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Fiscalità elusiva internazionale

Trust e paradisi fiscali

Nello schema generale, il trust contempla, implicitamente, che un soggetto A (settlor) trasferisca, con atto fra vivi o “mortis causa”, ad un soggetto B (trustee) la proprietà di uno o più beni, conferendogli l’incarico di utilizzare i medesimi (“trust property”, “trust fundo”, “trust estate”) a vantaggio di un ulteriore soggetto C (beneficiario) per il perseguimento di un certo scopo.
La fattispecie costitutiva del trust si compone di due negozi funzionalmente collegati:
• il negozio (unilaterale) istitutivo, che contiene le regole cui il trustee dovrà attenersi nell’amministrazione del “trust fund”;
• il negozio dispositivo che attua il trasferimento dei beni dal disponente al trustee, cioè la dotazione del trust.

In attuazione del negozio istitutivo, non compare un nuovo soggetto di diritto: quanto trasferito al trustee diventa oggetto di un patrimonio separato dal suo patrimonio personale del quale il disponente perde la titolarità (per sempre o sino a revoca, se l’atto è revocabile) ed il controllo ed è proprio per questo motivo che il “trust fund” si rivela inattaccabile dai creditori personali sia del disponente sia del trustee sia del beneficiario, perché questo patrimonio, infatti, è destinato unicamente a soddisfare le obbligazioni contratte dal trustee nell’ambito della sua amministrazione.
Una fattispecie di trust simulato si configura nel cd. “sham trust”, in cui il trasferimento del diritto al trustee è soltanto apparente, in quanto il disponente ricorre ad espedienti idonei a fargli conservare l’effettivo controllo sul trust: a titolo esemplificativo, si fa in modo che il trustee sia una società la cui partecipazione di controllo, nella realtà, è detenuta dallo stesso disponente.
I trusts possono essere istituiti per diversi intenti:
• controllare e proteggere i patrimoni familiari;
• tutelare il “destinatario” dei beni se troppo giovane per gestire i propri affari, o se non è in grado di occuparsene per inabilità o in quanto insufficientemente responsabile a gestire un patrimonio;
• per disporre la segregazione di attività d’impresa, spesso a titolo di garanzia (trust commerciale).

L’ordinamento giuridico italiano non contiene una specifica disposizione civilistica volta a regolamentare i trust, tuttavia lo Stato italiano ha aderito alla Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento, cosicché il trust è divenuto uno strumento legalmente riconosciuto anche in Italia seppur disciplinato da una normativa straniera.
L’art. 1, comma 74 della Legge n. 296/2006, modificando l’art. 73, comma 1, lett. b), c) e d) del TUIR, ha previsto l’inserimento dei trust tra i soggetti passivi Ires (l’imposta sul reddito delle società).
Il reddito del trust deve essere determinato secondo le regole applicabili alla tipologia di trust sia esso commerciale o non commerciale, residente o non residente: i beneficiari del reddito godono delle utilità dei beni in trust, in quanto titolari di una quota del reddito dello stesso, mentre i beneficiari del patrimonio godranno dei beni che gli saranno devoluti alla scadenza del trust.
Mentre per i “trust trasparenti” le regole impositive si applicano senza problemi sui beneficiari individuati, per i “trust opachi”, a seconda della territorialità, si avrà che:
• il trust residente verrà tassato sul reddito ovunque prodotto a prescindere dal luogo di residenza del beneficiario;
• il trust non residente verrà tassato sul reddito prodotto in Italia a prescindere dal luogo di residenza del beneficiario;

Con riferimento al beneficiario, invece, avremo che:
• il beneficiario residente non sarà tassato a prescindere dal luogo di residenza del trust;
• beneficiario non residente non sarà tassato a prescindere dal luogo di residenza del trust.

I trust istituiti in un paradiso fiscale si considerano fiscalmente residenti in Italia nei casi in cui:
• almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti in Italia;
• successivamente alla costituzione del trust, un soggetto
residente in Italia effettui un’attribuzione al trust stesso che comporti il trasferimento della proprietà di beni immobili oppure la costituzione o il trasferimento di un diritto reale immobiliare, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi.
Negli ultimi anni il trust è stato molto utilizzato come strumento di pianificazione fiscale internazionale perché, date le favorevoli opportunità che i vari sistemi tributari nazionali offrono per conseguire risparmi nell’assolvimento degli oneri impositivi, essi permettono:
• la scissione fra titolarità giuridica del patrimonio e spettanza dei relativi benefici economici che in esso si realizza e che consente di ridurre al minimo il contatto formale con l’ordinamento giuridico nel quale questi ultimi devono essere percepiti;
• di dismettere completamente la proprietà di certi beni, con la duplice garanzia del rispetto delle istruzioni impartite dal disponente circa il loro impiego e della totale non aggredibilità del patrimonio ad opera dei creditori del trustee;
• di adattare l’assetto di interessi originariamente predisposti alle concrete emergenze che via via si manifestano nella gestione degli affari e, quindi, anche di localizzare patrimoni e fonti reddituali là dove la convenienza fiscale è maggiore;
• di conferire, a seconda dei casi, margini di manovra più o meno ampi al trustee il quale può essere in grado di cambiare anche radicalmente i vari aspetti della gestione allo scopo di realizzare più efficacemente l’interesse sotteso all’operazione (bisogna ricordare, infatti, che la cd. “lettera di desiderio” non è vincolante per il trustee).

Naturalmente, fra i Paesi che maggiormente si sono adoperati ad emanare apposite disposizioni normative in tema di trust, spiccano quelli considerati “a fiscalità privilegiata”; a dare maggiori problemi di contrasto, tuttavia, sono stati quei Paesi della “white list” come la Nuova Zelanda che hanno dato al trust, oltre che elevati vantaggi fiscali anche un elevato livello di privacy, una più elevata protezione dei beni dalle possibili azioni che potrebbero essere intentate dai creditori ed, infine, un’autonomia gestoria molto più marcata rispetto a quello di cui ordinariamente godono gli altri istituti.
In alcuni Paesi, sembra davvero che tutto sia permesso ed è proprio qui che, per conseguire scopi illeciti, si dà vita ai cd. “sham trust”, ossia trust “simulati” o “fittizi”.
Elementi di prova della “fittizietà” del “trust” possono essere i seguenti:
• il settlor è anche il beneficiario delle utilità prodotte dal trust;
• il negozio è revocabile a totale discrezione del disponente;
• il contenuto dell’atto istitutivo è tale da relegare il trustee in un ruolo passivo, senza alcuna facoltà decisionale;
• il settlor continua ad esercitare con pienezza ed in totale autonomia i poteri per la gestione dei beni in trust.

Poiché la costituzione del trust non richiede l’atto pubblico (salvo nel caso di conferimento di beni immobili o mobili registrati), gli elementi di prova possono essere difficili da desumersi, per tale motivo la principale arma di contrasto resta la presunzione relativa di residenza: l’art. 73, comma 3 del TUIR, così recita: “si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Paesi diversi da quelli indicati nel decreto del Ministro delle finanze del 4 settembre 1996, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 220 del 19 settembre 1996, e successive modificazioni, in cui almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato”.
Si potrebbe sostenere che la presunzione di residenza in Italia possa essere applicata a tutti gli istituti che, pur non potendosi chiamare trust abbiano i seguenti caratteri:
• diano luogo al trasferimento della titolarità di un complesso di diritti da un disponente ad un altro soggetto al fine di perseguire uno scopo o di beneficiare terzi soggetti;
• il disponente crei un vincolo di destinazione sui beni conferiti in trust;
• si realizzi la segregazione patrimoniale dei beni oggetto del trust.

La seconda presunzione prevista dalla norma antielusiva è quella che il trust estero sia istituito in un Paese “non white list”: al riguardo, la prassi amministrativa ha chiarito che per essere “istituito” all’estero, il trust debba aver formalmente fissato la residenza.
L’ultimo periodo dell’art. 73, comma 3 del TUIR, così recita: “si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli indicati nel citato decreto del Ministro delle finanze del 4 settembre 1996, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi”: la C.M. n. 48/E del 2007 ha chiarito che si tratta di una presunzione relativa di residenza: rimane, quindi, la possibilità per il contribuente di dimostrare l’effettiva residenza fiscale del trust all’estero.
Al fine di salvaguardare il diritto delle imprese residenti a fornire la prova contraria di cui all’art. 110, comma 11 del TUIR, l’ordinamento tributario italiano consente (alternativamente) all’impresa residente che intende dedurre le spese e le componenti negative di reddito
(promananti da Paesi e/o territori diversi da quelli inseriti nella “white list”) di:
• presentare un interpello “preventivo”;
• dimostrare, in caso di specifica richiesta dell’Amministrazione finanziaria, le esimenti di cui all’art. 110, comma 11 del TUIR.

Con riferimento a questa seconda modalità, l’Agenzia delle Entrate competente, prima di procedere all’emissione di un avviso di accertamento d’imposta o di maggiore imposta, deve notificare al contribuente interessato un apposito avviso con il quale viene concesso, al medesimo, la possibilità di fornire, nel termine di 90 giorni, le prove circa la sussistenza delle esimenti e laddove non ritenga che gli elementi di prova addottati dal contribuente siano sufficientemente argomentati, dovrà darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento a pena di illegittimità dell’accertamento stesso.
Importantissimo, per il verificatore, resta la capacità di valutare adeguatamente il presupposto dell’economicità al fine di riscontrarne regolarità e coerenza fiscale. La Corte di Cassazione ha, altresì, affermato che l’Agenzia delle Entrate può sindacare la economicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, valutando la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni rispetto ai prezzi di mercato, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere (cd. “inerenza quantitativa”).
In primo luogo, vale sinteticamente analizzare le metodologie di verifica che devono essere seguite nell’ambito dell’indagine volta ad appurare il corretto prezzo di trasferimento.
Il fine, come detto, è di individuare il prezzo che verrebbe praticato per transazioni comparabili e confrontarlo con il prezzo in verifica, accertando la congruità – o meno – della transazione oggetto di approfondimento.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Fiscalità elusiva internazionale

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Informazioni tesi

  Autore: Giuseppe Violano
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi Guglielmo Marconi
  Facoltà: Economia
  Corso: Scienze dell'economia
  Relatore: Simone La Bella
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 151

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