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Orizzonti rituali tra antropologia e psicoanalisi

Nel definire il rito, la tendenza generale a porre l'accento sulle sue caratteristiche formali quali la regolarità, la ripetitività, e la stilizzazione delle azioni che lo costituiscono, ha determinato il carattere eterogeneo delle indagini che ne hanno fatto oggetto di ricerca. Esso è stato studiato sia nella sua dimensione collettiva che in quella individuale; si ritrova nei comportamenti quotidiani e ad accompagnare le esperienze cruciali della vita, ma soprattutto, si ritrova in ogni cultura.
L'applicabilità del tema a molteplici campi ha prodotto non solo l'inclusione in questa categoria dei più vari fenomeni, ma anche la sua analisi secondo le più diverse metodologie interpretative (Scarduelli, 2000), condizione di partenza per l'interdisciplinarietà di questo elaborato finale.
L’obiettivo del seguente lavoro è quello di presentare un dialogo fra psicoanalisi e antropologia sul tema dei fenomeni rituali, illustrando alcune rispettive linee di ricerca che, in un gioco di richiami, mostrano punti di contatto e di divergenza.
Le riflessioni analizzate nel corso della trattazione delineeranno l’impossibilità di discorrere de “il” rito come fenomeno omogeneo, sia per le diverse letture elaborate all’interno di ciascuna disciplina, sia per la fondamentale differenza che verrà esaminata fra i rituali collettivi di cui si occupa l’antropologia, inscritti in una dimensione storico-culturale, e la ritualità privata e particolare dei cerimoniali considerati dalla psicoanalisi.
Nello specifico, il primo capitolo sarà dedicato alla presentazione della prospettiva antropologica, la prima a occuparsi in maniera sistematica delle attività rituali. Dopo una breve rassegna sull’analisi dei suddetti fenomeni nella storia dell’antropologia culturale, l’attenzione sarà focalizzata in maniera mirata sui contributi di due autori: Ernesto de Martino e Claude Lévi-Strauss.
Le considerazioni dell’antropologo napoletano, di forte impianto filosofico e storicista, si muovono oltre la visione evoluzionista per la quale la ritualità – magica o religiosa – assume la funzione di conoscenza e padronanza del mondo. Piuttosto, essa acquisisce una fondamentale funzione storica: quella di riscattare una “presenza in crisi”, creare un orizzonte metastorico condiviso, all’interno del quale assorbire e assumere il controllo della labilità esistenziale. Per de Martino, i riti collettivi costituiscono dunque un discorso protetto di carattere culturale, in grado di prevenire l’apocalisse psicopatologica del “non-esserci”. Proseguendo, verrà presentata un’interessante suggestione di Lévi-Strauss sul valore più prettamente terapeutico di alcuni riti, prendendo in esame il caso del rituale Cuna per favorire i parti difficili. L’autore sostiene che la ritualità orale e gestuale contribuisca all’inscrizione della problematica specifica in un piano mitico, all’interno del quale è possibile la libera risoluzione del conflitto, evidenziando l’efficacia simbolica del rito. A questo proposito, verrà proposto un parallelo fra la funzione mitopoietica sciamanica e quella narratologica dello psicoterapeuta.
Nel secondo capitolo sarà dato spazio alle letture più specificamente psicoanalitiche. Queste si occuperanno di diverse forme di ritualità privata, cerimoniali unici che non svolgono un ruolo protettivo, prevedendo un riscatto e la reintegrazione del senso, bensì costituiscono l’espressione stessa della caduta nella patologia. In particolar modo, verranno presi in considerazione due casi clinici di Freud, analizzando la coazione a ripetere dei timori ossessivi dell’Uomo dei Topi e i cerimoniali ossessivi dell’Uomo dei Lupi; entrambi impongono dei divieti apparentemente immotivati che richiamano gli imperativi dei tabù delle società totemiche. Ciò nonostante, più che una dimensione sociale, è quella pulsionale a prevalere nei nevrotici. Ulteriori forme di ripetitività schematica saranno rintracciate nei sogni dei reduci di guerra e, andando oltre la sfera strettamente patologica, nel gioco del rocchetto. Di quest’ultimo sarà inoltre proposta la lettura di Winnicott sul valore transizionale del gioco rituale.
Per concludere, nel terzo capitolo saranno presentate tre attuali prospettive terapeutiche, frutto del fecondo dialogo fra psicoanalisi e antropologia, in cui gli aspetti rituali acquisiscono un ruolo centrale. Di fronte al progressivo indebolimento dei più classici riti antropologici, e talvolta della loro completa scomparsa, questi nuovi orizzonti si costituiscono assumendone le antiche funzioni; essi fanno del setting terapeutico uno spazio rituale in grado di restituire l’operabilità del mondo.
Nello specifico, come prima esperienza sarà riportato il caso degli atti psicomagici di Jodorowsky, dei veri e propri riti formulati su misura, di cui si indagheranno i principi d’efficacia. Proseguendo, verranno illustrate due proposte provenienti dall’orizzonte della psicoanalisi di gruppo, rispettivamente quella di Alfredo Lombardozzi e René Kaës.

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2 INTRODUZIONE Nel definire il rito, la tendenza generale a porre l'accento sulle sue caratteristiche formali quali la regolarità, la ripetitività, e la stilizzazione delle azioni che lo costituiscono, ha determinato il carattere eterogeneo delle indagini che ne hanno fatto oggetto di ricerca. Esso è stato studiato sia nella sua dimensione collettiva che in quella individuale; si ritrova nei comportamenti quotidiani e ad accompagnare le esperienze cruciali della vita, ma soprattutto, si ritrova in ogni cultura. L'applicabilità del tema a molteplici campi ha prodotto non solo l'inclusione in questa categoria dei più vari fenomeni, ma anche la sua analisi secondo le più diverse metodologie interpretative (Scarduelli, 2000), condizione di partenza per l'interdisciplinarietà di questo elaborato finale. L’obiettivo del seguente lavoro è quello di presentare un dialogo fra psicoanalisi e antropologia sul tema dei fenomeni rituali, illustrando alcune rispettive linee di ricerca che, in un gioco di richiami, mostrano punti di contatto e di divergenza. Le riflessioni analizzate nel corso della trattazione delineeranno l’impossibilità di discorrere de “il” rito come fenomeno omogeneo, sia per le diverse letture elaborate all’interno di ciascuna disciplina, sia per la fondamentale differenza che verrà esaminata fra i rituali collettivi di cui si occupa l’antropologia, inscritti in una dimensione storico-culturale, e la ritualità privata e particolare dei cerimoniali considerati dalla psicoanalisi. Nello specifico, il primo capitolo sarà dedicato alla presentazione della prospettiva antropologica, la prima a occuparsi in maniera sistematica delle attività rituali. Dopo una breve rassegna sull’analisi dei suddetti fenomeni nella storia dell’antropologia culturale, l’attenzione sarà focalizzata in maniera mirata sui contributi di due autori: Ernesto de Martino e Claude Lévi-Strauss. Le considerazioni dell’antropologo napoletano, di forte impianto filosofico e storicista, si muovono oltre la visione evoluzionista per la quale la ritualità – magica o religiosa – assume la funzione di conoscenza e padronanza del mondo. Piuttosto, essa acquisisce una fondamentale funzione storica: quella di riscattare una “presenza in crisi”, creare un orizzonte metastorico condiviso, all’interno del quale assorbire e assumere il controllo della labilità esistenziale. Per de Martino, i

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Informazioni tesi

  Autore: Miriam Musella
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2015-16
  Università: Università degli Studi di Napoli - Federico II
  Facoltà: Studi Umanistici
  Corso: Scienze e tecniche psicologiche
  Relatore: Massimiliano Sommantico
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 58

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