogni diritto. Divenuto “proprietà della pena” e marchiato sul volto, l’uomo nato libero perdeva libertà e cittadinanza, il diritto di disporre e di ricevere per testamento e di manomettere i propri schiavi. Il suo matrimonio si scioglieva ed i suoi beni venivano confiscati. Null’altro che l’epilogo di una morte civile, anticipatoria di quella fisica.

Continuando nel mio excursus tra le nuove pene extra ordinem, di rilevante importanza la condanna al domicilio coatto perpetuo ovvero alla deportatio, solitamente, ad insulam con conseguente perdita per il reo della cittadinanza e dei beni (ma, si badi, non della libertà!) che venne gradualmente a sostituire l’interdictio aqua et igni di età repubblicana. Accanto a questa, però, continuò ad operare la meno grave relegatio che, a differenza della prima, poteva essere anche temporanea e quindi non apportare le conseguenze giuridiche della prima.

A completamento del quadro delineato, poi, risulta opportuno fare riferimento anche quelle sanzioni corporali minori che, non di rado, accompagnarono la pena capitale, come le percosse con i bastoni (fustium ictus) o con le sferze (flagellorum ictus): le prime destinate agli honestiores, la seconda (ritenuta infamante) riservata agli humiliores e agli schiavi.

Infine, nel nuovo sistema criminale extra ordinem< trovarono applicazione sanzioni di carattere pecuniario, come la confisca, totale o parziale, dei beni la cui inflizione fu lasciata in alcuni casi alla discrezionalità del magistrato (ademptio bonorum) in altri, invece, conseguì automaticamente alla condanna (publicatio bonorum) e le multae, nonché altre pene di diversa natura consistenti nella privazione della dignità (con perdita della possibilità di conseguire gli honores) o nell’interdizione da alcuni o da tutti gli pubblici uffici.
Non fu, invece, contemplata come pena la reclusione in carcere.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La cognitio extra ordinem

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Informazioni tesi

  Autore: Benedetta Nardiello
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi di Napoli - Federico II
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Giovanna Daniela Merola
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 211

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