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Etica ed Estetica di una Restituzione Moderna. Proust e Sebald, poetica di un istante.

Sebald e la Storia Naturale della Distruzione

La Recherche di Marcel Proust è certamente uno dei testi più significativi del Novecento. La sua influenza sul panorama europeo segna in maniera definitiva il passaggio da una concezione temporale di stampo positivista a un concetto di tempo qualitativo, soggettivo, non misurabile. Si tratta di un’opera che tanto in Francia quanto nel continente non è stata presa a modello, dal momento che Proust ha compiuto una disamina così approfondita e vasta delle proprie argomentazioni intellettuali tale da saturarle. Per quanto si possa discutere – e si è in effetti discusso – in proposito, ciò non toglie che la Recherche offra un minuzioso percorso intellettuale alla ricerca della Verità; percorso che culmina con la sconfitta dell’intelligenza e la promozione del caso e della fortuna quali elementi fondamentali per attingere all’esperienza extratemporale del vero. Tuttavia, per quanto l’opera proustiana rappresenti un caposaldo nella storia della letteratura, e abbia posto le basi per un’interpretazione della sua epoca e della temporalità, il suo autore non poté prevedere le drammatiche vicende che si accumularono negli anni a seguire. La seconda guerra mondiale, che si conclude con la visione catastrofica degli effetti della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, segna una cesura netta tra un prima e un dopo nella storia occidentale. La Recherche, che parla di verità e di illuminazione dall’alto, di rivelazione, si arresta sulla soglia del più grande trauma dell’età contemporanea. Il concetto di temporalità, che Proust aveva brillantemente, a suo modo, elaborato e concluso, si trova a dover fare i conti con avvenimenti che hanno minato la capacità mnemonica di intere popolazioni e messo in discussione il concetto stesso di umanità. Nel 1945 il panorama europeo è un cumulo di macerie su cui grava il peso della morte e dello sterminio. Tanto gli eventi che portarono a ciò, quanto le conseguenze e lo status in cui vennero ridotti i territori coinvolti nel conflitto, avrebbero dovuto ricondurre storici e letterati di fronte agli abissi inattingibili del trauma e della catastrofe. Ma solo i paesi offesi dall’avanzata tedesca dimostrarono una reazione in tal senso. La storia dimostra infatti come l’esito di un qualsiasi scontro tra differenti popolazioni, nazioni o etnie, comporti la continuazione di una data memoria e l’oblio o la riduzione a minoranza di un’altra -uno scontro che certamente non suscita l’immediata impressione di un cruento conflitto sul campo di battaglia, ma i cui effetti si avvertono sul presente e sul futuro delle generazioni a seguire, sulla loro identità culturale e sulla concezione del mondo in cui vivono.

Questo concetto, ripetuto in maniera diversa da molti storici e intellettuali, è insito nella concezione storicista della storia., che privilegia l’univoca voce dei vincitori, perché lineare e ininterrotta. Lo storicismo privilegia, in sostanza, la possibilità di tramandare una successione logica e significativa di eventi, rifiutando così la complessità degli eventi passati. Tuttavia, se teniamo conto dei fatti che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento, non è più possibile aggrapparsi a una concezione storica che tratti i fatti e gli eventi come oggetti di accumulo in favore di una spiegazione logica; né tanto meno sostenere l’ipotesi di una linearità storica di fronte al vuoto del trauma in cui cadde l’occidente. L’intento del Terzo Reich di eliminare non soltanto la razza ebrea, ma l’intera cultura ebraica, si è dissolto nel paradosso di un secolo – il XX – che ha assunto come simbolo la memoria della Shoah. Nel dopoguerra i testimoni ruppero il muro del silenzio sui campi di sterminio, e ciò non soltanto, a livello teorico, mostrò i limiti di una concezione lineare della storia, ma rappresentò anche un ulteriore pesante macigno nelle coscienze degli oppressori: quel popolo tedesco che per più di cinquant’anni, come dimostra Sebald, si è trincerato nel silenzio. Non che in Germania, dal 1946 in poi, non vennero pubblicate delle opere sulla distruzione delle città tedesche, ma come vedremo presto l’élite intellettuale, che comprendeva filosofi, scrittori, giornalisti, artisti e scienziati, non è stata in grado di elaborare la devastazione subita. Ciò, in Germania, non solo ha marcato il confine sempre più netto tra una storia precedente alla seconda guerra mondiale e una successiva, ma oltretutto non ha in alcun modo ostacolato la terribile opera di ricostruzione del paese…[…]

Restituire un’immagine umana dell’accaduto è ciò che Sebald affida, senza altre alternative, alla letteratura. È sufficiente partire da queste premesse per osservare delle differenze sostanziali tra ciò che la letteratura e la temporalità rappresentavano al tempo di Proust, e ciò che divennero negli anni successivi. Dapprima un mondo in cui uno spiraglio poteva offrire, senza l’intervento dell’intelletto, il balsamo della verità; successivamente un microcosmo vertiginoso senza più verità, inghiottito negli abissi dell’oblio, il cui solo appiglio diventa l’artificio. Ciò che Proust – senza mezzi termini -cercava di evitare, pura e integra com’era la verità di cui poteva godere l’essere extratemporale. Non è certamente un caso, tuttavia, che ogni materia avente a che fare con la ricerca della verità, nel secondo dopoguerra, si ritrovi drasticamente in crisi: l’arte si allontana in maniera netta dal figurativo affacciandosi alle future post-avanguardie e all’analisi critica della pittura; la filosofia, che nella storia dell’uomo si è sovente affidata al concetto di verità per manifestare la sua portata intellettuale, si trincera all’interno del mondo asettico e insensibile della filosofia analitica. In campo letterario invece, a partire dagli anni sessanta si assiste all’insurrezione lenta ma significativa del popolo ebreo deportato nei lager nazisti: Jean Améry, Elie Wisel e Primo Levi sono solo alcuni tra i più conosciuti scrittori e intellettuali che hanno portato alla luce la loro testimonianza, e alimentato in maniera sensibile la discussione sugli orrori subiti e sul tema della memoria. Il concetto di verità non cessa certo di esistere nel bagaglio intellettuale umano, il quale conserva come fedele alleato il progresso tecnologico e lo sviluppo delle scienze naturali quali forma pragmatica di una verità avvalorata da dati empirici. D’altra parte la ‘storia’ dell’uomo insegna che il progresso scientifico intraprende il suo cammino verso la verità attraverso l’intelligenza, e per quanto utili o significative saranno le sue scoperte, all’occhio dell’intellettuale in cerca della Verità, l’obiettivo ultimo della scienza sarà sempre rimandato. Anche la Recherche, in un certo modo, osservando i limiti dell’intelligenza, dovendosi arrendere a una concezione auristica, epifanica della verità, collabora a costruire un paradigma di sfiducia nei confronti dell’intelletto umano. Ma a differenza delle scienze naturali, Proust descrive un mondo in cui il caos e la fortuna sono elementi fondamentali per l’incontro con la verità, un mondo in cui la verità esiste nella sua integrità, e in quanto tale non teme l’oblio e la dimenticanza. Ma nella Germania del dopoguerra la situazione è stravolta: si tratta di un mondo a parte, dove «[si ergevano] selbst nach 1950 noch Lattenkreuze auf den Schutthalden».
Eppure, fatto emblematico, di ciò che il popolo tedesco aveva subito – il totale annichilimento delle proprie principali città – non viene quasi riportata notizia…[…]

A differenza delle guerre passate, scatenate per la sete di potere e di conquista, la seconda guerra mondiale dimostrò di essere una guerra votata all’annichilimento del nemico, del suo territorio e della sua cultura. Il fatto che la Germania abbia assunto per prima tale dogma, e l’abbia consumato fino alla progettazione delle fabbriche di morte, non dovrebbe per questo giustificare un atteggiamento disinteressato ai confini etici, morali e umani che il nazismo aveva superato. Per quanto sia evidente la parzialità di una qualsiasi narrazione, di qualsiasi testimonianza nei confronti dell’accaduto, ciò che si abbatté sulle città tedesche rappresentò una catastrofe tale da provocare un completo sradicamento dalla realtà più comunemente intesa…[…]

La storiografia trascrive il corso degli eventi. Non sempre questa trascrizione si avvale di un tessuto mnemonico: la narrazione storica della Germania nel dopo guerra è un esempio di questa mancanza. Come dimostrarono il nazismo e il fascismo, la storia e l’individuo interagiscono a favore di determinati scopi quando vengono agglomerati da un ideale di nazione o di collettività: Hitler rimodellò la cultura tedesca attingendo non solo alla storia antica, ma al mito e alla cultura popolare, dal momento che dissolvere l’individuo nel collettivo è una necessità primaria per qualsiasi totalitarismo. Quando il Terzo Reich cadde, il paese venne gettato in un abisso senza radici, incapace di ripercorrere sia la strada del proprio passato recente – sconvolta dal trauma – sia quella più antica, anch’essa chiamata in causa dall’ideologia nazista. È evidente, dunque, che la storiografia non avrebbe potuto essere di nessun aiuto alla memoria collettiva del popolo tedesco. Come Sebald afferma, è dalla letteratura che ci si sarebbe potuti aspettare una riflessione più profonda, in grado di colmare le distanze che separavano la coscienza nazionale da un passato non ostile, di riconoscere il duplice trauma subito nella devastazione propria e altrui, e di concedere un appiglio improprio nella terra straniera che sembrava essere diventata la Germania per il suo stesso popolo. […]

Come vedremo, la posizione di Sebald è vicina a quella di Nossack, e si dissocia in maniera netta dalla scrittura di Kasack e de Mendelssonhn. Gli esempi che riporta vengono catalogati come descrizioni enfatiche o drammatiche di una realtà già di per sé esasperata, satura di eccesso e di tragedia. Tenendo conto di tutte le sue opere, possiamo affermare che egli non condivideva la tendenza narrativa dei due autori, privilegiando – come dimostra nella sua scrittura - una forma più prosaica.

Anche nell’opera di De Mendelssonh, Die Kathedrale [La Cattedrale] Sebald riscontra un tentativo di riproduzione degli effetti «drastischsten» della distruzione, dove rimane però «eine fatale Neigung zum Melodramatischen dominant». Seguendo l’ideale del vero a cui egli fa appello in Luftkried und Literatur, possiamo comprendere come ciò che parrebbe mancare sia una coscienza di fondo in grado di rendere evidente la necessità di una nuova forma di letteratura, capace di soddisfare, sebbene impropriamente, le esigenza di una memoria collettiva traumatizzata. Kasack e de Mendelssonh hanno certamente il merito di parlare del dramma, ma le loro opere si fondano su un principio rigeneratore, sulla volontà di ‘togliere di mezzo’ le macerie per andare avanti: drammatizzare o mitizzare l’accaduto, infatti, significa cercare di rinchiudere gli avvenimenti verificatisi sulle città tedesche in una loro narrazione, così che tutti i lettori si trovino di fronte a un atto estetico di parziale estromissione dalla realtà.

Ma in questo caso l’imperativo proustiano secondo cui la verità non è conoscibile, ma soltanto acquisibile, è valido anche per il trauma. Sotto questo profilo il trauma rappresenta l’autentico in assenza di relazioni: la coscienza che informa di sé la scrittura di Sebald, e che mancò a Kasack e de Mendelssonh, è quella della necessità di un percorso che sappia ripartire dalle macerie, dai frammenti, dalla parzialità e dalla caligine nella quale è caduta l’identità nazionale. Se in Proust l’autentico e il vero finiscono per collimare nell’essere extratemporale, in Sebald si scindono affinché la verità possa essere ricostruita tramite l’artificio della letteratura. In questo modo la letteratura assume un ruolo etico nei confronti dell’umanità, se non addirittura gnoseologico ed escatologico: l’unica forma espressiva in grado di sfidare l’imperativo che Wittgenstein detta nel suo Tractatus, secondo cui su ciò, che non si può pensare, neppure si può parlare. Dopo i romanzi di Kasack e de Mendelssonh, Sebald prende in considerazione uno dei pochi autori dimostratisi in grado di raccontare l’accaduto in maniera nuda e cruda, priva di formalismi o censure.

La letteratura europea nel primo Novecento trovò nelle avanguardie – in particolare nel surrealismo e nel dadaismo – un approccio al testo che si oppose al consueto principio soggettivo della narrazione. Le poesie surrealiste, per esempio, venivano elaborate a tavolino da un gruppo di scrittori in maniera del tutto casuale. Il loro intento era quello di produrre scritti e opere artistiche in grado di spezzare il filo diretto della volontà univoca del narratore, della logica e della razionalità che interpretavano la realtà e l’arte esclusivamente attraverso le proprietà intellettuali. La situazione tedesca nel 1946 richiede un punto di vista analogo: la letteratura ha il dovere di costruire una «einem synoptischen, künstlichen Blick»dei fatti accaduti. Per fare ciò occorre prima di tutto abbandonare la pretesa di una verità integra e intellegibile, in favore di un vertiginoso, doloroso e disarticolato percorso di rivalutazione dell’effimero e del frammentario: fotografie, dati, oggetti, macerie, numeri e nomi. Il microcosmo della realtà tedesca dopo la guerra è un groviglio di frammenti destinati a scomparire sotto il peso della ricostruzione. Per questo motivo la letteratura diviene archeologia: l’immaginazione non può più compiacersi del suo esercizio di libertà dalla realtà, ma deve invece erigere ponti vertiginosi sull’abisso del trauma, da frammento a frammento. […]

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Etica ed Estetica di una Restituzione Moderna. Proust e Sebald, poetica di un istante.

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Informazioni tesi

  Autore: Giangiacomo Morozzo
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2013-14
  Università: Università degli Studi di Bergamo
  Facoltà: Lettere
  Corso: Culture Moderne Comparate
  Relatore: Daniele  Giglioli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 117

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