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L'immagine di Sparta nel pensiero umanistico dei secoli XV e XVI

Sparta e Roma nei “Discorsi” di Machiavelli

Stettono Roma e Sparta molti seculi armate e libere” scrive Niccolò Machiavelli nel capitolo XII del De principatibus. Ora, se ci s’imbattesse in questa frase isolata ed estrapolata dal pensiero globale dell’ormai ex segretario della Cancelleria di Firenze, sarebbe lecito lasciarsi prendere dallo sconforto: davvero persino da parte del grande teorico politico fiorentino ci troviamo davanti, ancora una volta, a un monocorde incensamento della città lacone per la sua proverbiale longevità? Ovviamente no, Machiavelli, anche per la sua sostanziale primogenitura nell’accogliere la lezione polibiana, fu capace di introdurre nella cultura europea e umanistica del Rinascimento elementi profondamente innovativi nella ricezione dell’immagine di Sparta. La città e il suo ordinamento, seppur non centrali – com’è comprensibile – nella speculazione di Machiavelli, sono ben presenti all’interno del suo pensiero, avendo un ruolo rilevante nel delineare alcuni suoi caratteri più radicali e originali. Si guardi adesso più nel dettaglio l’asserto in apertura di paragrafo. Esso suggerisce un punto di natura strutturale e due temi cardine all’interno dell’opera di Machiavelli: 1) Sparta, sulla scorta dell’impostazione di Polibio, si accompagna ogni volta a Roma e, qualora appaia discosta da questa, la sua menzione è sempre strumentale a un discorso più ampio che la lega all’Urbe; 2) ancora con Polibio, Roma e Sparta sono le città, le “repubbliche” antiche libere per antonomasia, perché – e questa è un’idea tutta machiavelliana – 3) erano “armate”, cioè i loro eserciti erano composti dai liberi cittadini e non dalle tanto detestate “arme mercenarie”. Nota è la sua avversione per le truppe mercenarie, frutto dell’esperienza maturata sul campo come segretario dei Dieci di Balìa prima e come cancelliere dei Nove poi: la rivolta di Pisa, l’osservazione degli eventi a lui contemporanei, come la disfatta dei mercenari al soldo di Venezia nel 1509 ad Agnadello, e indirettamente anche lo studio dei testi antichi lo portarono alla granitica convinzione che una città dovesse dotarsi di “arme proprie”, se questa volesse rimanere libera. Sulla materia, risalta il giudizio netto e sferzante nell’incipit al libro ventunesimo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dall’inequivocabile titolo Quanto biasimo meriti quel principe e quella republica che manca d’armi proprie: “Debbono i presenti principi e le moderne republiche le quali circa le difese et offese mancano di sodati propri, vergognarsi di loro medesime”.

Non v’è clemenza per le “inutili e pericolose” armi mercenarie, che in tutta l’opera del Segretario sono ripetutamente vituperate. Pertanto, la generale considerazione di Sparta come armata e libera, ci permette di introdurci nel fulcro del discorso machiavelliano. Si puntualizzi subito questo: la Sparta di Machiavelli è quella dei suoi Discorsi, ma allo stesso tempo la Sparta di Machiavelli non è solo quella di Polibio, che non è assolutamente la sua unica fonte. Ancorché l’immagine polibiana sia la più influente e la più silenziosamente presente, soprattutto nei primi diciotto capitoli del libro I, è del tutto evidente la familiarità di Machiavelli anche con Plutarco e le sue Vite di Cleomene III e Agide IV e molto probabilmente anche con il suo Licurgo. Con un approccio forse poco ortodosso, tentiamo di sviscerare il “discorso” spartano del Segretario a partire dal crepuscolo della storia della polis greca; ci addentreremo dopo nella questione costituzionale di marca polibiana. Il “crepuscolo” della storia spartana è incarnato dalle parabole dei cosiddetti re riformatori, Agide IV e Cleomene III; essi tentarono, sul finire del III secolo a.C. di “ridurre gli Spartani intra quegli termini che le leggi di Ligurgo gli avevano rinchiusi”, cioè di ripristinare l’originale costituzione del legislatore. Sebbene compaiano in un solo luogo dell’opera, il capitolo nono del libro I, essi acquisiscono un significato particolarmente rilevante. Infatti, messi a confronto con Romolo e i congiurati che scacciarono i Tarquini, sono elogiati per il loro tentativo “giusto e laudabile” e tuttavia “imperfetto”, anche se il fallimento si verificò solo per cause di forza maggiore. A indurlo a soffermarsi su di loro, d’altro canto, non furono tanto i nobili propositi dei due re che si prefissero di “risuscitare Sparta” rinnovando le leggi di Licurgo, quanto invece le modalità con cui Cleomene mirò a realizzarli, appresa in fretta la lezione da Agide. Questi, appunto, fu fatto mettere a morte dagli efori in accordo con il suo collega Leonida II, padre dello stesso Cleomene, quando essi seppero dei suoi disegni. Cleomene, salito al trono, raccolse l’eredità del predecessore e promosse quelle riforme tanto necessarie. Per realizzare tali fini, fece strage di ogni possibile oppositore: assassinò gli efori, forse fece uccidere il suo collega ancora ragazzo, Eudamida III, figlio dello stesso Agide, e, dopo l’effimero regno del successore di Eudamida (anche lui ebbe una morte violenta), pose sul trono vacante il fratello, poiché l’altra dinastia reale di Sparta era ormai estinta. Per Machiavelli questi è un esempio virtuoso, poiché, posto che chi desideri il mutamento politico, da condursi anche per mezzo della forza, “abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene comune”, è necessario “essere solo”, affinché si possa attuare una riforma radicale degli ordini dello stato; come Romolo che subito istituì il senato, eliminati il fratello Remo e il collega Tito Tazio. È chiaro, da questo come da altri passaggi famosi, che per il teorico fiorentino sia ammesso anche l’omicidio, seppur sotto queste premesse (cioè ad opera di un principe virtuoso, e non per “scelleratezza”). Questa posizione emerge implicitamente dalla narrazione dei fatti dei re Spartani, ma viene espressa a chiare lettere ben due volte, in quelle che appaiono nient’altro che due perifrasi del celeberrimo detto, erroneamente attribuito a Machiavelli; prima, parlando appunto di Romolo e dei suoi assassinî, afferma: “la quale oppinione sarebbe vera (giudicare come cattivo esempio Romolo, n.d.r.), quando non considerasse che fine lo avesse indotto a fare tale omicidio”, e, più succinto ma in termini più assoluti, ancora poco sotto: “Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi”. Il pragmatismo “effettuale” è qui del tutto incontestabile e, di più, risulta significativo che per sostenerne la legittimità egli ricorra a un episodio piuttosto trascurato della storia antica. Ciò dimostra la sua vasta cultura umanistica, a dispetto di quanto possa superficialmente suggerire il fatto che fosse digiuno di greco, la sua acuta capacità di analisi (le vicende di Agide e Cleomene sono del tutto conformi a sostenere la sua tesi) e – ci piace credere – un interesse particolare per i fatti spartani.
[…]

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L'immagine di Sparta nel pensiero umanistico dei secoli XV e XVI

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Informazioni tesi

  Autore: Giulio Leopoldo Sioli Legnani
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2022-23
  Università: Università degli Studi di Trieste
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Discipline storiche e filosofiche
  Relatore: Giuseppe Trebbi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 64

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