Il fumetto come letteratura e arte: Vittorio Giardino

Max Fridman è una spia, ma non la classica spia del nostro immaginario alla James Bond, tanto per intenderci. Lascia da parte l’azione a ogni costo, gli innumerevoli viaggi, per lo più in posti esotici e lussuosi, le belle donne e la loro conquista e si concentra più sulla riflessione, sul ragionamento e sui comportamenti umani con le loro cause e le loro conseguenze.

Naturalmente, essendo una spy-story non mancano certo azione, viaggi, belle donne e la loro immancabile conquista, ma queste non prendono il sopravvento all’interno della storia. Giardino, infatti, come per Sam Pezzo, si era ispirato ai romanzi americani di Hammett e Chandler, così per Max Fridman si ispira ai libri degli inglesi John Le Carrè e Graham Greene piuttosto che a quelli di Ian Fleming.

E anche per quanto riguarda le sembianze del protagonista, Giardino sceglie di modellarlo sul proprio aspetto, come aveva già fatto per il suo personaggio precedente. Naturalmente il tempo è passato. Non ha più i baffi del detective privato, o meglio, non ha più solo i baffi, ma una barba ben curata e non fuma più le sigarette, ma la pipa. Inoltre Max Fridman "ci appare malinconico, sommesso, macerato sicuramente da un passato impietoso[…], incapace di non andare avanti nonostante tutto". Per lui, coinvolto, suo malgrado, dai servizi segreti francesi, l’avventura sembra l’unica scelta possibile.

Mentre le spie alla James Bond vanno verso il pericolo, sicure di salvarsi e quindi con incoscienza, il protagonista delle nostre avventure, no. Vi va, appunto, perché costretto, contro la sua volontà. "E’ un personaggio determinato e malinconico, abile e disilluso, che sente sulla propria pelle le ingiustizie e le miserie del suo tempo". Ne farebbe volentieri a meno. Ma una volta in azione è perfettamente in grado di agire, di comportarsi secondo i più perfetti criteri di una vera spia di professione e risulterà anzi il migliore uomo a disposizione del servizio segreto francese.

Le sue vicende si svolgono nell’Europa della fine degli anni Trenta del ventesimo secolo, poco prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale e prima che esplodesse l’orribile follia delle dittature nazifasciste. È un’Europa ancora serena, quasi addormentata, che non si accorge di ciò che sta succedendo, o che non vuole accorgersene. Anche i nostri protagonisti non se ne accorgono e alla fine della storia si trovano ad assistere stupiti e impotenti all’ invasione dell’Austria da parte delle truppe tedesche.

La prima avventura di Max Fridman, Rapsodia Ungherese, si apre a Budapest il quattro Febbraio del 1938. Piove. Un signore come tanti entra in un bar, ordina da bere al bancone, parla con il barista e scherza con la cassiera, quando viene improvvisamente ucciso con un colpo di pistola da due uomini che sembravano essere altri due normali clienti del bar. Subito la scena si sposta in una strada ed ecco un altro omicidio. Questa volta un uomo viene investito da una macchina. Adesso siamo sul tram che passava da quella strada in quel momento, dove vediamo una ragazza che evidentemente conosceva la vittima, ma non parla, ha paura perché si sente in pericolo anche lei. Telefona a quello che sembra essere il suo superiore che tenta di calmarla anche con una certa sufficienza, ma non c’è tempo, l’hanno rintracciata nella sua casa e vogliono ucciderla. Disperata si getta dalla finestra.