rito della rigenerazione e, di conseguenza, i sepolcri si modellavano ricreando una forma ovale o antropomorfica che
evocava l’utero o il corpo della Grande Madre. Secondo Villar,
quella fu veramente l’epoca della donna. In sintonia con la concezione degli dei e degli esseri
sovrannaturali, la società della Vecchia Europa, era matriarcale. La donna occupava un ruolo centrale.
L’eredità veniva trasmessa per linea femminile, così come il nome e l’appartenenza a una schiatta […]
la società della Vecchia Europa sembra essere stata molto paritaria. Non c’erano grandi differenze né
di classe né di sesso. Sicuramente esisteva una divisione delle occupazioni e delle funzioni tra uomini
e donne. Ma l’uguale fasto delle sepolture fa pensare che uomini e donne condividessero la stessa
posizione sociale
2
.
Quelle civiltà progredite, paritarie, amanti dell’arte e rispettose della religione, vennero
conquistate e soffocate dai pastori barbari delle steppe che, in due millenni, a partire dal 4400 a.C.,
si imposero sulla cultura della Vecchia Europa. Solo alcune piccole zone si salvarono dall’invasione
indoeuropea, la zona nord occupata dai filandesi e dagli estoni, la zona ovest occupata dai baschi e
la zona orientale abitata dagli ungheresi
3
.
Tutti gli altri territori furono colonizzati dagli indoeuropei, popolo bellicoso che vinceva gli avversari grazie
all’uso del cavallo nei campi di battaglia. Era un popolo guerriero che preferiva costruire le sue città in luoghi elevati e
fortificati.
Per quanto riguarda la religione, gli indoeuropei, nella fase più antica, veneravano gli eventi naturali quali il sole,
il vento, il fulmine, le acque e il tuono. Si riscontra l’esistenza di un dio che probabilmente chiamavano dyèus patèr,
una divinità maschile che forse rappresentava la volta celeste. Credevano nell’aldilà e pensavano che fosse la
continuazione della vita terrena. Ecco che, per garantire al defunto la preservazione del suo rango, la posizione sociale
detenuta durante la vita terrena e i suoi poteri, gli abitanti seppellivano nella tomba le armi, i beni, gli animali e, nelle
forme più estreme, anche le mogli, gli schiavi e le concubine
4
. Nella cultura degli invasori nordici, era ben radicata
l’idea che schiavi e donne non potessero avere alcuna dignità e alcun diritto. Si assiste alla caduta dei valori della civiltà
matriarcale preindoeuropea e all’avvento della cultura patriarcale con una forte gerarchia sociale
5
.
2
Ivi, p. 105.
3
Ivi, p.108.
4
Per esempio, i germani concepivano il loro paradiso, il Walhalla, come un banchetto sfarzoso dove i guerrieri
immortali recuperavano le forze dopo le fatiche di battaglie interminabili (Ivi,p.147).
5
Bachofen dimostrò che la differenza fra l’ordine patriarcale e quello matriarcale si spinse oltre la semplice supremazia
sociale degli uomini sulle donne, comportando anche una diversità di principi morali e sociali. La civiltà matriarcale
traeva la sua forza dai legami di sangue e della terra, dall’accettazione incondizionata dei fenomeni naturali, mentre
I Celti, fra le popolazioni guerriere indoeuropee, compaiono nelle opere di Erodoto, Aristotele
e Plutarco e raggiunsero il massimo splendore fra il V e il II secolo a.C. Occuparono i territori della
Francia, del Belgio, dell’Austria, dell’Ungheria, della Svizzera e dell’Italia settentrionale.
Arrivarono fino ai territori dell’odierna Ucraina, dove hanno lasciato il loro nome alla regione della
Galizia. Di loro sappiamo che erano di statura alta, di muscolatura robusta, avevano gli occhi
azzurri, i capelli biondi e la pelle chiara. La classe aristocratica guerriera sosteneva il re; il popolo
non deteneva alcun privilegio e sottostava alle leggi dettate da quel governo oligarchico. I
sacerdoti, scelti fra la nobiltà guerriera e depositari della memoria collettiva, fungevano da maghi e
saggi e venivano chiamati druidi.
La famiglia, di tipo patriarcale, deteneva il possedimento delle terre che non venivano spartite
tra i singoli individui. Villar descrive i Celti come un popolo irascibile, litigioso, guerriero ma anche
allegro, bevitore e amante della musica; esso diede vita, tra l’altro, ad un’interessante letteratura
eroica trasmessa oralmente e cantata dai bardi
6
.
Per quanto riguarda la cultura italica e quella veneta in particolare, non è stato facile, per gli
studiosi, tracciare una filogenesi e, tuttora, presenta molti punti oscuri. Un’ipotesi, di Devoto e
Pisani, abbastanza accreditata negli anni passati, insisteva nell’idea che, con l’entrata degli
indoeuropei in Italia, sorsero due culture: quella delle Terramare e quella di Villanova. Sul finire del
quella patriarcale affondava la sua forza nel rispetto delle leggi umane, dal predominio del pensiero razionale e dallo
sforzo umano di confrontarsi con i fenomeni naturali. Tuttavia alcuni principi primitivi erano superiori a quelli
patriarcali che ebbero il sopravvento; i primi concepivano l’uguaglianza fra gli uomini, essendo tutti generati dalla
stessa Madre Terra. Il sistema patriarcale sostituì questo concetto con l’ordine gerarchico, con il sistema dell’autorità e
dell’obbedienza. Scrive Bachofen: ‹‹La relazione attraverso la quale il genere umano ha cominciato a progredire nella
civiltà, che segna la nascita di ogni virtù e degli aspetti più nobili dell’esistenza umana, è il principio matriarcale, che
diventa efficace come il principio dell’amore, dell’unità e della pace. La donna, ancor prima dell’uomo, impara ad avere
cura del bambino, a estendere il suo amore oltre se stessa verso altri esseri umani, e a ricorrere a tutte le sue doti e alla
sua immaginazione nell’intento di preservare e abbellire l’esistenza di un altro essere. Tutto lo sviluppo della civiltà, la
devozione, la cura, e il lutto per i morti sono radicati in essa […]
L’amore materno non è soltanto più tenero ma anche più generale e universale… Il suo è il principio dell’universalità,
mentre il principio patriarcale è quello delle restrizioni… L’idea della fratellanza universale dell’uomo è radicata nel
principio della maternità e questa idea stessa svanisce con lo sviluppo della società patriarcale. La famiglia matriarcale
ha quel carattere universale con cui inizia ogni evoluzione che è tipica della vita materna in contrasto alla vita
razionale›› (E. FROMM, Il linguaggio dimenticato, cit., pp. 198, 199).
6
Ne sono testimonianza alcuni esempi scritti in lingua irlandese a partire dai secoli VI-VII d.C. (F. VILLAR, Gli
indoeuropei e le origini dell’Europa, cit., p.449).
XV secolo a.C., genti che avevano il culto della cremazione e delle urne funerarie, si insediarono
nel nord Italia sviluppando, molto probabilmente, la cultura Terramare.
Il breve excursus storico offre una prospettiva più ampia e approfondita del rapporto fra le
culture europee e propone elementi preliminari per poter capire come gli specialisti sono giunti alle
odierne testimonianze. La cultura veneta si inserisce nel medesimo orizzonte e, dal momento che
presenta un substrato comune alle altre culture del continente, è possibile rintracciare i nessi di
congiunzione con le tradizioni popolari dell’Europa e le differenze che si sono sviluppate attraverso
i secoli.
La cultura contadina, dunque, ha radici antiche e multiformi, causate dalle invasioni di popoli
stranieri che, nei secoli, si sono susseguite stratificandosi e generando quella tradizione veneta oggi
in via d’estinzione.
Si consideri inoltre alcuni ritrovamenti e testimonianze archeologiche che risalgono all’epoca precedente
l’insediamento romano avvenuto nel II secolo a.C.
Durante il primo millennio fu la civiltà paleoveneta a dominare i territori del Veneto attuale e alcune zone del
Friuli-Venezia Giulia e del Trentino-Alto Adige. Un territorio molto vasto e segnato anche da un ambiente geografico
eterogeneo. Si alternavano le zone montuose alpine, il litorale adriatico, la pianura padana con risacche paludose, le
zone fertili vicine ai fiumi Adige, Brenta, Piave, Tagliamento e Isonzo.
I centri principali della civiltà paleoveneta furono Este e Padova; tra gli altri centri di una certa
rilevanza si ricordano Altino, Treviso, Oderzo nell’area ‘plavense’; Montebelluna, Mel, Ceneda nella
zona pedemontana; Lagole di Calalzo nel Bellunese; infine, con caratteristiche etniche e culturali del
tutto particolari, per la compresenza dell’elemento etrusco e greco, Adria presso il corso del Po
7
.
Di questa civiltà esistono tracce in molte fonti, soprattutto negli scritti antichi che narrano la storia dei Veneti e,
fatto interessante, tutte le fonti propongono un’origine orientale del popolo. Le testimonianze, spesso più vicine a storie
fantastiche e mitologiche che a documenti probanti, si possono rintracciare nell’Iliade di Omero (II, 851-852), in Ab
urbe condita di Livio (I, 1) e nell’ Eneide di Virgilio (I, 242-249). Secondo le testimonianze i Veneti, provenienti da
7
ANNA MARINETTI, L’ambiente preromano e i più antichi insediamenti, in A.A.V.V., Cultura popolare del veneto.
L’ambiente e il paesaggio, a cura di Manlio Cortellazzo, Milano, Silvana, 1990, p.9.
una regione dell’Asia Minore, la Paflagonia, sarebbero giunti nelle zone dell’Italia nord orientale guidati dal mitico eroe
troiano Antenore
8
.
Le fonti di questa loro origine trovano riscontro in alcuni scavi archeologici compiuti nella fascia collinare
Euganea e Berica. Le prime ricerche portano la data del 1876 e furono compiute ad Este, solo successivamente si
estesero in altre aree venete. Dagli scavi compiuti risulta che:
la piena fioritura della civiltà paleoveneta si ha nel corso del VI secolo, con il consolidarsi dei centri di
pianura e il sorgere di insediamenti collinari; si sviluppano, anche attraverso contatti sempre più stretti
con l’Etruria, manifestazioni culturali importanti, tra cui i santuari
9
.
I culti veneti sono un elemento importante che emerge a frammenti nella tradizione contadina che subentrerà. Fra i
reperti rinvenuti dagli archeologi si riscontra la diffusa presenza del culto in onore di una divinità femminile che si
manifestava diversamente nelle varie aree venete ma che sostanzialmente si può ricondurre a una ritualità pressoché
simile. Un primo documento rilevante fu quello della ‘stipe Baratella’ di Este nella quale è menzionata una divinità con
il nome di Reitia ma anche di Sainate o Pora. Probabilmente il nome originario era Pora mentre gli altri due nomi
erano degli appellativi
10
.
I tre termini concorrono, complessivamente, a delineare l’immagine di una divinità femminile che rappresenta la
fecondità, la rigenerazione della vita, che protegge e risana. Nella città di Padova i bronzetti ritrovati fanno pensare
anche ad una visione regale di Pora.
Un ritrovamento senza dubbio importante, il disco bronzeo rinvenuto a Montebelluna, conserva la raffigurazione
di una donna circondata da animali con delle enormi chiavi in mano. Una simile iconografia si ritrova anche in Grecia
8
‹‹L’Iliade ritrae Antenore come vecchio e saggio consigliere di pace. E’ lui che, prima della guerra di Troia, ospita
Odisseo e Menelao ambasciatori nella città nemica; è lui, ancora, che consiglia ai concittadini la restituzione di Elena
agli Achei. Ma l’Iliade nulla sa del salvataggio dell’eroe da Troia, del suo avventuroso viaggio in Occidente, né
tantomeno del suo approdo in alto-Adriatico a capo degli Eneti della Patagonia […] La memoria di Antenore è
ampliamente connessa all’area veneta, ove pure è testimoniato il culto dell’eroe troiano e, soprattutto, nel territorio di
Padova e dei colli Euganei.
Le testimonianze, come meglio diremo in seguito, sono tarde, per lo più riconducibili ad autori greci e romni di età
augustea: a Strabone [13, 608], che ci è testimone del luogo di Sofocle già riferito; a Livio [1, 1, 1-3], che ci informa
dell’approdo di Antenore in territorio euganeo; a Virgilio [Aen. 1, 242-249], che sa della navigazione dell’eroe troiano
presso la foce del Timavo e della sua, successiva, fondazione di Padova. Da questi autori dipende la tradizione
posteriore, che celebra Antenore come fondatore di Padova, o connota il Timavo come fiume Antenoreus o Phrygius,
cioè troiano›› (LORENZO BRACCESI, La leggenda di Antenore. Dalla Troade al Veneto, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 13,
15).
9
Ivi, p. 11.
10
La Marinetti giunge a questa conclusione attraverso la forma linguistica dove si rivela che i primi due nomi sono di
origine aggettiva. Per quanto riguarda l’etimologia: il nome Pora si preferisce collegarlo non tanto al latino pario che
significa partorire, generare ma bensì alla radice *per- nel senso greco di ‘passaggio’ ( π òροζ ). Sainate può essere
paragonato al latino sanare. Resta infine il termine Reitia che potrebbe derivare sia dalla radice *rect- ‘radrizzare’,
(dea Hekate) dove la divinità si presenta nelle sembianze della signora della vegetazione e della rinascita. Tutti i
ritrovamenti paleoveneti hanno queste caratteristiche femminili: la divinità che rigenera, protegge e risana è
predominante anche se non mancano altre figure minori come la ‘figlia-fanciulla’ di cui si ha testimonianza in
un’iscrizione rinvenuta a Valle di Cadore.
Queste nozioni relative alla ritualità paleoveneta compaiono anche nella cultura contadina che ripropone, pur in
modo diverso, la figura della protezione femminile. Scrive Dino Coltro:
la stessa religione contadina trova nella ‘casa’ la sua espressione quotidiana ed è simbolicamente
custodita nella mare del focolare, affidata alla donna anziana che veniva chiamata con lo stesso nome
di mare, madre, il cui maggior disdoro era de nare in sbrindolòn e lassare morire la mare del fogo,
uscire a perdere tempo e lasciar morire il fuoco
11
.
La cultura della Madre Terra, della rigenerazione nasce dal costante contatto dell’uomo con la natura. Il contadino
vive con il ciclo delle stagioni, con il mutare del tempo, la sua esistenza dipende da come e quanto piove, dalla fertilità
del terreno, dalla generosità dei campi coltivati e dagli alberi da frutto. Ecco perché diventa fondamentale la figura della
divinità materna che tutto crea e rigenera. Il contadino avverte in modo viscerale questo suo legame con la natura e il
terreno in cui e su cui vive, in un costante rapporto di nutrimento e di riverenza.
E di questo suo vivere nella terra e con la terra si permea la cultura e la ritualità agreste. Una
cultura che non ha testimonianza scritta, che non si avvale di penna e calamaio ma che viene
tramandata di generazione in generazione attraverso l’oralità, la memoria collettiva di un gruppo
etnico e di un ben determinato strato sociale con le sue tradizioni, i suoi usi e costumi. Dunque una
cultura dinamica, che si trasforma con il tempo, con l’esperienza e che
acquista valore attraverso il ‘ruminio’ di generazioni, una specie di setaccio che raccoglie ciò che
risulta valido per la vita e che si perfeziona da una generazione all’altra
12
.
come da *reito- ‘scrittura’ ifine da *reito- nel senso di ‘scorrere’ (A. MARINETTI, L’ambiente preromano e i più antichi
insediamenti, in Cultura popolare del Veneto. L’ambiente e il paesaggio, cit.,pp. 10 e ss).
11
D. COLTRO, L’altra cultura. Sillabario della tradizione orale veneta, cit., p. 47.
12
Ivi, p. 107.
In siffatto contesto acquista valore fondamentale la presenza dei ‘veci’ che, grazie all’esperienza, possono
insegnare ai giovani come interpretare il tempo e gli avvenimenti meteorologici. Gli anziani, con il loro lunario orale e
le loro ‘fole’ che sostituiscono i miti arcaici, sono i depositari della sapienza. Così gli aneddoti, i proverbi, le fiabe e le
favole, diventano la letteratura di chi non sa leggere. Le leggende e le ballate sono l’epica di una cultura che nessun
autore famoso ha mai celebrato
13
.
3.2 Il filò e i contafole.
D’inverno, dopo sena, se fea fiò in stala; vegnea anca qualche vissin de casa. Là se lavorava, se
ciacolava, se contava storie, se imparava tante robe. Qua vedemo na femeneta che lavora a feri e una
che tacona un nissolo: la luce xè xò: le la ga despicà dal gancio pa vedarghe puito. Ghe xè el toso che
vien a catare la tosa: ela ghe dà la carega e la ghe ciapa el paetò; el paron de casa, sentà comodo, el se
la conta col vissin: uno fuma la pipa e quel’altro el toscan. Sul sofito zè picà na fila de patate
mericane, da magnare lesse o in forno; e un sesto che ga indrento i racici pa farli diventar bianchi; sul
muro xè tacà la sega pa segare i canari, e un musae che i ghe mete al vedeo parchè no el magne paia e
fen
14
.
Il ‘filò’ era il luogo di ritrovo dei contadini durante il lungo inverno. Le stalle diventavano salotti per l’incontro tra
familiari e vicini. I motivi che spingevano le persone a radunarsi in una stalla, di solito quella più grande del borgo o
quella del ‘paron’ (padrone), erano molteplici. Il primo riguardava sicuramente un bisogno primario, quello di stare in
un posto caldo dove “scaldarse i osi almanco par un par de ore” (scaldarsi le ossa almeno per un paio d’ore) visto che le
case erano davvero fredde e l’acqua dei catini nelle camere spesso gelava. Bisogna entrare nella tradizione contadina e
chiedersi perché non si riscaldavano le case. In realtà, oltre al fatto che la legna, le canne di granoturco, o i ‘botoi’ (torsi
della pannocchia) scarseggiavano e quindi si rendeva necessario conservare questo tipo di combustibili per cuocere il
cibo, si nutriva anche una concezione diversa della casa. I contadini concepivano l’abitazione come uno strumento di
13
Per quanto riguarda l’approfondimento di questa tematica è consigliabile leggere D. COLTRO, Fole e lilole, Venezia,
Marsilio, 1991.
14
La trascrizione di questo brano, posta di seguito al testo dialettale, è la seguente: ‹‹D’inverno, dopo la cena, si faceva
la veglia (o “filò”) nella stalla: vi partecipava anche qualche vicino di casa. Là si lavorava, si chiacchierava, si
raccontavano storie, si imparavano tante cose. Qui vediamo una donnetta che lavora a maglia e una che rattoppa le
lenzuola; la lampada è bassa per vederci bene: l’hanno fatta scendere togliendo il filo dal gancio che la tratteneva. C’è
il ragazzo che viene a trovare la ragazza: lei gli porge una sedia e gli prende il cappotto per appenderlo. Il padrone di
casa, seduto comodamente, conversa con il vicino: uno fuma la pipa e l’altro il sigaro. Al soffitto è appesa una fila di
patate dolci, da mangiare bollite o cotte al forno; più in là un cesto che contiene i cespi di radicchio, perché il cuore
diventi bianco. Alla parete vediamo la sega per tagliare i fasci di canne da dare alle mucche, e una museruola che si
lavoro, luogo in cui convivevano uomini e bestie, dove si custodivano e si nascondevano gli oggetti. Non solo uno
spazio abitativo, atto allo studio, al ritrovo di se stessi come accade nei nostri appartamenti. Il bisogno di arredare, di
scegliere dei bei mobili era riservato ai signori, ai borghesi di città. In campagna la casa doveva essere funzionale e
essenziale. Per questo tanti figli dormivano nella stessa camera, addirittura più di uno nello stesso letto. A testimonianza
di tale abitudine si potrebbe citare il proverbio “de tera quanta te ghe ne vedi, de casa quanto basta (di terra quanta ne
vedi, di casa quanto è necessario)”
15
.
Un secondo motivo era la stagione stessa; la giornata era breve e gli uomini non si recavano
nei campi. La famiglia aveva tempo per radunarsi, stare insieme e riordinare utensili e biancheria
accumulati durante l’estate quando la semina, la raccolta e a settembre la vendemmia, non davano
tregua.
Nella stalla le donne impiegavano il tempo aggiustando lenzuola e vesti, rattoppando i buchi delle giacche o dei
calzini e, soprattutto, filando. Tra una filatura e l’altra si scambiavano chiacchiere, curiosità, pettegolezzi del paese e
con occhi vigili madri e nonne osservavano le figlie parlare con i ragazzi.
Gli uomini invece ne approfittavano per far ceste in vimini, impagliare sedie con i cartocci del granoturco,
aggiustare gli attrezzi mentre chiacchieravano dei raccolti, delle bestie da vendere e del mercato. I vecchi si fumavano
la pipa e raccontavano storie bevendo un ‘goto de vin roso’ (un bicchiere di vino rosso).
Il ‘filò’ cominciava dopo la semina del frumento che segnava anche l’inizio del nuovo anno agricolo. La Festa dei
Morti
16
, i riti della semina riagganciavano tradizioni lontanissime legate alle feste in onore della Madre Terra, divinità
presente, come già sopra accennato, nei popoli della vecchia Europa. L’anno, per i contadini, si apriva con la brutta
stagione, a metà ottobre, dopo che nei campi già arati, gli uomini avevano seminato i chicchi di frumento. Un detto
veneto spiega infatti: “ai Santi frumento nei campi”
17
. La scelta di iniziare l’anno a novembre non è casuale, né risale
alle generazioni dei secoli scorsi, in realtà riprende un’antichissima usanza che affonda le sue radici nell’arcaica
tradizione celtica e si collega alla ritualità agreste della morte e della rinascita. I Celti erano soliti festeggiare il nuovo
anno proprio ai primi di novembre e festeggiavano per ben dieci giorni l’evento. Vi erano dei riti propiziatori in favore
della madre Terra e questo periodo veniva denominato samuin
18
.
mette ai vitelli perché non mangino paglia e fieno›› (LANFRANCO ANTONELLO, Intarsi di foglie secche, Padova, Lito-
Tipografia Bertato, 1996, p. 114).
15
D. COLTRO, L’altra cultura. Sillabario della tradizione orale veneta, cit., p.33.
16
Molto amplia è la documentazione sugli antichissimi riti inerenti le feste dei morti e i sacrifici legati al fuoco in J. G.
FRAZER, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., pp. 712 e ss.
17
Un approfondimento necessario a riguardo della ritualità collegata al grano, si può leggere nel testo di Frazer (Ivi, pp.
481e ss).
18
Il Frazer annota che le principali feste celtiche del fuoco non coincidevano con i solstizi estivi e invernali e di
conseguenza non tenevano conto della posizione del sole. Questo è in parte spiegabile con l’attestazione che i Celti
Analizzando attentamente il calendario contadino si nota subito la quasi perfetta coincidenza fra l’antico rito
celtico e l’usanza contadina. Anche nella tradizione rurale, in un certo senso, i festeggiamenti venivano chiusi dopo
circa dieci giorni, per la ricorrenza di S. Martino, che cadeva l’undici di novembre, data entro la quale i padroni
stipulavano i contratti e i salariati, a volte, dovevano cambiare abitazione.
I festeggiamenti terminavano alla sera della festa con una candela accesa, i vecchi osservavano la direzione della
fiamma e pronosticavano il futuro. L’antica credenza raccontava che l’inverno sarebbe stato asciutto
19
se la fiamma si
fosse inclinata verso sud, mentre se si spostava verso est l’inverno sarebbe stato umido e nebbioso. Anche l’iconografia
stessa di S. Martino riproponeva in chiave cristiana l’antico cavaliere celtico.
Il rito che maggiormente incarna l’arcaica religione pagana è il panevin che si ripropone anche ai giorni nostri
sotto forma di gioco, il 6 gennaio, nelle piazze di paese e nei rioni periferici delle città. Per descriverlo mi sono
accostata a una breve ma significativa ricerca compiuta da Michela Manera, una ragazza di seconda media, il 3 marzo
del 1977 a Quinto di Treviso. La testimonianza è interessante anche perché la donna intervistata aveva, all’epoca,
ottantadue anni e quindi Michela ha potuto attingere a ricordi più lontani nel tempo di quelli che sono riuscita a reperire
io intervistando alcuni anziani. Scrive la Manera:
Durante una intervista fatta ad alcuni vecchi contadini sulle usanze e le feste che venivano fatte in
passato nelle campagne ci ha colpito in particolare il “rito del pane e vino”. Questa “cerimonia” di
origine antichissima si faceva alla befana, ma veniva preparata molto prima. Nel tempo di luglio sia
donne che uomini si avviavano al campo per mietere il grano e quando mancavano che poche spighe
da tagliare il contadino che si era trovato a tagliarle doveva prenderle e portarsele a casa dove ad ogni
una levava i chicchi e li pestava un modo da ottenere la farina. Il chicco all’apice dell’ultima spiga
veniva diviso a metà di cui una parte fatta in farina e un’altra portata al campo dove l’avrebbe
seppellita perché si credeva che in lui ci fosse una divinità che dava alla terra la potenza che
erano, prima di agricoltori, un popolo dedito alla pastorizia. Di conseguenza, le feste più importanti erano legate al
bestiame. Scrive lo studioso: ‹‹La festa d’Ognissanti era forse anticamente la più importante delle due, poiché pare che i
Celti facessero cominciare l’anno da esso piuttosto che dal Beltan. Fino ai tempi recenti il I° novembre (vecchio stile)
era considerato come Capodanno nell’isola di Man (Inghilterra), una delle fortezze dove la lingua e la civiltà celtica ha
resistito più a lungo contro l’invasione dei Sassoni. Così a Ognissanti (vecchio stile) uomini mascherati andavano in
giro cantando, nella lingua locale, una canzone detta Hogmanay […]. Nell’antica Irlanda si accendeva ogni anno un
fuoco nuovo alla vigilia d’Ognissanti o di Samhain e da questa sacra fiamma si riaccendevano i fuochi di tutta l’Irlanda
[…] Non soltanto fra i Celti ma per tutta Europa pare che l’Ognissanti, la notte che segna il passaggio dall’autunno
all’inverno, fosse anticamente il tempo dell’anno in cui si supponeva che le anime dei morti tornassero alle loro case per
riscaldarsi al fuoco e ristorarsi con le vivande per loro imbandite dagli amorosi parenti in cucina o nella sala da pranzo
[…] Anche le streghe corrono allora per i loro malefici intenti›› (Ivi, pp. 737 e ss).
19
Ci sono due proverbi che esprimono chiaramente l’importanza della stagione invernale secca e il pericolo della
stagione invernale umida. Recitano così: “a polvere de genaro a impiena el granaro” (la polvere di gennaio riempie il
granaio). “Ton de febraro chi ga quatro vache ghe ne magna un paro” (temporale di febbraio, chi ha quattro mucche
dovrà mangiarsene due). Testimonianza orale di Silvio Malvestio (1900-1988), zona del Noalese.
consentiva l’anno successivo di dare molto frutto. la farina che il contadino aveva pestata veniva
riposta in un vaso che poi sarebbe stata usata il giorno dell’Epifania.
Nella prima settimana dell’anno i contadini tagliavano i tralci all’uva di Sant’Anna la prima che
nell’anno avrebbe cominciato a fare frutti. I tralci tagliati (‹‹cai››) venivano raccolti in una fascina e
messi da parte. Era la sera dell’Epifania... tutti i contadini con la loro fascina e il vaso di farina si
recavano in piazza dove il più grande proprietario terriero dava il via alla festa: ogni contadino
appoggiava a terra la sua fascina e vi spargeva sopra la farina di grano, poi la raccoglieva e la portava
al centro della piazza e la metteva assieme alle altre: ne veniva una catasta. Quindi colui che aveva più
campi faceva un discorso sull’andamento dell’annata agricola, poi appiccava il fuoco alla catasta e
tutti i contadini giravano attorno in allegria e cantavano : “Era, era, era panera, insieme a pan e vin e
insieme canterem, era, era, era panera..” (Il contadino ci ha detto solo il ritornello perché era molto più
lunga e non si ricordava le altre parole, si parlava però della mietitura). Quando poi il fuoco poco a
poco si spegneva e non rimanevano che le ceneri, gli agricoltori ne raccoglievano una manciata e la
portavano a casa nel vaso che avevano utilizzato per la farina. Il giorno successivo, dopo il pranzo con
un bambino (il più piccolo della famiglia) che portava il segno della purezza, si recavano al campo da
arare dove seppellivano le ceneri. Questo rito si svolgeva al pomeriggio, perché credevano che il
Signore fosse più buono e rilassato e a questo chiedevano che mandasse un buon raccolto , la neve (si
attenevano al proverbio: sotto la neve pane, sotto la pioggia fame) e che non mandasse la grandine.
Agli inizi del novecento né donne né bambini potevano partecipare al rito nel giorno dell’Epifania,
perché dicevano che erano profane e non capivano e credevano come loro alla verità e ai gesti che si
compivano in questa festa. Poi in seguito furono accettate e anche loro presero parte al rito
20
.
Dino Coltro, in L’altra cultura, fa notare che la ‘vecia’ innalzata sul rogo rappresenta la sterilità dell’inverno, la
non fecondità, la strega intesa come forza malefica della natura. Quindi il rito sottende la lotta fra vita e morte, tra
fecondità e sterilità ancestrale presente in tutte le religioni primitive. Nella festività del Panevin si scoprono i culti della
rigenerazione. Ecco perché ho riportato tale documento che ritengo importante come chiave di lettura di tanta parte
della cultura contadina che è poi la base, il substrato dal quale hanno origine le ‘fole’ e le leggende venete. Racconti
narrati non da una persona qualsiasi ma dai cosiddetti ‘contafole’, chiamati anche ‘poeti’, che avevano il compito di
tramandare la tradizione orale.
20
Il documento è stato presentato a un concorso della Coldiretti di Treviso e ha vinto il secondo premio. Ulteriori
informazioni inerenti il rito del ‘panevin’ si possono rintracciare in EMANUELE BELLÒ, El panevin. Tradizioni popolari
della marca trevigiana, Treviso, Celio Libri, 1994, pp. 19 e ss.
Questi narratori erano per lo più contadini analfabeti dotati di molta memoria e soprattutto di
molto gusto per la teatralità, sapevano ammagliare i presenti e accendere la fantasia di coloro che li
stavano ad ascoltare. Ogni volta rinnovavano il loro repertorio con nuove vicende, cambiavano
nome ai personaggi, aggiungevano prove, fatiche, eroi e avversari. Soprattutto inserivano la ‘fola’
nell’ambiente in cui vivevano calandola nella realtà locale. Talvolta facevano l’esatto contrario: a
un fatto accaduto vicino, qualche storia inverosimile, aggiungevano particolari inediti, mutavano
nome e luoghi fino a trasformarla in una leggenda vera e propria.
I ‘contafole’ si presentavano come i portavoce ufficiali della cultura contadina, della letteratura orale espressa
attraverso favole, fiabe, proverbi
21
, aneddoti e portatori di un codice morale molto rigido. Detentori della memoria
collettiva (riti, culti, leggende, regole etiche), tramandavano la tradizione agreste di generazione in generazione. Non
erano solo personaggi specializzati e pagati, all’occorrenza, potevano essere anche mendicanti abituali. Generalmente,
in ogni paese di campagna, abitavano alcuni poveri che giravano di casa in casa a chiedere l’elemosina, questi spesso
erano invitati al filò dal momento che fungevano da notiziario ambulante degli avvenimenti che accadevano in paese o
nel contado. Altre volte potevano essere dei mendicanti sconosciuti che vendevano poche cose o che scambiavano
qualche animaletto, soprattutto cagnolini, per cacciare la martora che si cibava delle galline.
I ‘contafole’ generalmente coinvolgevano l’ascoltatore con domande, indovinelli, sospensioni, improvvisazioni
varie, cenni a fatti accaduti durante la giornata
22
. La narrazione si ravvivava di volta in volta anche se le situazioni
21
Il proverbio è il frutto dell’esperienza generazionale, nasce dopo attente e specifiche riflessioni sui fatti della vita.
‹‹Ha quindi uno scopo didattico e morale; costituisce la regola del comportamento individuale e sociale, secondo la
concezione particolare della vita, propria delle classi popolari. Il proverbio viene, infatti, indicato come la sapienza dei
popoli […] I proverbi più propriamente contadini riguardano il succedersi dei mesi, delle stagioni e della meteorologia:
le condizioni del tempo erano determinanti per l’economia rurale. Il contadino conosceva i fenomeni atmosferici e cerca
di prevederne lo svolgimento, in virtù di una scienza empirica ereditata dai vecchi. Secondo la mentalità contadina,
l’anno nasce, si svolge e muore seguendo un ciclo immutabile. Su questa regolarità ciclica si basano i simboli, i segni
del tempo riportati dal lunario orale (il contadino segue le fasi lunari) e dai quali trae previsioni per le coltivazioni,
conta i giorni di lavoro e di festa, conforma i suoi comportamenti›› (D. COLTRO, L’altra cultura. Sillabario della
tradizione orale veneta, cit., pp. 158, 159).
22
Spiega Coltro:
‹‹Talvolta, nelle stalle, la narrazione delle fiabe era fatta a più voci e assumeva un tono teatrale. Si trattava di una
trasformazione della narrazione in teatro vero e proprio, con la divisione delle parti e la caratterizzazione dei personaggi
e del loro ruolo. Chi interpretava la principessa, faceva la voce da donna, con il tono delle signore; chi assumeva il ruolo
del re, imitava la voce e i gesti del padrone; chi faceva il povero in cerca di fortuna, copiava la figura di qualcuno della
compagnia o se ne inventava una. Il contafole sosteneva la parte del narratore, el tegnea su el filo de la storia.
Questa teatralità del filò trova spiegazione nella cultura contadina e popolare, dove incontriamo una particolare
attitudine teatrale, un tono drammatico che trovano espressione in occasioni e modi diversi. Basti pensare ai cortei
carnevaleschi, alle processioni quaresimali, ai canti di questua, ai calendimaggio, alle sacre rappresentazioni. Le fiabe
raccontate nei filò scaturiscono da una creatività non limitata da regole di recitazione o di drammaturgia, eppure hanno
la forza di suscitare le stesse emozioni di uno spettacolo vero e proprio›› (Ivi, p. 174).
rimanevano sempre le stesse. Così accadeva che la storia o le traversie di qualche personaggio in vista del paese,
diventassero delle ‘fole’ da raccontare la sera durante il filò
23
.
La Chiesa non gradiva i ritrovi serali; i rappresentanti del clero ammonivano periodicamente i fedeli e additavano
i ‘filò’ come luoghi di perdizione. I testi a riguardo presentano un tono abbastanza severo e i contenuti vertono quasi
esclusivamente sul problema della promiscuità fra i sessi. I preti controllavano continuamente i ‘filò’ e soprattutto
puntavano l’attenzione sulla moralità delle ragazze. La Chiesa, dopo la Controriforma, ha sempre considerato la
promiscuità fra uomini e donne come la fonte di ogni male e questo in parte traspare nelle ‘fole’ che hanno per
protagoniste le streghe o le fanciulle. In realtà forse il potere ecclesiastico temeva la cultura alternativa e diversa che si
respirava nei ‘filò’, una cultura poco vicina a quella impartita dalla Chiesa; basti l’esempio degli stessi exempla
rimaneggiati e riproposti in chiave burlesca dal ‘contafole’ di turno.
Ma i ritrovi in stalla impaurivano soprattutto perché offrivano un momento di scambio di idee, di esperienze e di
confronto fra generazioni; erano uno spazio in cui si faceva opinione e cultura e i ‘siori’ temevano una presa di
coscienza da parte dei ‘pitochi’ dannosa per il potere istituito
24
.
3.3 Il ruolo delle donne.
Non si può intraprendere uno studio sulla favolistica veneta senza conoscere la funzione della donna nella cultura
contadina. La maggior parte delle ‘fole’ infatti riveste la donna di un ruolo importante. Si può dire che le donne sono
divise in due categorie ben distinte: o sono buone, brave, belle e angeliche oppure sono streghe cattive, malvagie e
diaboliche. In linea di massima la giovinezza è in connubio con la bontà, l’intelligenza e la fortuna. La vecchiaia con la
stregoneria, la cattiveria, il pettegolezzo. Questi due stereotipi non vanno tuttavia assunti come regola assoluta.
23
Italo Calvino, in Fiabe italiane,‹‹riconosce al Veneto un posto privilegiato, dopo la Toscana e la Sicilia “A fianco
d’esse, appena un passo indietro, per una coloritura di mondo fantastico suo proprio e per l’abbondanza e la qualità del
materiale raccolto, sta a Venezia, anzi a tutta l’area dei veneti”. La tradizione orale veneta fa la sua comparsa con
notevole anticipo sulle altre tradizioni regionali ne Le piacevoli notti di Gian Francesco Straparola, nato a Caravaggio
(Bergamo) alla fine del XV secolo e morto nel 1553.
Le piacevoli notti uscirono a Venezia in due riprese: le prime cinque nel 1550, le altre otto nel 1553. La cornice del
libro ricalca la struttura del Decamerone. Una testimonianza della narrativa popolare più autentica la troviamo in
Andrea Calmo, commediografo veneziano (Venezia ca. 1510-1571) che individua agli inizi del Cinquecento la fiaba
L’uselin belverde, un personaggio dalle infinite trasformazioni e che troviamo diffuso in tutta la fiabistica veneta›› (Ivi,
p. 172).
24
I contadini hanno sempre costituito una classe sociale a sé fino alla metà del nostro secolo, lontani non solo dalla
nobiltà e dalla borghesia ma anche dalla gente di città. ‹‹ La distinzione culturale tra città e campagna si attua in modo
definitivo a partire dall’anno Mille, quando i Comuni avviano il processo di separazione del lavoro urbano da quello
rurale per mezzo di una crescente specializzazione dell’artigianato. Si arriva così alla formazione di due realtà socio-
economiche ben definite: la campagna (‘il contado’, da cui ‘contadino’) fornisce derrate alimentari e materie prime
(lana e legname); la città si afferma come centro di lavorazione dei prodotti finiti e degli scambi commerciali›› (Ivi, p.
18).
Ci sono alcuni detti veneti che recitano così: “xe a femena che pianta o despianta e fameje” (è la donna che
pianta o spianta le famiglie) e “ ‘na femena tien su tre cantoni de a casa, l’omo uno solo” (la donna sostiene tre angoli
della casa, l’uomo uno solo) e si riconduce proprio al fatto dell’importanza della donna nel gestire la casa, la famiglia, le
relazioni con i vicini e con gli altri gruppi familiari.
La donna veneta, in particolar modo la contadina, deteneva il ruolo di custode del focolare domestico e in essa
l’uomo poteva confidare. La ‘mare’
25
, cioè la donna della casa, la moglie del ‘paron’ (padrone), raccoglieva un po’ di
brace dal rogo della ‘vecia’ e lo depositava nella stalla perché le bestie ricevessero la benedizione del fuoco. Ed erano
sempre le donne a preparare il pane per il giorno di Natale. Un pane inteso non solo come cibo ma anche nel suo
significato rituale antico del Sole, simbolo di nascita, di unione fra madre Terra e uomo.
Se è vero che la donna non godeva di molte elargizioni e non aveva diritto di intervenire nei discorsi degli uomini
è anche vero che all’interno delle mura domestiche sapeva come condurre la famiglia ed era spesso una buona
consigliera del marito.
Sempre a confermare l’importanza della donna all’interno della società rurale sono proverbi e aneddoti che in
poche frasi condensano le norme del vivere civile e morale. La donna contadina, custode dell’unità familiare, diviene la
madre del focolare, colei che garantisce la conservazione del fuoco nel suo aspetto religioso ma anche economico. La
famiglia contadina, patriarcale per quanto riguarda il suo rapporto con la società, si rivela intimamente matriarcale
all’interno della casa. La donna rappresenta dunque la stabilità intesa come bene indispensabile alla vita. Soprattutto la
nonna, nella famiglia contadina, diventava il modello da imitare, la maestra di vita per tutti i componenti del gruppo, in
particolar modo per i nipoti. Con l’inizio dell’autunno e i primi freddi, quando le giornate si accorciavano, i bambini
erano soliti sedersi vicino alla nonna che ripeteva le antiche fiabe, apprese a sua volta quando lei stessa era bambina.
La vita della donna in campagna, comunque, non era per nulla facile: una ragazza, appena sposata, doveva
sottomettersi alle leggi della famiglia del marito, obbedire ed eseguire gli ordini della ‘mare’. Fin dalla più tenera età le
bambine imparavano tutto questo e, nel noalese, ad esempio, quando una ragazza si sposava, la suocera si presentava
all’uscio tenendo in mano un mestolo simbolo di autorità. In altre località la sposa regalava alla suocera, il giorno dopo
le nozze, un paio di ciabatte in segno di sottomissione.
La nonna paterna allevava i figli mentre la nuora lavorava nei campi ed era sempre la suocera che provvedeva alle
necessità della coppia secondo le regole della famiglia. Una bambina diventava fin dall’età degli otto anni un buon
sostegno nei mestieri di casa e aiutava a custodire i fratellini.
25
«La parola ‘mare’ è qui intesa come madre naturale ma anche come suocera. Quando la suocera o la madre
mancavano, era la sorella maggiore ad assumere questo ruolo» (D. COLTRO, L’altra cultura. Sillabario della tradizione
orale veneta, cit., p. 47).
Le ragazzine crescevano in fretta e, se erano un buon aiuto durante la stagione della raccolta, diventavano un peso
d’inverno e quindi il padre provvedeva a trovar loro un marito. Infatti, il proverbio dice: “A San Martin xe sposa a fiola
del contadin” (a San Martino si sposa la figlia del contadino) proprio perché se “D’istà a femena juta, d’inverno a xe na
boca in pì” (d’estate la donna aiuta, d’inverno è una bocca in più).
La cultura agreste non vede nella donna la bellezza, la poesia, non si riscontra un’immagine idillica di essa; ella
non è valutata per la sua corporeità nel senso estetico del termine, né come compagna ma bensì come colei che sostiene
la famiglia sia economicamente che moralmente e colei che garantisce la continuazione della famiglia con la nascita dei
figli perciò doveva essere sana, robusta e ben fatta. Questi erano i tre canoni essenziali: “che a tasa, che a piasa e che la
staga in casa” (che stia zitta, che piaccia e che stia a casa)
26
.
Coltro ci informa che ‹‹la donna contadina viveva il suo stato femminile con una convinzione morale che traspare
nei suoi comportamenti, sempre misurato sulle ‘regole’ della tradizione››
27
. La sobrietà caratterizzava ogni gesto e ogni
atteggiamento delle contadine, un modo di vivere la quotidianità evidenziato con un abbigliamento scuro, vestiti pesanti
che non lasciavano molto spazio alla bellezza, né valorizzavano la femminilità delle giovani. Le pettinature raccolte, i
fazzoletti in testa e i grembiuli indossati anche nei giorni di festa, erano il simbolo della condizione femminile del
mondo agricolo.
Al di là della cultura patriarcale, si nascondono secoli di stratificazione a vari livelli. Se, anticamente, le
popolazioni venete erano matriarcali, ben presto, con l’invasione indoeuropea mutarono drasticamente i ruoli e le
posizioni sociali delle donne
28
. Un punto di vista che andò consolidandosi durante i secoli e che iniziò a cambiare
soltanto nella seconda metà del nostro secolo. Già i romani confermano lo stesso prototipo di donna che si riscontra
nella cultura agreste.
26
‹‹“Che cos’era la donna di campagna? Eh, a l’era n’om, a fava tüti ie strapin che i’è ‘ntel mund e bele fait ( Eh, era
un uomo, faceva tutte le faticacce che ci sono nel mondo, e bell’è fatto).
La donna lavorava come un uomo. Comandava però l’uomo in casa. Ordinava Tu va a fare quel lavoro”, bisognava
stare sottomesse, zitta e partire. E poi correre a fare le faccende di casa. Era mica come adesso, ohmi, adesso è un
paradiso in confronto di una volta, allora era un inferno in anticipo›› ( Ivi, p. 55).
27
Ivi, p. 58.
28
PHILIPPE ARIES – GEORGES DUBY, La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille, trad. it. di Maria Garin, Mario
Carpitella, Maria Novella Pierini, Gabriella Vèrnole, Giulia Barone, Carlo Del Nonno, Bari, Laterza, 1988, pp. 8 e ss
(Parigi 1985).
A dodici anni i destini dei maschi e delle femmine si separano, come quelli dei ricchi e dei poveri. I
soli maschi, se sono di famiglia agiata, continuano gli studi: sotto la frusta di un ‹‹grammatico›› o
professore di letteratura, studiano i classici e la mitologia (di cui non si credeva nemmeno una parola,
ma che faceva riconoscere la persona colta); in via eccezionale, qualche ragazza veniva posta dal
padre sotto la guida di un precettore che le insegnava i classici. Ma va detto che a dodici anni una
ragazza è in età da marito […] Se una donna si fa una cultura d’ornamento, sa cantare, ballare e
suonare uno strumento (canto, musica e danza procedevano insieme), sarà lodata, si apprezzeranno i
suoi talenti, ma ci si affretterà ad aggiungere che, nondimeno, ella è una donna perbene. […] In
compenso, la madre di Seneca si era vista proibire dal marito lo studio della filosofia, perché ci vedeva
la via della perdizione
29
.
Nel verificare alcuni aspetti della cultura germanica e franca ci si stupirà nel notare la somiglianza che intercorre
con quella romana e veneta. Dappertutto la donna è sottomessa al marito e deve rimanere in casa a procreare e gestire
l’economia domestica. Per molti secoli ella fu considerata strumento per i legami di sangue fra i nobili e per garantire la
discendenza alle famiglie dei propri mariti. Ecco perché sia presso i Germani che presso i Franchi, la mattina dopo il
matrimonio, lo sposo regalava alla sua donna il morgengabe, ‹‹il nuovo dono, in aggiunta a quelli precedenti […] Esso
vuol essere espressione della gratitudine del marito per aver trovato vergine la sposa, ed è quindi una garanzia che i figli
che essa metterà al mondo non appartengono che a lui››
30
. Questi antichi costumi, in qualche modo, rimasero come
fossili nella cultura agreste e furono contaminati anche dalla religione cristiana che aveva preso piede in Italia già nel
primo secolo d.C. La Chiesa, per molti secoli, tentò di far luce sugli ordinamenti delle popolazioni che avvicinava. Per
esempio, doveva conciliare le sue leggi con quelle di civiltà molto diverse soprattutto per quanto concerneva il rapporto
fra uomo e donna. Infatti, tra i Franchi e i Germani era comunissima la poligamia o il matrimonio preteso con la
violenza e il rapimento delle ragazze. Ecco che, in così difficili situazioni, la donna continuava ad essere rinchiusa nella
sua casa. I primi cambiamenti si notano verso la metà del primo secolo d. C. Scrive Michel Rouche:
Per indicare il sentimento d’amor coniugale, il papa Innocenzo I (411-17), rivolgendosi al vescovo
Vittrice di Rouen, lo chiama charitas coniugalis, espressione difficile da tradurre perché si trattava
evidentemente di un miscuglio fra benevolenza coniugale, tenerezza e amicizia. Altri parlano di
dilectio, amore inteso come preferenza e rispetto. Giona d’Orleans, nel IX secolo, per designare
l’amore coniugale usa costantemente caritas, che comporta ad un tempo una honesta copulatio, vale a
dire una unione carnale ragionevole, lontana da ogni sfrenatezza, e insieme fedeltà e devozione tenera
29
Ivi, pp. 12, 13.
30
Ivi, p. 353.
e disinteressata. Né si tratta, si badi bene, di pii voti, di letteratura moralizzante o di utopia cristiana,
ma di una’autentica battaglia contro il costume diffuso di un amore fatto di desiderio violento
31
.
Dalle constatazioni di Rouche, si può supporre che la cultura agreste abbia assorbito e fatto
propri gli insegnamenti della nuova religione e abbia ritrovato quell’antichissima tradizione della
donna custode del focolare che s’era andata sfumando nei secoli precedenti. Nello stesso tempo,
alcune ritualità primitive continuarono nei secoli e la Chiesa stessa le assorbì come parte integrante
dei suoi precetti. Non si dimentichi infatti che, se da una parte la nuova religione influenzò e
trasformò i riti antichi, dall’altra le arcaiche credenze si inserirono nel cristianesimo.
Con la nuova religione, per esempio, andò sempre più accentuandosi la figura della donna
legata al maligno. Forte della dottrina dei Padri della Chiesa, il mondo ecclesiastico favorì la
credenza che le donne fossero causa del peccato e per questo impartirono una morale severa che,
nel mondo contadino, incapace di controbattere perché tenuto lontano dalla cultura dei dotti, si
fortificò maggiormente rispetto agli ambienti borghesi e cittadini.
Un esempio può essere rintracciato nell’antica usanza di non permettere l’accesso in chiesa
alle donne che avevano appena partorito. Sempre Dino Coltro riporta una testimonianza inerente a
questo aspetto della pratica religiosa: ‹‹Dopo una quindicina di giorni andavo da sola in chiesa dal
prete, due candele sulla balaustra, il prete leggeva, mi benediceva, gli portavo mezza dozzina di
uova. Erano i vecchi che ci facevano andare in chiesa, io a mia volta ho poi detto a mia nuora “Vai
a farti benedire”, perché la maternità era un peccato e toccava andare a farsi benedire dal prete››
32
.
L’idea della donna votata al diavolo penetrò lentamente nell’ambiente cristiano a partire dal
Medioevo per assumere forza sempre maggiore fino a scoppiare nella follia omicida dei roghi che
causò la morte di migliaia di donne e bambine innocenti. Ci informa lo studioso Francesco Bolzoni
che
31
Ivi, p. 363.
32
D. COLTRO, L’altra cultura. Sillabario della tradizione orale veneta, cit., p 56.
I processi continuarono in Italia, in Germania e altrove con molta durezza e con grande macello delle
sventurate streghe. Si vanta, nella sua Daemonolatreia, Nicolò Remigio, consigliere ultimo del duca di
Lorena, d’averne fatte morire novecento nel breve spazio di quindici anni. Con tutto questo, non pare che il
bene pubblico vi guadagnasse. Il cardinale Carlo Lorena, cioè colui a cui Remigio aveva dedicato il suo
libro, scegliendolo a protettore della sua causa, ‹‹morì insensibilmente d’un male reputato malìa››. Quanto
alla Francia, Enrico IV fece bruciare più di seicento stregoni nella sola provincia di Labour, soggetta al
parlamento di Bourdeaux. Tuttavia, la strage maggiore si ebbe in Germania. Narra il gesuita Giorgio Gabat
che nella Slesia, nell’anno 1651, furono incenerite duecento streghe in pochi mesi. In Erbipoli, in poco più di
due anni e cioè tra il 1627 e il 1629, furono decapitate ed arse centocinquantotto tra streghe e stregoni. Tra
essi si contavano quattordici curati e cinque canonici. Attesta il Del Rio che tanta era l’opinione della loro
potenza, particolarmente nell’impedire agli sposi l’uso del matrimonio, ‹‹che in qualche luogo si usava, a
mala pena, celebrare il matrimonio alla piena luce del sole per sfuggire ai malefici››. Per tutto il 1600,
nell’intera Europa, le streghe portarono le colpe di tutte le disgrazie del genere umano
33
.
33
FRANCESCO BOLZONI, Le streghe in Italia, Firenze, Capelli, 1963, p. 32.