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La reclusione femminile

Peculiarità del penitenziario femminile: un modello diverso da quello maschile

La detenzione femminile rappresenta una bassa percentuale nel panorama carcerario nazionale, attestandosi attorno al 4% della popolazione detenuta complessiva. Tale inferiorità numerica, si rispecchia inoltre nella letteratura, nella giurisprudenza e nell’attenzione che viene rivolta al mondo del penitenziario femminile, tanto che quest’ultimo viene definito come una «minoranza penitenziaria» al pari di quello minorile. Sono infatti minori e meno recenti gli scritti e le testimonianze che riprendono e trattano lo stile di vita, la condizione e le situazioni di convivenza delle detenute donne.

Differenza che non si rispecchia solo a livello numerico e statistico, ma che si ripropone anche per quanto riguarda la convivenza delle detenute e i loro bisogni primari necessari ad affrontare la detenzione. Ad esempio, il basso numero di carceri femminili comporta il trasferimento delle detenute in istituti che spesso sono collocati in luoghi lontani dalle abitazioni di residenza delle recluse, rendendo così difficile l’interazione e il rapporto con i propri cari all’esterno.

Generalmente il concetto di potere viene associato alla figura maschile: il carcere dunque, in quanto luogo in cui si esercita il potere, ha sembianze prettamente maschili, oscurando in parte la diversità di detenzione e la fragilità del mondo femminile. Concetto di potere non inteso in senso di rilevanza sociale e culturale, ma in quanto sinonimo di capacità impositiva, adattamento a condizioni di vita ostili e di lontananza dai propri affetti. Il soggetto intorno al quale minori e donne vengono a rapportarsi è il maschio adulto, ovvero il soggetto imputabile per la legislazione penale. Donne e minori costituiscono l’eccezione al modello e vengono accomunati nel concetto di soggetti deboli: la debolezza dei minori è non essere adulti, quella delle donne non essere uomini.

La detenzione femminile ha subito delle variazioni nel corso degli anni, soprattutto se poniamo a confronto la seconda metà del ‘900 con il XXI secolo. In particolare, negli anni ’60-’80 le detenute donne erano detenute politiche, una tipologia di detenuto molto differente da quella che invece siamo soliti osservare al giorno d’oggi, dove le detenute sono recluse principalmente per reati connessi alle sostanze stupefacenti, reati contro il patrimonio, e reati connessi alla prostituzione, condanne totalmente differenti da quelle che potevano essere attuate negli anni ’80. In quegli anni infatti, le detenute erano condannate per aver tentato di sovvertire l’ordine sociale e non la sfera domestica. Anche l’approccio al reato commesso e l’etichetta data loro è differente: prima, esse venivano considerate vagabonde, meretrici e sovversive che andavano rieducate ed aiutate da associazioni religiose ed esistenziali, in grado di deviare la trasgressione considerata come amoralità. Ora abbiamo tutt’altro scenario, avente come soggetto la donna (senza particolari inquadramenti riguardanti stati sociali o tentativi sovversivi) la cui trasgressione corrisponde all’illegalità e come tale va punita tramite la reclusione.

Ma proprio in riferimento a queste differenziazioni vengono introdotte riforme per ovviare a queste mancanze dell’ordinamento: dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 alla legge Gozzini del 1986 fino ad arrivare alla legge 8 marzo 2001 intitolata “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. Con questa legge vengono introdotte la detenzione speciale domiciliare (art. 3) e l’assistenza esterna dei figli minori (art. 5). Molte di queste modifiche furono attuate anche pensando alle detenute che al momento della reclusione avessero un figlio minore a carico nel tentativo di sopperire alle mancanze giurisdizionali in materia di carcerazione femminile con figli minori a carico. L’impatto esercitato da tali innovazioni fu in realtà minimo, dal momento che i requisiti e le condizioni per l’applicabilità (quali la non sussistenza di un concreto pericolo di reiterazione del delitto o la sussistenza di una concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli minori degli anni 10) sono spesso inconciliabili con i reati connessi agli stupefacenti e alla prostituzione, che rappresentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute madri.

Oggi gli istituti dedicati alle donne sono appena cinque su tutto il territorio nazionale (Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”), mentre nei luoghi in cui tali strutture mancano la detenzione è affidata a reparti ad hoc ricavati in carceri maschili. Quest’ultima situazione è svantaggiosa per le recluse, le quali negli istituti dedicati hanno maggior possibilità di poter condurre una reclusione calibrata e adeguata ai bisogni specifici di una donna. Tuttavia, anche nelle strutture controllate ed esaminate dall’Associazione Antigone sono emerse mancanze quali ad esempio il personale carcerario (nell’istituto di Venezia) o condizioni di sovraffollamento e precarie condizioni strutturali (in quello di Pozzuoli). [...]

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La reclusione femminile

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Informazioni tesi

  Autore: Ivan Viglialoro
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Torino
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Sociologia
  Relatore: Cecilia Blengino
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 64

FAQ

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