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The Iranian Youth Bulge: la Persia tra ieri, oggi e domani

Movimento Verde: “Dov’è il mio voto?”

Le proteste del nuovo secolo – inteso secondo il calendario nostrano – hanno vissuto stagioni intense, tregue, alti e bassi che hanno lasciato spazio a differenti interpretazioni.
Come visto nell’analisi storica relativa al primo capitolo, anche la stagione rivoluzionaria ha visto fasi anticipatorie segnate da concatenazioni di differenti entità, benché sia errato da un punto di vista politologico affidarsi ad analogie troppo poco scientifiche per rappresentare un parametro teoretico.
Il punto più prossimo a una stagione rivoluzionaria, la Repubblica Islamica l’ha vissuto per la prima volta nel 2009, in seguito alle elezioni Presidenziali, con il fenomeno che è stato archiviato nei libri di storia come Movimento Verde.
Il giornalista e iranista Alberto Zanconato, nel suo libro Iran oltre l’Iran, racconta l’esperienza vissuta in prima persona a Teheran:
Alle dieci della sera in punto, si alzarono dall’immensa città sotto di me le grida di morte al dittatore e Allah Akhbar. Sembrava una marea che si sollevasse dal buio e scuotesse le case, come trent’anni prima, durante la rivoluzione. Era il 13 giugno 2009.
L’onda di quell’anno va stimata, come da prassi, come conseguenza di un background politico che sempre più andava ormai delineandosi.
Dopo la doppia presidenza targata Khatami, marcata da una linea riformista (spesso limitata dalle autorità teocratiche), la stagione di Ahmadinejad cominciò già tra le polemiche e un clima ostile, con accuse di brogli elettorali in favore del candidato gradito – peraltro apertamente – dalla Guida Suprema Ali Khamenei.
La Presidenza Ahmadinejad è stata segnata da grandi tensioni, spesso dialettiche, con il mondo occidentale e Israele. La crisi economica, la morsa delle sanzioni causate da un’atmosfera quanto mai ostile, stimolò una grande ventata partecipativa per le politiche del 2009.
Il regime viveva ormai di una spaccatura interna abbastanza identificabile, tra riformisti e moderati da un lato, e conservatori dall’altro.

Per grandi linee, mentre i primi tendono a un’impostazione tangibilmente repubblicana e di sinistra, i secondi rimangono fedeli all’idea khomeiniana di matrice islamica come base indiscutibile di un assetto di regime.
Furono in molti a intravedere proattivamente un varco nell’onda riformista, in grado di poter concretizzare un graduale processo di trasformazione e modernizzazione interna.
Alle porte della nuova tornata elettorale, gli sfidanti dell’uscente conservatore Ahmadinejad vennero dunque individuati in Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, due ex seguaci dell’Ayatollah Khomeini.
Il primo, già Primo Ministro dal 1981 al 1988, fu volto del regime nei durissimi anni della guerra contro l’Iraq e del consolidamento della Repubblica Islamica. Nonostante ciò, dopo un’assenza dalle scene politiche di più di un decennio, si ritrovò catalizzatore del moto riformista, di sinistra e della frangia moderata di Rafsanjani, ex-Presidente e figura primaria della politica post- rivoluzionaria.
Fu proprio Moussavi a diventare il simbolo di un movimento voglioso di riforme, di cambiamento, o semplicemente di dare un colpo di spugna alla stagione Ahmadinejad.
L’atmosfera, racconta Zanconato, era accesissima: “Tutto il Paese seguiva in televisione, per la prima volta, i dibattiti in cui i candidati si lanciavano accuse di ogni tipo. Moussavi diceva ad Ahmadinejad che era un dittatore e che aveva distrutto l’economia. Ahmadinehad rispondeva che Moussavi faceva parte di una cricca di corrotti mafiosi con a capo Rafsanjani. (…)
E poi c’era la protagonista non candidata, Zahra Rahnavard, la moglie di Moussavi, sempre al suo fianco, spesso mano nella mano. Anche questa una prima assoluta nella scena politica iraniana. Moussavi, Rahnavard, tassavi-ye zan-o mard, gridavano i suoi sostenitori nelle strade: Moussavi, Rahnavard, parità tra uomo e donna.”
Il giorno delle elezioni l’atmosfera si appesantì, le forze di sicurezza fecero irruzione in alcune sedi elettorali e fu bloccato il servizio di SMS in tutta la nazione. “Poco dopo mezzanotte, quando molti seggi avevano chiuso solo da mezz’ora, fu annunciato che già oltre un terzo dei voti era stato scrutinato e che Ahmadinejad era in testa con il 69%. Più del doppio di Moussavi”.
L’annuncio della conferma di Ahmadinejad arrivò il mattino seguente, e scatenò una serie di manifestazioni tra le vie di Teheran e non solo.

In serata, tra i tetti e le terrazze della capitale cominciarono a innalzarsi all’unisono urla e slogan di disapprovazione.
Secondo i dati ufficiali, Ahmadinejad vinse con il 60% delle preferenze.
Moussavi si dichiarò vincitore, denunciando brogli massicci e richiedendo un nuovo conteggio dei voti, seguito a ruota da altre personalità politiche come gli ex Presidenti Rafsanjani e Khatami.
Il quotidiano francese Libération si occupò ampiamente della questione.
Dapprima fornendo quelli che sarebbero stati i “veri” risultati, secondo fonti accreditate del Ministero degli Interni: Moussavi sarebbe stato primo con il 45,2% delle preferenze, seguito dal 31% di Karrubi e dal 13,6% di Ahmadinejad.
The Guardian diede maggior credito, invece, alle cifre che lo stesso Moussavi riportò, assumendo in suo favore 21,3 milioni di voti, contro i 10,5 milioni di Ahmadinejad.
Sempre Libération, il 19 giugno, parla di una frode messa in atto da una sorta di “occupazione” che sarebbe avvenuta al Ministero degli Interni iraniano per opera delle forze armate del Basij, i quali avrebbero attrezzato per 17 ore i terminali elettronici per la conta dei voti, cacciando dal loro posto i funzionari responsabili.
Altra argomentazione portata avanti fu l’inverosimiglianza, ai limiti del grottesco, di alcuni risultati: come il fatto che Karrubi avesse ufficialmente ottenuto un solo voto nella sua città natale, Aligudarz, che conta 80.000 abitanti, nonostante la sua popolarità e appoggi nel territorio. Oppure come in 77 circoscrizioni le cifre mostrassero una partecipazione rigonfiata al paradosso matematico: si andava dal 70 al 140% in più degli aventi diritto.
La stessa televisione di Stato iraniana, il 18 giugno, riconobbe 646 gravi irregolarità.
Strade e piazze divennero teatro per giorni di manifestazioni, le auto rimanevano parcheggiate intasando le arterie principali di Teheran, striscioni di contestazione rispetto al regime e al voto “usurpato” facevano da scenografia al “verde” che dominava la protesta, ormai colore simbolo del movimento che sembrava non volere accennare a smettere.
I paragoni con le proteste rivoluzionarie non tardarono ad arrivare, con Khamenei che, dopo una settimana, decise di mostrare il pugno di ferro: “Chi alimenterà l’estremismo sarà responsabile di ogni violenza e spargimento di sangue”, disse alla preghiera del Jomeh, il venerdì persiano, archiviando la vittoria di Ahmadinejad come una “scelta divina”.

E la violenza giunse, così come il sangue.
Neda Aqa-Soltan, studentessa di filosofia di 26 anni, stava manifestando insieme al proprio insegnante di musica quando venne sparata al petto e uccisa da un membro dei Basij, la milizia armata, appostato sul tetto di un’abitazione privata.
Le immagini, catturate da un video, fecero il giro del web. La giovane, accasciata sul selciato, esala gli ultimi respiri tra le braccia di due uomini disperati.
Questo video divenne virale, soprattutto tra le piattaforme social e i media internazionali, come simbolo di libertà e di lotta contro la repressione.
Quel giorno, secondo la TV di Stato, furono uccise dieci persone, ma molte altre fonti parlarono di diverse decine di vittime.
Le manifestazioni raggiunsero picchi di violenza più ampi, seppur cominciassero a decrescere. Seguirono arresti e repressioni, tra cui anche testimonianze di torture triviali e stupri.
Il web ricevette censure estese, le comunicazioni telefoniche furono bloccate, le Università a Teheran chiuse, i paramilitari utilizzarono il pugno di ferro sia contro le manifestazioni pacifiche sia con quelle violente.
Amnesty International stimò in almeno 80 le vittime delle proteste (40 secondo il regime), e oltre 5000 tra i sottoposti ad arresto, tortura e maltrattamenti.
Tra le pene disposte, anche la fustigazione e undici esecuzioni.
Uno dei gesti simbolicamente più estremi giunse dal Grande Ayatollah Montazeri (ex-successore designato da Khomeini, man mano divenuto quasi alla stregua di un dissidente), quando lanciò un appello richiedendo la destituzione della Guida Suprema Khameini, dichiarando che “I responsabili che hanno perso da un punto di vista religioso e razionale l’autorità e la salvaguardia degli affari sociali, sono automaticamente dimessi dalle loro funzioni. La loro autorità non ha più alcuna legittimità.

Il gesto, senza precedenti, fu accompagnato dalla rivendicazione di quattro dei dieci Grandi Ayatollah d’Iran, ossia Shirazi, Zanjani, Musavi Ardibili e appunto Montazeri, che il 20 giugno chiesero il riesame dei risultati e l’emissione di un “verdetto convincente”.
La figura di Hossein Ali Montazeri divenne chiave.
Come detto in precedenza, lo stesso Ayatollah Khomeini designò Montazeri come suo successore alla Guida Suprema dell’Iran.
Il tutto non andò in porto a causa delle tendenze liberali di quest’ultimo, che ebbe gravi contrasti con Khomeini negli anni subito antecedenti alla morte dell’Imam.
Secondo Montazeri, infatti, la guida del giurisperito islamico (velayat-e fadih) dovrebbe mantenersi su un ruolo d’indirizzo, esterno a una funzione legislativa o esecutiva, limitandosi a consigliare e ispirare un governo comunque indipendente dal consiglio islamico.
[...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

The Iranian Youth Bulge: la Persia tra ieri, oggi e domani

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Informazioni tesi

  Autore: DARIO PIPARO
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2020-21
  Università: UniCusano - Università degli Studi Niccolò Cusano
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Alfonso Giordano
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 105

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