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Questioni di punto di vista. Dalla letteratura al cinema d'animazione Disney

Tra letteratura e cinema: l’evoluzione di un linguaggio

L’excursus teorico sviluppato nel corso del primo capitolo aveva lo scopo di gettare delle basi concrete e chiare rispetto a una questione così aperta a fraintendimenti e a rivisitazioni quale è quella del punto di vista.
La scelta di inoltrarci nell’argomento passando per la sua dimensione letteraria è stata determinata dall’importanza che il romanzo ottocentesco ha avuto nell’influenzare il cinema delle origini, sia per quanto concerne il contenuto, sia per il ricorso a strategie narrative consolidate e proprie della letteratura. I primi film, infatti, si appropriarono dei temi già testati e appartenenti al romanzo borghese, ricalcandone i sentimenti e le atmosfere (Cohen, 1982). Gli elementi comuni di spazio e tempo, però, dovettero necessariamente mutare nella forma e assunsero connotati differenti passando da un medium all’altro.
Nel romanzo, lo spazio narrativo viene definito dal significato attribuito alle parole che compongono il passaggio descrittivo, comportando un’astrazione totale della sua rappresentazione, la quale resta vincolata all’interpretazione del destinatario del testo.
Di conseguenza, la dimensione temporale viene vissuta e percepita in modo intenso, sia per quanto riguarda la narrazione consequenziale degli eventi della storia, sia per la componente puramente fisica del romanzo, ovvero la necessaria presenza di un lettore impegnato nell’atto di leggere. Sebbene anche nel caso del film si possa parlare di successione temporale, una condizione paragonabile a quella del tempo letterario non è così facilmente raggiungibile. Come abbiamo accennato, a differenza di ciò che accade in un romanzo, nel cinema lo spazio domina sul tempo. Lo spazio cinematografico, infatti, non si configura come una dimensione puramente immateriale, come nel caso del corrispettivo romanzesco, ma risulta direttamente osservabile dallo spettatore, tanto che “il tempo viene percepito come cambiamento spaziale” (Metz, 1975, p. 90).
Al contrario della letteratura, in cui la descrizione dello spazio narrativo viene vissuta dal lettore come una pausa dagli eventi della storia necessaria alla comprensione della stessa, secondo Chatman il cinema si propone come un medium sostanzialmente “sovraspecifico”, intendendo con questo termine l’inevitabile sovrabbondanza dei dettagli descrittivi presenti in un’inquadratura.

[…] il descrittivismo visivo di qualsiasi film è un fenomeno «sovraspecifico», nel senso che la quantità di informazioni visive sincroniche che ogni immagine cinematografica restituisce è di gran lunga maggiore di quelle che sarebbero state sufficienti a caratterizzare una determinata situazione narrativa letteraria. In parole povere, il cinema finisce per “descrivere” aspetti della realtà che hanno un valore o un significato quasi del tutto casuali o comunque eccedono ciò che narrativamente è utile, motivato. I nèi di un attore, la forma della poltrona su cui siede, la suola delle sue scarpe: quando vedo un film, assorbo visivamente anche dati che poco mi dicono di ciò che nella storia davvero conta (Giovannetti, 2012, p. 196).

Se, da un lato, la natura descrittiva del cinema sembra superare i limiti imposti dalla scrittura, dall’altro la possibilità di concentrarsi sui dettagli spaziali “mettendo in pausa” la narrazione sembra essere una caratteristica propria della letteratura, preclusa alla forma cinematografica. In realtà, il narratore può servirsi di particolari espedienti per rendere un passaggio del racconto filmico marcatamente descrittivo. In Rear Window (Alfred Hitchcock, 1954), la storia viene presentata dal punto di vista di Jeff, fotoreporter costretto all’inattività a causa di una frattura alla gamba, il quale passa il tempo a osservare attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica ciò che accade fuori dalla finestra del suo appartamento. A differenza del resto del film, l’inizio denota la presenza di un narratore esterno che, attraverso lo sguardo della macchina da presa, presenta gli ambienti in cui la vicenda avrà luogo (Giovannetti, 2012).

The opening is a matter of showing things overspecifically: the scene offers an impression of the general ambiance without highlighting details. The viewer, however, has the option to select fragments from the shot […]. From myriad visual impressions, the viewer ‘edits’ his own description (Verstraten, 2009, p. 52).

In questo modo, il narratore sembra voler trasmettere allo spettatore un “senso implicito” appartenente allo spazio mostrato, il quale viene messo in discussione e “problematizzato”, divenendo parte integrante della narrazione (Giovannetti, 2012, p. 199). Lo spettatore è quindi tenuto ad organizzare lo spazio frammentato che si offre al suo sguardo, ricostruendo l’universo diegetico (Nepoti, 2004).
Come in letteratura, la spazializzazione può essere veicolata anche attraverso il filtro di un personaggio. Secondo Chatman, infatti, la descrizione esplicita letteraria si può tradurre nel cinema con il principio della focalizzazione e del punto di vista. Verstraten dimostra come nella trasposizione filmica di una short story di Guy de Maupassant, le descrizioni esplicite dell’istanza narrante onnisciente e non focalizzata letteraria vengano rese attraverso la rappresentazione implicita mediata dai personaggi. Nel racconto, il narratore esterno descrive Mademoiselle Dufour come una giovane e attraente donna, ignara della propria bellezza. Nell’omonimo film Partie de campagne (Jean Renoir, 1944), il narratore filmico si serve dei piani di reazione dei personaggi di sesso maschile presenti sulla scena per raccontare questo particolare aspetto di Mademoiselle Dufour, indicando allo spettatore in che modo la ragazza dovrebbe essere guardata. Il fatto che Mademoiselle Dufour non sappia di essere osservata rende chiara la sua personalità naïve. Il ricorso a una voice over che riporti il passaggio descrittivo letterario risulta in questo modo superfluo: la presenza dello sguardo interessato degli uomini rivela la bellezza di Madame Dufour, mentre la totale inconsapevolezza della ragazza implica la sua innocenza (Verstraten, 2009).

The textual description of the young woman is structure as follows: (the narrator describes that) she was a young lady who behaved in such and such way. The filmic equivalent is structured somewhat differently: (the visual narrator shows that) the men whatching her saw a young lady how behaved in such and such way (Verstraten, 2009, p. 53).

Secondo Verstraten (2009), quindi, la natura rappresentativa del cinema comporta la presenza di descrizioni implicite, eccezion fatta nel caso del ricorso a una voce over che si assume la responsabilità narrativa. Nonostante la sovraspecificità cinematografica, il ruolo interpretativo dello spettatore diventa fondamentale per la buona riuscita della narrazione (Giovannetti, 2012). Infatti, il campo visivo immaginario del romanzo diventa, nel cinema, un gioco di inquadrature, dato da ciò che lo spettatore può vedere - ciò che si trova “in campo” - e ciò che non gli è concesso conoscere, entrambi determinati dalla posizione della macchina da presa. Il fuoricampo, in particolare, permette allo spettatore di ipotizzare e immaginare ciò che l’istanza narrante vuole deliberatamente tenergli nascosto. I movimenti di macchina e i raccordi di sguardo, di movimento e di direzione contribuiscono alla messa in scena dello spazio filmico, influenzando la continuità, o discontinuità, spaziale e determinando il punto di vista dal quale lo spettatore osserva i fatti (Nepoti, 2004).

Si potrebbe a questo punto obiettare che proprio la differenza esistente tra l’immagine e la parola scritta sottolinei il divario presente tra il film e il romanzo. È possibile, però, colmare tale divario considerando l’immagine e la parola come segni facenti parte di un più ampio sistema di significazione, atti a comunicare un contenuto. Il cinema e la scrittura, cioè, sarebbero entrambi da considerarsi come “linguaggi”.
Nel linguaggio scritto, significante e significato sono concetti distinti per definizione. Nel linguaggio cinematografico, invece, risultano simultanei. Così, per esempio, il segno scritto “tavolo” sarà passibile di differenti immagini mentali a seconda del lettore, mentre l’immagine filmica di un tavolo sarà la medesima per ogni spettatore. Nonostante ciò, entrambi i mezzi espressivi creano, o evocano, un messaggio per un ipotetico destinatario, il cui compito è quello di assemblare l’immagine mentale che da esso deriva. È possibile inoltre affermare che, anche tra uno spettatore e l’altro, potrebbero sussistere diverse connotazioni di una stessa immagine, in quanto possono esistere una molteplicità di interpretazioni derivanti non tanto dall’atto visivo, che, come abbiamo detto, propone la medesima immagine a ogni spettatore, quanto dalle associazioni personali di ciascun destinatario del messaggio. L’immagine filmica e quella letteraria condividono, quindi, lo stesso campo di azione, ovvero la memoria. In altre parole, il cinema facilita il processo di percezione dell’immagine, ma ha in comune con il romanzo il medesimo processo di collegamento mentale e di memorizzazione. Se considerati come espressioni artistiche, allora, linguaggio scritto e linguaggio cinematografico risultano molto vicini tra loro (Cohen, 1982).
Per dimostrare questa somiglianza, il semiologo Christian Metz (1989) propone la grande sintagmatica del cinema, individuando un parallelismo tra la frase scritta e le riprese di un film. Come la lingua scritta può essere scomposta in frasi di vario genere (narrativo, descrittivo, eccetera), esisterebbero otto tipi di “sintagmi autonomi”, ovvero segmenti in cui il film può essere suddiviso (2.1)3. (Metz, 1989, p. 172).

Nonostante la brillante intuizione di Metz, Cohen (1982) afferma che l’organizzazione dei sintagmi nel cinema risulta meno rigida rispetto a quella letteraria.
Il noto esperimento di Kulešov, che mette in relazione l’immagine del volto inespressivo di un attore con diverse altre, come una minestra, una donna seminuda o un revolver, dimostra come la giustapposizione di immagini tramite il montaggio sia sufficiente per esprimere un significato, senza ricorrere a ulteriori spiegazioni. Lo stesso non è valido in letteratura, in quanto non possono esistere frasi che abbiano un significato senza che siano state seguite regole sintattiche precise (per esempio, la presenza di un soggetto, un predicato e un oggetto).

Ma cosa accomuna, in definitiva, il romanzo e il cinema? Entrambi sembrano esprimersi attraverso una sequenzialità temporale di unità riconoscibili, condividono cioè una “narratività”.
In verità, la narratività è il più solido anello mediano fra romanzo e cinema, la tendenza più diffusa in entrambi i linguaggi, […]. Sia nel romanzo che nel cinema, gruppi di segni, siano essi verbali o visuali, vengono appresi consecutivamente attraverso il tempo; e questa consecutività dà origine ad una struttura rivelante, il complesso diegetico, […] (Cohen, 1982, pp. 94-95).
La diegesi, la storia raccontata, è il punto di congiunzione tra il romanzo e il cinema. Nel primo, il racconto abbandona lo spazio e si svolge nel tempo del linguaggio fonologico; nel secondo, tempo e spazio risultano immediati e vengono mostrati attraverso i movimenti degli oggetti e della macchina da presa. In entrambi i casi, la storia viene appresa dal lettore/spettatore grazie alla successione nel tempo di immagini spaziali, garantendo agli eventi e agli esistenti di essere percepiti come “reali” (Cohen, 1982).
La dimensione narrativa del cinema è stata assunta fin da subito come la costante fondamentale di un’equazione che sembrava poter durare nel tempo. Era necessario che il film rispondesse alla domanda degli spettatori, offrendo qualcosa che potesse essere allo stesso tempo innovativo e familiare. Il passaggio dal semplice meccanismo di riproduzione di immagini al cinema, in quanto forma artistica dotata di un proprio linguaggio, si deve dunque alla narratività (Nepoti, 2004). Secondo Metz (1989), la “storia” è diventata talmente centrale nel cinema che spesso di un film, una forma d’arte basata sulla successione di immagini, non ricordiamo che la trama, perdendo completamente di vista il metodo espressivo.
Un’opera narrativa, per essere tale, impone però la presenza di una figura che si preoccupi di tenere le fila del discorso, di presentare la storia, di scegliere l’angolazione e il modo per veicolarla al destinatario: il narratore4 (Giovannetti, 2012). Sia nel cinema che nel romanzo, l’istanza narrante è fondamentale per la trasmissione delle vicende dei personaggi, tanto da essere uno degli argomenti più studiati in narratologia, insieme al problema del punto di vista, con cui è strettamente correlato.
[...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Questioni di punto di vista. Dalla letteratura al cinema d'animazione Disney

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Informazioni tesi

  Autore: Maddalena Corbetta
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2017-18
  Università: Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM)
  Facoltà: Relazioni pubbliche e pubblicità
  Corso: Televisione, Cinema e New Media
  Relatore: Paolo Giovannetti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 168

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