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La tutela della maternità e dell'infanzia ''recluse'': tra sollecitazioni sovranazionali e riforme (incompiute) dell'ordinamento penitenziario italiano

Le Regole penitenziarie europee ed altri strumenti di tutela messi in campo dal Consiglio d’Europa

L’impegno profuso da parte del Consiglio d’Europa nel campo della tutela dei diritti fondamentali dei detenuti ha trovato una sua esplicazione non solo nell’elaborazione della C.e.d.u. ma anche attraverso l’emanazione delle Regole penitenziarie europee (EPR), le quali rappresentano un’altra fonte essenziale per la salvaguardia dei legami intercorrenti tra la persona in stato di restrizione ed il nucleo familiare di appartenenza.
Le Regole penitenziarie europee sono un insieme di standard e principi volti ad informare il trattamento penitenziario ai criteri di equità e giustizia, nel rispetto del senso comune di dignità umana.
Il primo tentativo di definire un corpus di norme penitenziarie in ambito europeo risaliva già al 1973, allorché il Consiglio d’Europa, recependo, in parte, il modello rappresentato dalle “Norme minime per il trattamento dei detenuti” redatte dal Primo Congresso delle Nazioni Unite il 30 agosto 1955, ha voluto consolidare tale obiettivo all’interno della Risoluzione R(73)5 del 19 gennaio 1973, raccomandando agli Stati membri di adoperarsi al fine di garantire, nelle rispettive strutture carcerarie, livelli di condizioni di vita non inferiori a quelli risultanti dal complesso delle direttive contestualmente stabilite, ritenendosi altrimenti gravemente lesi i diritti fondamentali riconosciuti ai detenuti.

Anche se in una forma ancora embrionale, si accorda a questa prima versione il merito di aver dato l’input necessario affinché si proseguisse nell’attività di normazione, ponendola in linea con gli importanti cambiamenti sociali che influenzarono, con significativi sviluppi, le politiche penali e le pratiche di gestione delle carceri in Europa nel corso di quegli anni, nonché con l’ingresso, sempre crescente, di nuovi Stati membri del Consiglio d’Europa.
Tuttavia, è solo con la Raccomandazione R (87)3 del 12 febbraio 1987 che tali norme standard vennero adottate acquisendo la denominazione di “Regole penitenziarie europee”, perdendo così la qualifica di “minime”, posto il loro carattere estremamente avanzato.
In tal senso, il Consiglio d’Europa, attraverso una corposa revisione, principalmente dettata dalla nuova concezione di trattamento penitenziario affermatasi in Europa, emanò una serie di indicazioni agli Stati aderenti, esplicitando, sin dal Preambolo, l’intento fondamentale di «stabilire un insieme di regole minime su tutti gli aspetti dell’amministrazione penitenziaria che siano essenziali al fine di assicurare condizioni umane di detenzione ed un trattamento positivo nel quadro di un sistema moderno e progressista».
A distanza di quasi vent’anni, nel 2006, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è nuovamente intervenuto approfondendo e revisionando il documento del 1987 questa volta attraverso la Raccomandazione R (2006)2, le cui modifiche apportate si estrinsecano in una riformulazione delle regole penitenziarie anteriori ed hanno rappresentato il raggiungimento, pressoché completo e coerente, della razionalizzazione dei principi cardine in materia carceraria sanciti dalla C.e.d.u. e sottolineati all’interno dei rapporti generali del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (CPT).

Invero, nel solco di tale evoluzione, anche l’aumento delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo ha assunto un ruolo determinante, facendo quest’ultima ormai regolare riferimento, nella statuizione dei casi riguardanti la dignità e le condizioni di detenzione, alle Regole penitenziarie europee, le quali, in tal senso, godono di uno statuto rafforzato.
Da ultimo, si è approdati ad una versione parzialmente rivisitata delle Regole penitenziarie europee, frutto di un aggiornamento operato dalla Raccomandazione R (2006) rev-2 del 1° luglio 2020, alla quale si riconosce il merito di avere affrontato alcune questioni non debitamente vagliate dai documenti precedenti, in particolare, nella misura in cui dedica maggiore attenzione alla condizione detentiva di categorie notoriamente vulnerabili quali le donne e gli stranieri.
Tuttavia, valutata nel suo complesso, la recente riforma ha registrato una portata innovativa inferiore rispetto al documento che l’aveva preceduta, rispecchiandone, in buona sostanza e sotto molteplici aspetti, la compiutezza originaria.
Anzitutto, dal punto di vista strutturale, le Regole penitenziarie europee si articolano in 108 direttive, suddivise in nove parti e costituenti un mosaico di regole che si estende dai principi base in materia di trattamento penitenziario e rieducativo alla salute dei detenuti; dalle misure finalizzate a regolamentare i profili organizzativi delle singole strutture carcerarie alla gestione e formazione del personale ivi operante, affinché questi assuma un comportamento corretto e consapevole del ruolo sociale ricoperto, per concludersi, infine, con un’unica regola di chiusura contenente l’invito al costante aggiornamento della normativa in questione.
Le Regole riviste, pur nell’intento di essere esaustive, non si pongono come giuridicamente vincolanti – perlomeno in maniera diretta – per gli Stati membri, essendo consacrate all’interno di fonti unanimemente considerate di soft law quali sono tipicamente le Raccomandazioni. Esse si limitano pertanto a fornire preziosi stimoli, indicazioni e moniti alle singole amministrazioni penitenziarie dei Paesi aderenti, orientandole nello sviluppo e nell’uniformazione di politiche carcerarie fondate su principi razionali ed equi e fornendo loro standard minimi che possano assurgere a parametro di valutazione dell’attività svolta, fermo restando che il Consiglio d’Europa, in tale ottica, ricopre un ruolo di assistenza e supporto applicativo grazie alle linee guida impartite.
Tuttavia, nonostante la mancata pretesa di vincolatività, si rammenta che i Governi, ad ogni modo, si sono impegnati a adottare una linea di pensiero conforme alle stesse, le quali, allo stato attuale, sono condivise da più di quaranta Paesi membri e trovano conferma anche all’interno dell’ordinamento penitenziario italiano.
Dal punto di vista sostanziale, le Regole trovano il loro fondamento nel principio di normalizzazione e responsabilizzazione, nella misura in cui il primo mira ad avvicinare la quotidianità in carcere il più possibile a quella vissuta all’esterno ed il secondo – strettamente legato al primo – è volto a offrire ai detenuti l’opportunità di assumere responsabilità personali durante il periodo di reclusione.
Sulla scia di questi due caposaldi, il Consiglio d’Europa incoraggia gli Stati membri a promuovere percorsi di risocializzazione, dando priorità ad un regime detentivo “aperto” verso la società civile, ponendo le basi per l’acquisizione di una futura autonomia al fine di permettere a ciascun detenuto di mettere in gioco le proprie capacità per il futuro reinserimento nella comunità.
Tale impostazione risulta impressa sin dalle prime regole in apertura al documento, il cui contenuto riflette la volontà dei redattori di mettere in luce l’imprescindibile esigenza di promuovere un trattamento dei soggetti in vinculis volto al rispetto dei diritti umani (Regg. 1- 4) nonché degli ulteriori diritti che non siano stati legittimamente sospesi a causa dello status detentionis.

Nell’ottica di rendere effettivi tali principi, le Regole successive invitano le singole amministrazioni statali ad orientare la permanenza negli istituti penitenziari in modo tale da ricalcare la vita nella comunità, promuovendo, in primis, lo sviluppo ed il mantenimento della rete di relazioni familiari il più possibile normali, nella consapevolezza che tutti i detenuti sono titolari di tale diritto e la perdita della libertà personale non deve necessariamente comportare l’assenza di contatti con il mondo esterno al carcere.
Come già visto, il tema della tutela familiare introduce una serie di complesse questioni concernenti il difficile equilibrio tra esigenze punitive dello Stato e garanzia dei diritti fondamentali riconosciuti a ciascuna persona ristretta.
A tale delicato equilibrio facevano già riferimento le Regole penitenziarie europee nella loro prima versione del 1987, nella misura in cui, alla Reg.64 sancivano che «la detenzione, comportando la privazione della libertà personale, è una punizione in quanto tale, per cui, la condizione detentiva ed i regimi penitenziari non devono aggravare la sofferenza inerente alla stessa, salvo come circostanza accidentale giustificata dalla necessità di isolamento o dalle esigenze della disciplina» e, per ciò che concerne specificamente l’importanza delle relazioni familiari, alla Reg.65, raccomandavano l’assunzione di un particolare sforzo da parte degli Stati membri affinché «i regimi degli istituti penitenziari fossero regolati e gestiti in maniera tale da […] mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi di entrambi».

Questo perché, come risaputo, la problematica relativa al rapporto tra detenzione e famiglia non riguarda solamente gli aspetti privativi che colpiscono il soggetto recluso ma produce i suoi effetti anche nei confronti dei familiari, i quali, per questo motivo, spesso sono definiti alla stregua di “vittime dimenticate”.
In tal senso, le autorità penitenziarie devono pertanto impegnarsi nel creare condizioni affinché possano essere salvaguardati e, all’occorrenza implementati nel modo migliore possibile i contatti con il nucleo socio-familiare di appartenenza, in quanto – come ricordato a più riprese tra i principi enunciati dal Consiglio d’Europa – ritenuti mezzo indispensabile per arginare gli effetti potenzialmente nefasti della detenzione, posta la rilevanza del sostegno morale e materiale che i familiari, in particolare i figli, possono fornire ai detenuti nell’ottica di incoraggiarne il processo di risocializzazione e di ricostruzione della propria identità personale. D’altra parte, giova sottolineare che anche il mantenimento di contatti regolari con la figura genitoriale reclusa può generare un impatto altresì positivo sulla vita della prole, nonché effetti apprezzabili indirettamente sull’intera collettività in termini di prevenzione della recidiva.
La valorizzazione del ruolo della famiglia nel contesto carcerario viene fissata, anzitutto alla Reg. 17.1, la quale prevede l’assegnazione di ciascun detenuto, per quanto possibile, «ad istituti vicini alla propria famiglia o al luogo di reinserimento sociale» mentre la Reg.24 dedica un intero capo alla trattazione del tema dei “contatti con l’esterno”, facendo eco a quanto disposto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo in merito alla tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Invero, al pari dell’art.8 C.e.d.u., la Reg. 24 può essere letta come il conferimento alle autorità penitenziarie della responsabilità di garantire il rispetto di questo diritto fondamentale, ancorché in condizioni eminentemente restrittive quali sono quelle imposte dal regime carcerario, fermo restando il riconoscimento, analogamente a quanto previsto nel §2, della possibilità di limitare e sorvegliare tutti i tipi di contatto qualora ciò sia necessario per motivi legati al buon ordine e alla sicurezza dell’istituto o ad esigenze cautelari, purché tali restrizioni siano sempre definite in conformità alla legge e siano il meno intrusive possibili, tenuto conto del rischio che ne giustifica l’imposizione.
Inoltre, la Regola in questione, sulla base dell’affermazione per cui il mutuo godimento di un legame affettivo stabile da parte del genitore detenuto e della prole costituisce un elemento fondamentale della vita familiare a norma dell’art.8 C.e.d.u., impone, al §4, l’obbligo positivo di adottare «modalità di visita che permettano ai detenuti di sviluppare e mantenere relazioni familiari il più possibile normali», nonché, al §5, di «aiutare i detenuti a mantenere un contatto adeguato con il mondo esterno», all’uopo, promuovendo prassi di sostegno alle famiglie, anche attraverso la predisposizione di una rete di assistenza sociale appropriata.
Nello specifico, in tema di legami familiari, l’elaborazione delle nuove Regole penitenziarie europee ha efficacemente messo in luce la scrupolosa attenzione delle istituzioni internazionali rispetto alla questione carceraria femminile sotto una pluralità di profili di particolare rilievo e delicatezza, tra cui la problematica tutela del rapporto tra madri e figli minori in carcere.
A tale proposito, vessillo di tale focus è la Reg. 34, con cui si statuisce, ai §1 e §2 che «le autorità devono porre una particolare attenzione ai bisogni fisici, professionali, sociali e psicologici delle donne detenute al momento di assumere decisioni che coinvolgano qualsiasi aspetto della loro detenzione» imponendo l’opportunità di intraprendere «sforzi particolari al fine di permettere l’accesso ai servizi specialistici» necessari per fronteggiare tali specifiche esigenze.
La rassegna delle linee guida è assai variegata, investendo, nel suo complesso, l’intera disciplina del trattamento delle donne detenute: all’enunciazione di principi generali, seguono infatti indicazioni più specifiche il cui comune denominatore è l’esplicita sollecitazione, in capo alle singole autorità penitenziarie, di adottare provvedimenti speciali nei diversi ambiti che caratterizzano la detenzione femminile.

Quanto all’aspetto della maternità vissuta in carcere, il principio chiave enunciato alla Reg.24 trova una sua specificazione nella necessità secondo cui le madri detenute devono essere messe nella condizione di poter mantenere un legame con la prole il più possibile simile a quello che sussisterebbe se non si trovassero in regime di detenzione. Ciò può includere la possibilità di ricevere visite regolari da parte dei figli, di essere trasferite in istituti penitenziari che permettano di beneficiare della vicinanza al nucleo familiare, di partecipare a programmi di formazione e riabilitazione, compresi quelli che mirano a coadiuvarle nella cura dei propri figli, di avere accesso ai servizi di assistenza psicologica, al fine di aiutarle a superare lo stress ed il trauma associati alla detenzione o all’eventuale lontananza dalla prole, nonché di assistenza e sostegno all’infanzia.
In tal senso, la Reg.34.3, nel considerare i diversi servizi specialistici di cui possono necessitare le donne in carcere, dedica particolare attenzione a quelli concernenti la gestazione e la gravidanza, accordando alle detenute la possibilità di «essere autorizzate a partorire al di fuori del carcere» e, qualora «un bambino nasca all’interno di un istituto» prevedendo l’obbligo in capo alle autorità di «fornire l’assistenza e le infrastrutture necessarie».
Rileva, dunque, l’estrema importanza di garantire alle detenute il diritto di ricevere cure mediche adeguate durante la gravidanza, il parto ed il periodo post- natale e, ove queste ultime vengano tradotte in strutture esterne, ad esempio per il parto, di essere destinatarie di un trattamento conforme al principio di dignità umana. Tale raccomandazione, peraltro ripresa dalle Regg. 60 e 68, assume particolare pregnanza al fine di limitare l’eventuale uso di misure di contenzione, specialmente a fronte di episodi che hanno messo in luce situazioni in cui donne in stato di restrizione si sono trovate a partorire in condizioni inumane e degradanti, superando la soglia minima per invocare l’art. 3 C.e.d.u.
Se da un lato, la gravidanza e la maternità rappresentano aspetti che, in quanto sorretti da significative spinte promananti dall’ordinamento sovranazionale, risultano dotati di una solida tutela; dall’altro, risulta altresì essenziale dirimere la controversa questione di quali siano le condizioni adeguate da assicurare quando un bambino si trova a condividere il tempo della detenzione con la madre all’interno di una struttura carceraria.
Degna di menzione in tale sede è la Reg.36.1, la quale riconosce il diritto «ai bambini in tenera età di permanere in istituto con il proprio genitore», nello specifico con la madre, purché tale scelta sia assunta «unicamente nell’interesse preminente del minore medesimo», al contempo raccomandando che, qualora quest’ultimo resti all’interno della struttura carceraria, non debba essere considerato alla stregua di un individuo detenuto, conservando, pertanto, i diritti riconosciuti ai bambini nella società libera.
Differentemente rispetto a molti altri strumenti di tutela internazionali, la Regola in questione si applica ad entrambi i genitori e subordina la possibilità di consentire la convivenza con i figli in carcere al noto criterio decisivo del “best interest of the child”, senza stabilire, tuttavia, il limite massimo di età, superato il quale, il legame genitoriale si interrompe, comportando l’allontanamento del minore dal contesto detentivo. Resta fermo l’obbligo in capo a ciascuna amministrazione penitenziaria di assicurare che l’ambiente deputato ad ospitare il bambino in tenera età sia idoneo ad accoglierlo e a salvaguardare le sue peculiari esigenze in ragione del suo particolare status.
Tra i provvedimenti da adottarsi in tal senso, spicca l’adozione di speciali misure, tra cui l’allestimento di strutture quali nidi d’infanzia con personale qualificato ove poter collocare la prole quando i genitori sono impegnati in attività alle quali non è autorizzata la presenza della stessa, nonché la predisposizione di specifici alloggi, dotati di tutte le facilities funzionali alla tutela del suo benessere psico-fisico.
La ratio di tale previsione riprende quella sottesa alle indicazioni in tema di minori detenuti, contenute rispettivamente alle Regg. 11 e 35, secondo cui, qualora un minore di anni 18 sia «eccezionalmente detenuto in un istituto per adulti, la sua condizione e i suoi bisogni debbono essere disciplinati da regole speciali», dovendo dunque le autorità «fare in modo che questi possa accedere, non soltanto ai servizi offerti a tutti i detenuti, ma anche ai servizi sociali, psicologici e educativi equivalenti a quelli che sono accessibili ai minori che vivono nella società libera»

Questo brano è tratto dalla tesi:

La tutela della maternità e dell'infanzia ''recluse'': tra sollecitazioni sovranazionali e riforme (incompiute) dell'ordinamento penitenziario italiano

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Informazioni tesi

  Autore: Chiara Laigueglia
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2022-23
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Franco Della Casa
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 727

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