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Il concetto di pericolosità sociale nella più recente giurisprudenza costituzionale ed europea

Pericolosità e malati di mente: la soluzione

Gli anni '70 portarono in Occidente un vento di cambiamento che investì anche l'Italia.
A mettere su carta i nuovi pensieri ci pensò Franco Basaglia nel 1968 che, con la sua opera "L'istituzione negata", volle per primo mettere a nudo quel sistema sadico e repressivo che si celava sotto le "innocue e curative" terapie realizzate all'interno dei manicomi.

Basaglia nel suo libro negò il manicomio; negò la teoria ottocentesca per cui il malato di mente era irrecuperabile; negò il ruolo della psichiatria (lui stesso psichiatra) come ruolo di controllo sociale. Basaglia non negò che la pazzia effettivamente fosse una malattia, ma decise porre soluzione ad una questione più importante. Egli non accettava che il malato di mente venisse trattato con discriminazione, come un minorato rispetto al resto dell'umanità.

Il malato di mente non doveva essere considerato un individuo meno valevole di uno sano. Come quello sano, infatti, egli era titolare di diritti e di doveri all'interno della collettività e nei confronti di questa. Egli non poteva essere classificato come il bipolare, lo schizofrenico, lo psicotico. Gli si doveva riconoscere la stessa dignità che a tutti veniva riconosciuta. Solo se considerato "soggetto di diritto", avrebbe avuto una vera possibilità di essere curato.

Il punto cruciale stava proprio nel fatto che fra diritti e cura vi era un rapporto di pregiudizialità. Questo il pensiero di Basaglia e di tutti gli psichiatri di fine 900. Non vi era più motivo di ritenere che chi non sano di mente "è l'unico malato che non ha diritto di curarsi perché è definito pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo".

La terapia a cui questi soggetti venivano sottoposti durante l'internamento non doveva avere natura punitiva, perché così facendo i diritti del malato non potevano che essere violati – in primis il diritto alla salute, diritto inviolabile. Questi diritti era giusto venissero recuperati dopo un secolo quale l'Ottocento, che aveva portato allo stremo e alla morte migliaia di persone perché considerate bestie incurabili. Il Novecento doveva porre fine all'istituto del manicomio; istituto la cui funzione era seviziare e punire coloro che vi erano destinati. Difatti, l'internamento comportava l'iscrizione nel casellario giudiziale, la perdita dei diritti fondamentali e l'impossibilità di accedere ad un impiego pubblico.

Per restituire al malato di mente quella libertà che la psichiatria ottocentesca gli aveva tolto senza neppure indagare il motivo della sua particolare condizione di salute, era necessario preventivare una cura.

La Corte Costituzionale rimaneva della propria idea: nulla doveva essere cambiato. Nessun contrasto era stato rilevato fra norme costituzionali e norme penali. Il sistema manicomiale rispondeva perfettamente a quelle che erano le esigenze per le quali era stato inizialmente introdotto.

Il legislatore, però, si allontanò per la prima volta dalle posizioni della Corte. Le idee promulgate dal medico Basaglia stavano trovando sempre più consenso in tutte le classi sociali e di questo il legislatore non poteva non tenerne conto. Era giusto avviare una riforma dell'ordinamento in vista del cambiato rapporto che la società stava modellando con le malattie mentali. Così, la legge 431 del 1968 sulle Provvidenze per l'assistenza psichiatrica inserì la psichiatria nel sistema sanitario e introdusse il ricovero volontario.

Quest'ultimo risultò particolarmente benefico, in quanto restituiva al malato di mente capace di riconoscere il proprio stato la sua soggettività: il malato aveva la possibilità di scegliere se farsi ricoverare per un certo periodo di tempo ed evitare così eventuali traumi dati da rientri troppo precoci in società. Ad ognuno veniva dato il proprio tempo per decidere del proprio futuro, rispettando le rispettive esigenze e personalità. Di conseguenza cadeva la convinzione secondo cui tutti i malati di mente fossero incapaci di intendere e di volere, e fosse necessario che qualcuno al posto loro decidesse automaticamente del loro internamento.

Questi furono i primi passi che sfociarono poi nella legge 180 del 1978, che riformò radicalmente il sistema sanitario e manicomiale.

Gli effetti di questa presa di posizione furono istantanei. Difatti, con l'introduzione del ricovero volontario, quello coatto scomparì quasi del tutto, comportando una diminuzione del quasi 30% degli internati: i ricoverati nei manicomi nel 1964 erano 1.114, nel 1968 835, per poi arrivare a 791 nel 1969.

Nel 1976 l'Associazione medici ospedali psichiatrici italiani (A.M.O.P.I.) chiese che la legge del 1904, introduttiva dei manicomi in Italia, venisse abrogata perché aveva determinato l'isolamento e la repressione di individui in forza di un concetto infondato di pericolosità sociale. L'Associazione fu ferma nell'affermare che l'internamento di quelle persone era stato totalmente ingiustificato, oltre che barbaro, e che era giunto il momento di evitare ulteriori sevizie a persone innocenti e palesemente innocue. [...]

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Il concetto di pericolosità sociale nella più recente giurisprudenza costituzionale ed europea

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Informazioni tesi

  Autore: Maria Ludovica Pisani
  Tipo: Laurea magistrale a ciclo unico
  Anno: 2020-21
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Roberto Borgogno
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 174

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Parole chiave

costituzione
giurisprudenza
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italiana
europea
pericolosità
pericolosità sociale
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