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Palazzo Teti-Maffuccini, esegesi del ricordo. Un Luogo della Memoria... senza memoria

Le ragioni dietro all’oblio: da nobile palazzo dei Teti a discarica comunale

In Italia, in un lungo periodo che parte dall’Unità e arriva a toccare gli anni Sessanta del Novecento per poi ripartire nel primo decennio del nuovo millennio, in occasione dei centocinquant’anni dall’Unità del Belpaese, si è andata cristallizzando la memoria dei fatti salienti del Risorgimento nazionale attraverso l’erezione di memoriali e monumenti ai caduti, la diffusione di canzoni dedicate a Giuseppe Garibaldi, anche detto Il Dittator, e alle sue gesta, lo sventramento odonomastico operato a seguito dell’unificazione per omogeneizzare il panorama nazionale che si poneva come obiettivo quello di, attraverso la riduzione del numero delle strade dedicate ai santi e all’aumento di quelle dedicate a personaggi o eventi fondanti la Nazione, portare lo Stato a divenire sempre più laico e più detentore della memoria unitaria.
In tutto quest’arco di tempo il palazzo in cui il Generale Della Rocca, comandante del quinto corpo dell’Armata Sarda, e il Maresciallo di Campo Borbonico Michele De Corné firmarono, il 2 novembre 1860, la convenzione sulla capitolazione di Capua è stato ben lontano dall’essere riconosciuto dalla collettività come luogo della memoria. Le motivazioni, complesse e, sotto un certo punto di vista, degradanti per il nostro paese, sono da individuare nelle vicende dell’edificio; esso è infatti un immobile che da sempre risulta appartenere a privati e che, da un certo punto in poi della sua storia, vive una stagione piuttosto misteriosa, entrando, come avviene dagli anni Novanta, nell’orbita della malavita campana.
Sin dalla sua costruzione, terminata come già detto nel 1839, il palazzo dell’avvocato Filippo Teti è stato un luogo estremamente animato da figure di spicco del foro sammaritano e da amatori dell’antico, antiquari interessati alla vasta raccolta del padrone di casa. Il legale, nominato prima controllore delle contribuzioni dirette nelle Terre di Bari e regio governatore in Puglia, arriva a Santa Maria Capua Vetere nel 1811 e qui viene nominato prima decurione della città, poi consigliere distrettuale, provinciale, ed infine vicepresidente della Società economica di Terra di Lavoro, diventando ben presto uno dei più grandi proprietari terrieri del comune e ponendo le basi dell’immensa fortuna della famiglia torricellana.
Con la morte di Filippo, che avvenne nel 1844, il palazzo continuò ad essere di proprietà della famiglia; fu infatti abitato dal nipote di quest’ultimo, il figlio del fratello Nicola, Raffaele, colui che partecipò attivamente alle vicende unitarie mettendo a disposizione di Garibaldi e dei suoi uomini l’appartamento.
Raffaele fu, come da tradizione familiare, un avvocato, uno dei più abili ed attivi del foro sammaritano, e venne nel 1861 eletto consigliere provinciale di Terra di Lavoro per il mandamento di Alvito nel distretto di Sora. Fu anche un grande conoscitore dell’antico; erede della collezione e delle proprietà, terriere e non, dei Teti, egli non esitò quando fu chiamato, scelto dalla Deputazione provinciale, ad entrare nella neonata Commissione Conservatrice dei monumenti ed oggetti di antichità e belle arti nella Provincia di Terra di Lavoro. Vi restò brevemente, solamente un anno, poiché morì nel 1871, lasciando il suo appartamento ai figli Filippo e Nicola.
Filippo intraprese presto una densa carriera politica; nato nel 1835, divenne prima consigliere provinciale di Caserta, poi deputato alla XII legislatura nel 1876 per il collegio di Sora, dal 1882 nella XV e XVI legislatura per il collegio di Caserta I, ed infine fu nominato, su proposta del prefetto di Caserta Antonio Dall’Oglio, al Senato del Regno, nell’ottobre del 1892. Entrò a far parte anche della Commissione Conservatrice dei Monumenti e Belle Arti nella Provincia di Terra di Lavoro con la nomina datata 10 settembre 1874 del Prefetto Presidente della Deputazione Provinciale, iniziando la sua attività a seguito della sostituzione del membro Giustiniano Nicolucci e la sua presentazione, avvenuta il 7 ottobre 1874.
Filippo non fu estremamente partecipe nelle attività della Commissione proprio a causa della sua carriera politica la quale lo portò a essere spesso assente da Santa Maria Capua Vetere per garantire la sua presenza a Roma; egli fu in ogni caso scelto, e in più occasioni presentato al Ministero dell’Istruzione, come:

[…] cultore di discipline giuridiche, canoniche e storiche; amatore e studioso delle classiche antichità; possessore di un gabinetto di numismatica e di epigrafi romane.

Ma l’uomo, di indole modesta, non parla di sé in questi termini; nella tornata del 4 novembre dello stesso anno il cavaliere prende parola per la prima volta e lo fa per ringraziare la Commissione per la sua nomina:

Permettetemi, Signori, che la prima parola, che mi è dato pronunciare in questo dotto Consesso, esprimesse al vivo i miei sentimenti per avermi designato a far parte della Commissione conservatrice dei monumenti provinciali. Dovendo io essere aggregato ad una schiera di letterati ed archeologi illustri, i cui nomi sono già tanto chiari nella Provincia ed in Italia, ho domandato in sulle prime a me stesso in qual modo poteva io col mio scarso ingegno conferire ad accrescere il patrimonio della scienza ed erudizione archeologica, che voi con tanto senno coltivate […]

Giunto alla conclusione che vede la sua nomina una sorta di omaggio al padre defunto, ex membro della commissione, e all’Amministrazione Provinciale, il Teti ringrazia di cuore gli altri membri e amici, ben disposti ad «accogliere anzi con vivo interesse il concorso e l’opera della sua degna persona».
Il suo consulto, in veste di membro della commissione, fu richiesto soprattutto in ambito legale; come da tradizione familiare, infatti, fu anch’egli avvocato e sfruttò le sue conoscenze per garantire il controllo da parte della Commissione sugli scavi e collezioni di alcuni privati e per mantenere rapporti con l’amministrazione casertana. Nel 1879, inoltre, Filippo suggerì di sottoporre alla Direzione generale de’ musei e scavi di antichità la proposta di conservazione e di «compiuto restauro», senza però offenderne l’antica fisonomia, dell’arco di trionfo eretto nell’Antica Capua in onore di Adriano, sul quale affermava «non rimangono che imponenti ruderi all’ingresso di Santa Maria Capua Vetere».
Anche Filippo, come il padre Raffaele, si impegnò sul fronte unitario; ce lo ricorda il senatore Pierantoni Augusto nel necrologio in memoria dell’amico defunto:

Conobbi Filippo Teti, di cui il nostro illustre Presidente fece il meritato elogio, e come amministratore e come membro delle due assemblee, fino all'anno 1856. La città di S. Maria di Capua, che alla gloria antica aggiunge una vita operosa, patriottica, e bella, mi accoglieva in quell'anno. Il Teti, giovane, era fautore delle idee unitarie quando il parlare e il cospirare erano cose perigliose e quando il reame di Napoli si agitava fra autonomisti, murattiani costituzionali, sotto un feroce e bieco Governo. Il Teti aveva abbondante coltura letteraria e sognava giorni migliori per la patria. Anche le affezioni umane lo determinarono ad una unione raccomandata e lodata. Egli sposò una delle figliole del generale Camillo Govoni, uno dei forti che segui il generale Pepe alla difesa di Venezia. L'onorevole ministro della guerra ricorda l'entusiasmo col quale il 26 ottobre S. Maria ci accolse quando si pose la prima lapide di quel monumento, che deve ricordare la battaglia del Volturno, la vittoria che affermò l'unità nazionale.
Il Teti aprì le sale del suo palazzo ad un ricevimento dei ministri e dei patriotti accorsi da ogni parte d'Italia.


Con il termine «prima lapide» Pierantoni intendeva proprio quell’iscrizione che, posta sulla facciata del palazzo di famiglia, ne sancisce il valore storico cristallizzando la memoria di quei «giorni migliori per la patria».
Ancora una volta un Teti decise di aprire le porte dei suoi ambienti più intimi a ministri e patrioti, mostrando non solo vivo interesse nell’Unità al momento dei fatti che l’hanno garantita ma anche la volontà di mantenere vivo il ricordo del momento fondante la Nazione.
La sua partecipazione agli eventi unitari lo portarono a conoscere Giuseppina Boldoni, figlia di Camillo, ufficiale di artiglieria napoletano, esule nel Regno sardo dal 1849, ovvero dopo la sua partecipazione alla prima guerra d’indipendenza italiana contro gli austriaci, avvenuta in territorio veneto nel 1848.
Esule in territorio sardo, Camillo non poté più rientrare a Napoli ma sua figlia sì; Giuseppina trovò ospitalità presso alcuni familiari a Capua ed è qui che conobbe il giovane Filippo. I due si innamorarono e finirono con lo sposarsi, anche se purtroppo non ebbero figli come testimonia il senatore Pierantoni, ancora una volta, nel suo necrologio:

Io prego il Senato di deliberare che un telegramma sia spedito alla superstite vedova, la quale desolata non ha conforto di figliuoli, che sono la corona del domestico focolare.

Il palazzo però continuò ad essere abitato dai Teti; Filippo si era infatti trasferito a Roma per esigenze lavorative, lasciando l’appartamento al fratello minore Nicola, di due anni più giovane, e alla moglie Giovanna Gazerro.
Anche Nicola fu, come da tradizione, avvocato, inoltre proseguì il tracciato della presenza familiare all’interno delle amministrazioni locali di Terra di Lavoro. Per molti anni fu sindaco di Tora e Piccilli presso Roccamonfina, occupò anche il seggio di consigliere provinciale per tale mandamento, nonché quello di membro della Deputazione provinciale e della Giunta Provinciale Amministrativa.
Si distinse poi per le doti letterarie e l’erudizione, pubblicando opere di successo come i suoi studi sul feudalesimo confluiti in Il regime feudale e la sua abolizione del 1886 e Frammenti storici della Capua Antica oggi S. Maria Capua Vetere del 1902, un lavoro storico-monumentale sull’antica città di Capua molto interessante per la compiutezza del suo apporto alla storia della città ma anche per la prefazione in cui spiega la sua tesi per cui un cittadino ha l’obbligo di studiare la storia della sua terra dalle origini ai tempi più recenti poiché «Lo studio del proprio paese […] costituisce il dovere ed il rispetto per la città nativa […]». Nicola non si limita a ricordare Capua antica, egli sottolinea anche l’importanza della storia più recente e il ruolo che ebbe Santa Maria durante le fasi cruciali della battaglia del Volturno:

Tutti quelli della mia età ricordano, al pari di me, i portentosi e gloriosi avvenimenti dal Settembre al Novembre del 1860; la leggendaria figura dell’Eroe della battaglia del Volturno, e la partecipazione di quest’Amministrazione Comunale e della Guardia Cittadina, al felice successo delle armi Garibaldine. I giovani sentono ancora il resoconto degli anziani, e le lodi dei padri loro.

All’età di trentun anni Nicola ebbe un figlio dalla moglie; era il settembre del 1868 quando emise il suo primo vagito Raffaele Gioacchino Maria, futuro erede dell’appartamento. Fondatore nel 1929 di una Banca sita a Santa Maria Capua Vetere in Piazza Principe Amedeo, anche lui era, come il padre, dedito alla politica, tanto da divenire assessore per il comune di Tora e Piccilli e cavaliere per volontà del Re d’Italia Vittorio Emanuele III. E proprio come il padre decise di aggiungere al suo cognome quello dei Gazerro nel 1882.
Unitosi in matrimonio con Alfonsina Fratta nel 1902, ebbe, solo dodici anni dopo, una figlia che decisero di chiamare Antonia, da tutti detta Antonietta.
Antonietta Teti Gazerro, di Tora e Piccilli, sposò il primo ottobre del 1936 l’avvocato sammaritano Ciro Maffuccini che da allora divenne proprietario dell’appartamento posto nell’attuale Via Roberto D’Angiò. Il matrimonio si svolse proprio nel palazzo e fu una cerimonia molto sentita; l’unione tra due personalità provenienti da famiglie di spicco del foro sammaritano fu evento lieto e degno di nota a livello nazionale, tanto da diffonderne la notizia sulla rivista Orizzonti, in cui leggiamo:

In S. Maria C. V., nella fastosa casa Teti, sono state solennemente celebrate da S. E. l’Arcivescovo di Capua, le nozze tra la leggiadra e nobile signorina Antonietta Teti Gazerro ed il distinto e valoroso dott. Ciro Maffuccini del comm. avv. Matteo. Compare di anello l’on. Prof. Antonio Tommaselli, deputato del Parlamento: testimoni: per la sposa il conte Giovanni Della Valle e il comm. Geppino Fossataro: per lo sposo l’avvocato comm. Francesco De Crescenzo e il comm. Ulderico Di Paola, procuratore del Re. Molti e ricchi i doni e numerosissimi i telegrammi, pervenuti da ogni parte d’Italia, da alte personalità del mondo forense e politico.

Antonietta proveniva infatti da un’ottima famiglia e Ciro era una delle personalità di spicco nella cerchia dei legali sammaritani.
Nato nel 1914, coetaneo della moglie, Ciro, con il matrimonio, divenne podestà di Tora e Piccilli e dal 1956 al 1960 consigliere provinciale per Terra di Lavoro. La sua attività d’avvocato e la sua carriera politica fecero sì che la nuova famiglia vivesse un periodo d’oro, in particolar modo quando nacquero i tre figli Matteo, Renato e Mariapia.
Il palazzo ad oggi è ricordato con il nome di Teti-Maffuccini poiché questi furono gli ultimi proprietari per eredità di tipo familiare; infatti, nonostante le ottime premesse, il nucleo familiare vedrà la crisi e il crollo del prestigio dei Teti.
La famiglia, molto sfortunata, fu infatti protagonista di una vicenda di sangue tristemente sofferta: la morte del giovane Renato, avvenuta quando era appena diciannovenne.
L’episodio si svolse ad un anno dal diploma del ragazzo, mentre era iscritto all’università con l’obiettivo di perseguire le orme del padre e diventare avvocato. Sulla sua lapide si legge:

Ingegno vivo carattere leale animo generoso. Era un aquilotto teso verso grandi voli nel giorno santo della resurrezione mentre era intento ad innocente gioco dello slancio della sua giovinezza ardente ebbe spezzato il cuore. Speranze estinte e sull’amore muto infinito il pianto dei genitori pellegrini senza luce per le vie del mondo.

Era una mattina, il primo aprile 1961, di sabato santo. Il giorno successivo si sarebbe celebrata la resurrezione di Cristo, motivo di gioia e festività, ma non per i Teti-Maffuccini, che avevano visto la loro giovane promessa perdere tragicamente la vita giocando con la palla nei pressi di un pozzo chiuso da lastre metalliche, posto nel giardino che, rigoglioso, decorava la zona di fronte il loro stesso appartamento.
Il triste evento sembra segnare la fine della famiglia; Matteo non seguirà le orme del padre, non sarà mai un avvocato e morirà nel 1995, mentre la figlia Mariapia si trasferirà, dopo il matrimonio con il noto avvocato Giovanni Aricò, a Roma, dove tutt’ora vive.
Con la morte di Antonietta nel 1980, Ciro, ormai vedovo, non resta però solo nell’edificio in Via Roberto D’Angiò; egli infatti sposa il 21 ottobre 1981 la giovane Maria Rosalia Di Luise, di ben diciotto anni più giovane, con la quale vivrà nel palazzo fino al 1989, anno del suo trasferimento a Roma.
Gli anni Novanta segnano l’inizio vero e proprio dell’oblio e del degrado del palazzo. In questo periodo l’immobile passò, attraverso vie non del tutto chiare e trasparenti, nelle mani di quello che, allora, era il vicesindaco della città, il Democristiano Nicola Di Muro, militante politico dagli anni Cinquanta e indagato per associazione camorristica già dagli anni Ottanta dall’alto commissariato per la lotta alla mafia, allora affidato al magistrato Domenico Sica.
Di Muro, detto Don Nicola, «il padrone e forse anche il padrino di Santa Maria Capua Vetere» come venne definito dai magistrati, se la cavò tutto sommato bene e per lui non vi furono conseguenze sul fronte giuridico. Il danno più grave fu la confisca dei suoi beni, avvenuta nel 1996 e all’epoca valutati per la modica cifra di cento miliardi di lire, circa cinquantadue milioni di euro; al momento della confisca fu steso un elenco di otto pagine: palazzine, terreni, società, una villa a Formia con piscina e ben trentuno stanze, un quartierino a Parigi, questi erano i beni che possedeva Don Nicola, ma non solo. Tra questi, intestato alla moglie di Di Muro, vi era palazzo Teti-Maffuccini, valutato dalla Soprintendenza proprio nel ’96 immobile dal profondo interesse storico-artistico, oltre che archeologico, e affidato quindi al Comune della città nel 1998.
Il 1998 fu un anno molto importante per Santa Maria, l’anno dell’avvio del cosiddetto Processo Spartacus a carico del clan camorristico dei casalesi, il processo penale più impegnativo ed importante degli ultimi vent’anni nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata e forse proprio per il clima di giustizia che si andava respirando, palazzo Teti-Maffuccini fu confiscato in modo definitivo mentre altri beni tornarono, inspiegabilmente, di proprietà dei Di Muro.
Ma nel Novantotto il comune non aveva la disponibilità necessaria alla riqualificazione dell’edificio, provato come molti altri dal terremoto dell’Ottanta e ormai da qualche anno inutilizzato, e così iniziò la lenta ma inesorabile rimozione della sua memoria da quella collettiva, nonché il cammino verso il suo degrado attuale.
Una flebile voce tornò a parlare del palazzo solo nel 2010 in occasione dei Centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, quando l’Europa finanziò il comune sammaritano con tre milioni di euro in un programma, esteso a livello nazionale, di recupero e riqualificazione dei cosiddetti Luoghi della memoria. Il progetto, voluto dalla Presidenza del Consiglio e coordinato da Paolo Peluffo, al tempo sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si poneva l’obiettivo di «ricreare un fitto tessuto d’informazione, di legami ideali e di tensione artistica comune che è alla base della costruzione della Nazione» atto a mantenere vivo il ricordo delle nostre radici e a stimolare la riflessione sul presente e sul futuro.
Ma la somma da spendere a Santa Maria era però troppo piccola rispetto alla mole di lavoro alla quale il palazzo doveva essere soggetto; era sufficiente esclusivamente all’opera di riparazione di una parte di quell’edificio, ormai da ben dodici anni esposto ai naturali deterioramenti e all’incuria, nonché al vandalismo, dell’uomo, poi da adibire a centro per la legalità.
In realtà, i tre milioni erano sufficienti solamente alle riparazioni del tetto; i lavori dovevano concludersi in un anno, entro il 31 dicembre 2011, cosa che non accadde poiché la burocrazia, notoriamente lenta, c’ha messo lo zampino, collaborando al fattore dimenticanza insieme ad un’altra causa, ovvero lo stesso Comune.
Il suo rappresentante, il sindaco di Santa Maria Capua Vetere era infatti, al tempo, proprio il figlio di Nicola Di Muro, Biagio, chiamato a gestire con fondi pubblici un appalto per un bene confiscato alla sua stessa famiglia.
In un rimpallo di pratiche tra Santa Maria e Caserta che rallentarono, anzi, non fecero mai partire i lavori, finalmente giunse, nel 2015, il momento di assegnare la gara d’appalto. Ma anche qui le cose non andarono in modo regolare; la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli avanzò il sospetto secondo il quale imprese vicine al clan camorristico dei Zagaria avessero messo le mani sull’appalto e il tutto venne nuovamente bloccato. Lo stesso sindaco fu indagato ed arrestato con il sospetto che su quell’appalto fossero volate, tra le altre cose, tangenti.
Il tempo intanto passò fino ad arrivare al 2016, anno limite per poter spendere i soldi del finanziamento; in linea generale, gli interventi di ristrutturazione dei beni confiscati alla mafia rientrano nelle politiche europee di coesione, programmi comunitari che hanno l’obiettivo di sostenere economicamente i progetti degli Stati membri. Una volta che l’immobile viene destinato al Comune, l’ente deve occuparsene e se le risorse ordinarie non dovessero bastare per ristrutturare o riqualificare la struttura, può richiedere finanziamenti grazie alle politiche di coesione. L’unico limite è la scadenza della programmazione e se si supera, i fondi si bloccano. Ed è proprio quello che è successo nel caso di palazzo Teti-Maffuccini; i lavori non presero il via, mentre la giunta comunale cadde e il Comune, privato del sindaco dalla giustizia, fu commissariato.
Nel marzo del 2019 Biagio Di Muro venne condannato in primo grado a scontare cinque anni e mezzo di carcere per il reato di corruzione, anche se si è sempre proclamato innocente. Allo stesso anno risale un nuovo bando di gara voluto dall’attuale sindaco Antonio Marra che vuole «restituire Palazzo Teti alla sua importanza e dignità». La gara d’appalto è stata aggiudicata, per un importo di quattrocentodiciottomila euro su di una base di appalto di settecentonovantamila, dal raggruppamento temporaneo di studi professionali dell’ingegnere Carlo Raucci, Edilsigma e Gnosis Progetti mentre il finanziamento di questo primo passo verso i lavori veri e propri di riqualificazione e ristrutturazione dell’immobile, è assicurato dai fondi POC della Regione Campania.
Marra ha fatto di Palazzo Teti-Maffuccini la sua battaglia personale; troppo a lungo quell’edificio è rimasto in uno stato di abbandono totale e ancora oggi, nonostante un progetto completo e approvato, c’è chi vi entra per amputarlo dei marmi e, addirittura, degli stucchi che decorano le alte volte.
Strutturalmente è formato da pareti portanti, probabilmente in muratura di tufo listata da ricorsi in mattoncini di laterizio per l’intero piano terra, la cui conservazione non desta notevole preoccupazione; diversamente si può dire degli orizzontamenti, in modo particolare di quelli con struttura portante lignea, in gran parte già crollati mentre resta a rischio crollo la restante parte, soggetta com’è alle infiltrazioni di acque meteoriche. Le infiltrazioni hanno causato, e causano ancora, la perdita di volte dipinte come ad esempio quella in cui era raffigurato il Dio Marte, sopravvissuta ai crolli fino al 2021 ma che allo stato attuale è andata perduta per sempre.
Anche gli infissi interni ed esterni sono in gran parte mancanti, altri inutilizzabili per marcescenza, ma quelli rimasti sono testimonianza di quella che era la loro pregevole fattura e qualità. Le pavimentazioni interne sono di due tipologie differenti e si presentano in cotto e in graniglia: le pavimentazioni in cotto sono state quasi del tutto asportate mentre quelle in graniglia sono ben conservate. Sono presenti anche dei rivestimenti parietali in maiolica antica nei vani destinati ai servizi quali bagni e cucine, fortunatamente ben conservati. Diverso è invece il caso delle scale, private, tranne quella monumentale, dei rivestimenti in marmo dei gradini.
Lo stato di conservazione è in generale di notevole degrado e ciò influisce anche sulle pareti e sui dipinti che queste ospitano; alla situazione contribuisce anche lo stato del giardino, in cui cresce da anni una vegetazione spontanea e rampicante che invade la facciata interna, ma anche l’esterna, del palazzo causando gravi danni agli intonaci d’epoca e al sottostante paramento murario.
Il pessimo stato di conservazione dei dipinti, degli stucchi, delle pavimentazioni e dei reperti archeologici, in larga parte addirittura perduti, trafugati, rende davvero complesso l’accesso all’indagine clinica e diagnostica della materia costituente l’apparato decorativo, indispensabile per motivi di studio ma anche per stabilire la giusta metodologia di intervento di restauro.
[...]

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Palazzo Teti-Maffuccini, esegesi del ricordo. Un Luogo della Memoria... senza memoria

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Informazioni tesi

  Autore: Roberta Affinito
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2020-21
  Università: Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"
  Facoltà: Conservazione dei Beni Culturali
  Corso: Storia dell'arte
  Relatore: Nadia Barrella
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 103

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