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Le decisioni di fine vita nella legge n.219/2017

Riflessioni sulla fine della vita umana

Come anticipato nei paragrafi precedenti, la legge 22 dicembre 2017 n. 219, denominata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, si è finalmente fatta carico di una questione giuridica dirimente nell’ordinamento italiano, la regolamentazione della fine della vita umana, la quale rappresenta l’esito di un percorso travagliato.

Costituisce infatti la risposta del nostro ordinamento ad un problema che le vicende drammatiche di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro hanno posto alla società civile in maniera ormai ineludibile.

Trattasi di scelta difficile, non soltanto perché quando si discute della fine della vita umana ci si addentra “in una materia in cui di certezze assolute, valide cioè per tutti i cittadini, non ve ne è l’ombra”, ma per l’inevitabile influenza di elementi metagiuridici.
Qui è infatti il valore della vita umana a venire in risalto e lo stabilire a chi essa appartenga (se esclusivamente all’individuo o anche ad una entità diversa), il carattere disponibile o indisponibile di tale bene e, quindi, in ultima analisi, l’accertare se il vivere costituisca un diritto o un dovere per la persona, prima che problemi giuridici, costituiscono interrogativi esistenziali, ai quali hanno tentato di rispondere la filosofia, la religione, la cultura in ogni epoca dominante. E l’ordinamento giuridico, alla fine, è stato inevitabilmente condizionato da soluzioni elaborate al di fuori di esso.

Le posizioni etiche prima ancora che giuridiche fondamentali che storicamente si contrappongono sono essenzialmente due.
Da una parte vengono a collocarsi coloro che postulano la sacralità e l’assoluta indisponibilità della vita umana, ritenuta, se non un dono di Dio, comunque funzionale, oltre che all’interesse del singolo, all’interesse della collettività, in quanto l’uomo rappresenterebbe “una fonte di ricchezza e di forza come elemento riproduttore della specie, come lavoratore, come soldato”.

La vita non apparterrebbe più al singolo, in tale prospettiva, ma ad un’entità superiore: Dio, in una dimensione religiosa, la società, secondo una concezione dirigistica statalista e autoritaria, che considera l’individuo principalmente quale membro della comunità, ponendo l’accento sui suoi doveri verso la famiglia e verso lo Stato. In questa visione si configura, dunque, non più un diritto ma un vero e proprio dovere di vivere a carico del singolo.

Ispirati a questa logica sono l’art. 579 c.p. riguardante l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, che conferma come la tutela penale della vita operi indipendentemente dalla volontà della persona titolare del bene51, l’art. 580 c.p. il quale, sanzionando l’istigazione o l’aiuto al suicidio, attesterebbe l’inconfigurabilità di un diritto di vivere o di morire, esercitabile insindacabilmente dal singolo, ed infine l’art. 5 c.c., che pone il divieto degli atti di disposizione del proprio corpo, laddove ledano l’integrità fisica della persona.
Tuttavia, mal si concilia tale orientamento con il principio personalistico, espresso nell’art. 2 Cost., il quale pone al centro dell’ordinamento giuridico l’individuo, considerandolo “un valore etico in sé”. Da questa angolazione, non è consentita la strumentalizzazione della persona “per alcun fine eteronomo” e “l’intervento solidaristico e sociale” deve essere concepito “in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa”.

Vi è poi l’orientamento opposto, il quale, invece, esalta il principio di autodeterminazione teorizzando così la disponibilità della vita, la libertà del singolo di fare qualunque cosa a condizione che non siano lesi i diritti e le libertà altrui e, in campo terapeutico, il “diritto di decidere la sorte del proprio corpo, della propria vita, delle terapie” che possono essere accettate o rifiutate. In particolare, dalla regola espressa nel secondo comma dell’art. 32 Cost. (“Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) viene tratto il fondamentale diritto di non curarsi il quale diviene, al suo estremo, diritto di lasciarsi morire.

Diritti che, più in generale, vengono radicati nel fondamentale valore dell’inviolabilità della dignità della persona, sul presupposto che, esistendo l’autodeterminazione in ordine alla qualità della propria vita, soltanto il singolo sarebbe legittimato a decidere fino a quando questa possa considerarsi degna e meriti di essere vissuta. Affrancato dal potere medico (qualsiasi intervento terapeutico è subordinato al consenso informato dell’interessato) e prima ancora da quello politico (non esiste, sostanzialmente, un obbligo di cura), l’individuo rivendica anche il diritto di morire, come ultimo atto di un processo di riappropriazione del proprio corpo, con il rischio della sua reificazione. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Le decisioni di fine vita nella legge n.219/2017

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Informazioni tesi

  Autore: Federico Lauri
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2018-19
  Università: Università degli Studi di Roma Tor Vergata
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Paolo Papanti Pelletier
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 147

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Parole chiave

eutanasia
consenso informato
aiuto al suicidio
disposizioni anticipate di trattamento
decisioni di fine vita

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